di Antonio Gaeta, 26 gennaio 2018
Ho terminato la 2′ parte di questo studio, dedicato alla definizione di Arte Magica, scrivendo che in prosieguo cercherò di mettere in risalto gli artisti che hanno colto la necessità dell’unione di ciò che é stato artificiosamente separato nell’animo umano.
La separazione si riferisce alla duplicità (o dualismo espressivo) a cui furono costretti coloro che, dopo la diffusione della cultura patriarcale e dominatrice ad opera dei popoli indoeuropei, si cimentarono e si sono cimentati, anche di recente, nella creazione di un’opera d’arte.
Detta duplicità espressiva si evidenzia nella necessità di attenersi a canoni estetici dettati dal principio dominatore, contestualmente con la necessità di manifestare il proprio bisogno estetico, derivante dalla simbiosi umana con tutto ciò che é vivente e, quindi, oggettivamente e soggettivamente ‘naturale’. Questa capacità di cogliere il sublime nelle relazioni esistenti tra ogni tipo di essere vivente (animali e piante compresi) e apparentemente non vivente (rocce, acque, astri, etc) é l’essenza dell’arte.
Con particolare riferimento a quella figurativa e musicale, l’arte può diventare “magica”, allorché riesce a penetrare l’incantesimo comunicativo, che ha sempre caratterizzato il rapporto tra il materiale e l’immateriale: ovvero tra il percepibile e l’apparentemente impercebile, tra il logico (o razionale) e l’illogico (o irrazionale), tra mente ed anima, tra naturale e sovrannaturale (alcuni direbbero tra particelle subatomiche dotate di massa e particelle subatomiche sprovviste, altri direbbero tra materia ed anti-materia).
Prima di commentare l’esempio di un grande artista figurativo di epoca storica occorre dire che gli artisti appartenuti alle civiltà europee (considerate preistoriche), esistite e sviluppate prima delle invasioni barbariche indoeuropee, ebbero la naturale capacità di cogliere questo tipo di incantesimo, di strapparlo dal suo apparente imprigionamento (capacità imperativa della magia), per renderlo percepibile a tutti. Tali artisti, formatisi in contesti sociali ispirati al mutualismo nei rapporti tra esseri umani, nonché tra umani e sovrumani, più in generale tra esseri viventi (donne ed uomini per primi) e apparentemente non viventi, riuscirono a cogliere quei legami più profondi e più sottili, che ci fanno pensare a possibili capacità “magiche” nella rappresentazione artistica stessa..
Se indaghiamo tra i reperti e gli affreschi della più avanzata (e purtroppo anche ultima) civiltà pre-indoeuropea, ovvero quella minoica di Creta (vedi nota), troviamo rappresentazioni di giovani donne con abiti, acconciamenti ed ornamenti, che potremmo definire ultramoderni, nonché con ben studiate e deliziose aperture sul petto, per mostrare il simbolo più evidente della venerata femminilità. In genere si tratta di giovani donne intente a stabilire idilliaci rapporti con le piante e gli animali, ritratte dall’artista in onore delle elargizioni della Dea. In tutti gli affreschi rinvenuti possiamo ammirare come l’artista stabilisce un rapporto con ciò che considera del tutto meravigliosamente naturale, spesso rappresentato da animali in coppia, come per voler evidenziare il più che magico agire della riproduzione, quale manifestazione più eclatante ed appariscente della Grande Dea.
Grazie ad una più approfondita e consapevole osservazione delle statuine e degli affreschi, é straordinario cogliere in noi il senso della grande meraviglia: quella che oltrepassa le dimensioni spaziali e temporali, cui siamo abituati. La stessa quasi inspiegabile meraviglia, che cogliamo in noi stessi nell’interpretare opere di artisti, che inconsapevolmente si sono ispirati o comunque hanno colto lo spirito dell’Arte Magica pre-indoeuropea, superando i canoni estetici imposti dalle culture dominanti nelle epoche di rispettiva appartenenza storica.
A tale scopo cito ancora il padre del Surrealismo pittorico, Andrè Breton: “Mentre il post-impressionismo.. omisis.. imbocca la via delle concessioni, sia al realismo primario sia allo spiritualismo di stretta osservanza e conoscono un rapido declino, é sintomatico che un’opera come quella di Henri Rousseau, accolta dai lazi del pubblico, susciti nei poeti e negli artisti innovatori – da Jarry e Gauguin a Picasso e Apolinnaire – un interesse che, se dapprima é sorpresa un po’ condiscendente e divertita, ben presto cambierà in meraviglia. Forse é proprio per quest’opera che per la prima volta si é potutto parlare di «realismo magico», certo é che la sua capacità d’urto fu tale che, come é stato detto, essa doveva «rimettere in causa tutto » (Pierre Courthion, ‘Henri Rousseau le Duanier’ , Skira, 1944).
Infatti, – prosegue Breton – la comunicazione che si stabilisce tra questi quadri e noi (o meglio quelli tra noi a cui pregiudizi d’ordine estetico o razionalista non impediscono di vedere) é di un carattere così improvviso e avvolgente, si manifesta con una tale efficacia ed elude con tanto successo ogni tentativo di attribuirla a mezzi conosciuti, che non possiamo non pensare come in essa agisca la ‘casualità magica’. Gli artisti più esigenti del nostro tempo (XX secolo, ndr) hanno avuto piena consapevolezza di questi poteri ! .. omissis.. Eppure – prosegue ancora Breton – anche questi artisti .. omissis.. resteranno a lungo sotto l’influenza della forza ipnotica che avvolge Malakoff, Il ponte di Grenelle, Il pedaggio, L’incantatrice di serpenti*, Il sogno*, senza però riuscire a risalire alla causa del loro turbamento.
Si sarebbe cominciato a padroneggiare il problema solo grazide a certe idee, che si andarono poco a poco affermando e tendenti a dare all’inconscio una realtà del tutto nuova, che ben presto avrebbe fatto la parte del leone. Si trattava, in verità di idee la cui lenta avanzata aveva lasciato nell’800 impronte assai forti, ma che «l’insegnamento ufficiale» (canoni estetici dominanti, ndr) era riuscito a soffocare e che avevano dovuto aspettare il XX secolo, per emergere appieno.”
Sul carattere inconscio ovvero sull’azione dell’«inconscio collettivo», evidenziato in modo particolare nella simbologia del «serpente» e degli altri animali, diremo nella parte IV di questo studio, che esaminerà anche esempi di simbologia imposta da canoni estetici dominanti. Ora ciò che mi preme evidenziare é come il bisogno dell’artista di collegarsi alla magia intercorrente nel rapporto naturale/sovrannaturale possa aver agito non soltanto nelle arti figurative, ma anche musicali.
Su questo penso che non a caso la IX sinfonia di Ludwig van Beethoven abbia riscosso i più grandi riconoscimenti che una sinfonia di musica classica potesse riscuotere, fino alla designazione come “Inno dell’Unione Europea”.
Nei 4 movimenti lungo i quali essa si sviluppa, la sensazione é quella che il celebre maestro abbia voluto inviare un messaggio all’umanità di reinterpretazione dei segreti della vita. Se il 1′ movimento, infatti, nasce quasi in sordina, facendo pensare a qualcosa in gestazione, simile a un concepimento, il 2′ movimento appare come un tipico modo scherzoso di esprimersi del neonato durante la 1′ infanzia e del bambino fino alla pubertà. Con il 3′ movimento, invece, sembra di assistere alla manifestazione della fatica del vivere da parte di un adulto, che tuttavia, rimugina qualcosa: forse un atto di ribellione ai metodi imposti ed ai canonici stili espressivi. Infatti, con il 4′ movimento (quello in cui é inserito anche il corale ‘Inno alla gioia’ di F. Schiller) Beethoven sembra voler rivelare a tutti gli esseri umani il segreto e la magia della via. Egli lo rappresenta riprendendo i motivi musicali dei movimenti precedenti, esaltandoli e convogliandoli in una straordinaria ascesa sonora (come per volerli rivisitare, per riportarli all’unico sommo significato della sinfonia), che coinvolge non solo tutta la strumentistica, ma anche coro, solisti e pubblico. Quest’ultimo estasiato sembra capire anch’esso l’essenza della maestosa gioia: ovvero la scoperta della ‘magia del vivente’, che finalmente trova il canale di comunicazione con il divino e sembra essere corrisposto, giacché non più soltanto il conduttore, ma tutto definisce e partecipa alla grande sinfonia della vita !
NOTE:
Civiltà minoica – Marija Gimbutas nel saggio “La civiltà della Dea – Il mondo dell’antica Europa” – Vol. 2′ (Stampa Alternativa) – dopo aver documentato molti reperti e ricostruzioni di piccole città e villaggi (di cultura matrilineare, pacifica e mutualistica, ndr), sparsi in tutta l’odierna Europa centro-orientale (tra l’VIII e il IV millennio a. C.), a proposito di Creta minoica la grande archeologa scrive: «La cultura dell’antica Europa continua sull’isola di Creta, ancora per diversi millenni, rispetto al continente e raggiunge una magnifica fioritura nella prima metà del II millennio a. C. La cultura monoica é stata descritta da Sir Leonard Volley come “incantesimo nel mondo delle fate” e “la più completa accettazione della grazia della vita, che il mondo abbia mai conosciuto”. (Forse anche per questo Platone la indicò come la mitica e scomparsa Atlantide. Ndr).
Le comunità minoiche – prosegue M. Gimbutas – furono generalmente di piccola entità, sebbene alla fine del II millennio a. C. la popolazione si avvicinasse ai 18.000 abitanti. Il Paese fu governato da una tea-crazia (governo della Dea). Questa più che sorprendente cultura entra in declino dopo la metà del II millennio a. C., non per conflittualità interna, ma per catastrofi naturali sommate alla graduale invasione dell’isola da parte dei micenei (da Micene): una popolazione patriarcale di lingua e cultura indoeuropea» (la stessa che assieme con tutti gli Achei assediò e distrusse Troia) Vedi https://www.nuovatlantide.org/ilio-significato-della-nuova…/
* – quest’ultimi due riportati tra le immagini allegate