Fonte: Il Manifesto
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Cgia di Mestre: un lavoratore autonomo su quattro è a rischio povertà. Un rischio quasi doppio rispetto ai dipendenti
di Roberto Ciccarelli, il Manifesto
Un lavoratore autonomo su quattro è a rischio povertà. Le famiglie delle partite Iva, dei piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, liberi professionisti e soci delle cooperative corrono un rischio povertà quasi doppio rispetto a quello delle famiglie di lavoratori dipendenti. I dati sconvolgenti che la Cgia di Mestre ha diffuso ieri sono utili per disegnare il profilo di un segmento importante del quinto stato in Italia: quello del lavoro indipendente.
Tre milioni e mezzo di persone, tra cui oltre 2 milioni di imprenditori individuali, 959 mila professionisti, 442 mila ditte individuali che beneficiano di un regime fiscale di vantaggio. La destra li considera tutti imprenditori; la sinistra non esita a definirli evasori fiscali. Nelle estremizzazioni prodotte da queste rappresentazioni sociali, su questo ampio e invisibile arcipelago del lavoro si sono scaricate iniquità fiscali e vere ingiustizie previdenziali al punto da avere negato al lavoro autonomo i più elementari ammortizzatori sociali. Oggi la maggioranza di queste partite Iva non sono solo povere, ma escluse dalla cittadella fortificata dove si affrontano la grande impresa e il lavoro dipendente o salariato.
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Dal 2008 al primo semestre di quest’anno gli autonomi che hanno chiuso l’attività sono stati 348.400 (-6,3%) mentre la platea dei lavoratori dipendenti, è diminuita del 3,8%. La Cgia sostiene inoltre che nel 2013 il 24,9% degli autonomi ha vissuto con un reddito disponibile inferiore a 9.456 euro annui, cioè la soglia di povertà calcolata dall’Istat. Per quelle con reddito da pensioni, il 20,9% ha percepito un reddito al di sotto della soglia di povertà, mentre per quelle dei lavoratori dipendenti il tasso si è attestato al 14,4%, quasi la metà rispetto al dato riferito alle famiglie degli autonomi.
Siamo così arrivati al problema: i primi sette anni di crisi non hanno solo sbaragliato la classe operaia, ma si sono abbattuti sul ceto medio. E’ infatti a questa categoria che l’analisi delle classi, come quella statistica, ha assimilato il lavoro indipendente, sia quello professionale che quello della piccola impresa o del commercio. In quanto “ceto medio” il lavoro indipendente sembrerebbe dunque privilegiato. Così non è (più).
I dati della Cgia mostrano una situazione già nota: a causa dei ritardi di pagamento, del crollo delle committenze, dei costi previdenziali e fiscali, oggi le partite Iva vengono chiuse in massa. La situazione peggiore è al Sud: in Calabria, in Sardegna e in Campania. Tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione delle partite Iva nel Mezzogiorno è stata del 9,9% (- 160 mila unità). Segue il Nordovest con il –7,8% (-122.800 unità), mentre il Nordest (-4,3%) e il Centro (-1,3%) fanno segnare delle contrazioni più contenute.
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“A differenza dei lavoratori dipendenti — afferma il segretario della Cgia Giuseppe Bertolussi– quando un autonomo chiude definitivamente bottega non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassaintegrazione in deroga e/o ordinaria/straordinaria. Purtroppo non è facile trovare un altro lavoro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento costituiscono una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.
Anche le partite iva, dunque, sono precarie. A differenza dei precari “tradizionali” occupano posizioni lavorative diversificate: sono monocommittenti e anche parte di una cooperativa. Possono avere una piccola impresa, ma sono anche dipendenti. La pensione, la disoccupazione, la malattia devono pagarsele. Se hanno i soldi.