di Antonio Gaeta, 26 gennaio 2018
Ho concluso la prima parte sull’inesplorato argomento dell’Arte Magica, scrivendo che il padre del Surrealismo, Andrè Breton si sia avvicinato molto alla grande importanza del valore artistico/culturale delle prime civiltà in età neolitica. Lo stesso Breton si sofferma sul tentativo di sviscerare il più profondo significato del termine “magia”, al fine di poter meglio individuare il carattere magico di molte opere d’arte, anche successive alle civiltà neolitiche, non ancora accettate dalla storiografia ufficiale (nonostante l’abbondanza di reperti archeologici e di altri tipi di testimonianze, come i caratteri alfabetici) !
Dopo aver asserito che, non solo nella preistoria, magia e religione si confondono spesso, anche a causa di una comunanza di simboli, Andrè Breton scrive che: “Uno dei caratteri della magia (intesa come pratica) é quello di essere «assolutamente imperativa», ed é proprio in questo che essa si differenzia dalla religione. Si presume, infatti, che le forze o potenze invocate non possano sottrarsi a ciò che si vuole ottenere da esse.. omissis”. Il rito magico dice J. Maxwell «é espressione di una volontà forte, che affermata in ogni particolare del rito tende all’assoggettamento di esseri sovrannaturali o al dominio di forze naturali, abitualmente sottratte al potere dell’uomo». Al contrario, la religione tende a «propiziarsi o a conciliarsi con le potenze superiori» (per condividerne il potere contro altri uomini, ndr). “All’ingiunzione dell’incantesimo (magico) essa oppone la preghiera. La magia presuppone la protesta, anzi la rivolta – asserisce Breton – Invece, la religione presuppone quanto meno una grande rassegnazione: da essa l’uomo deve aspettarsi solo implorazioni e penitenze, che egli stesso si infligge. Nella religione l’umiltà dell’uomo é totale, perché essa lo sprona a ringraziare (anche per le sue disgrazie) la potenza che si é rifiutata di esaudirlo !”
Da qui la sottomissione al potente, che riesce a farsi riconoscere come prediletto da un dio ! Il rischio per entrambe (la “magia” e la “religione”) é quello di mantenere separatezza tra umanità e potenze divine o spiriti magici: esattamente ciò che nella produzione di “arte magica” non é accettabile, giacché la sua peculiarità é quella di stabilire una sorte di unione tra le potenzialità umane (arti, ndr) con quelle divine o comunque superiori. Anche nella religione della Dea il Re Sacro, inizialmente, sacrificava la propria vita, per ricongiungersi con la Dea, sicuro di rinascere. Soltanto dopo il prevalere delle culture indoeuropee questo rito divenne un semplice rituale, strumento di potere personale ! Ma chi rappresentò più di ogni altro l’intimo legame tra la potenza creativa del divino e la magia dell’essere vivente fu senza dubbio l’artista !
Scrive Riane Eisler in “Il calice e la spada – La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi” (Edizioni FORUM): “L’arte del Neolitico, e ancor più la successiva arte minoica (ovvero quella dell’ultima civiltà matrilineare europea, ndr) sembra esprimere l’idea che la funzione primaria delle forze misteriose, che governano l’Universo, non sia quella di ottenere obbedienza, punire e distruggere, ma semmai di elargire.
Sappiamo che l’arte d’ispirazione mitologica o religiosa, riflette non solo gli atteggiamenti di un popolo, ma anche la sua peculiare forma di cultura e di organizzazione sociale. L’arte incentrata sulla Dea sembra riflettere un ordinamento sociale, in cui le donne svolgevano un ruolo centrale, dapprima come capi-clan e sacerdotesse, in seguito con altrettanti importanti incarichi pubblici.. omissis.
E’ ragionevole, quindi, dedurre, non essendoci allora una glorificazione di deità maschili colleriche, di sovrani con armi e folgori, o di grandi conquistatori, che trascinavano schiavi abietti in catene, che ciò avvenisse perché nella vita reale non esisteva il corrispondente di queste immagini. Se la principale immagine religiosa era quella di una donna che partorisce e non quella di un uomo che muore in battaglia o su una croce, si può ragionevolmente dedurre che nelle società e nelle arti neolitiche prevalessero la vita e l’amore per la vita, anziché la morte e la glorificazione o la paura della morte !”
Possiamo, allora, capire come l’artista chiamato a rappresentare la più importante elargizione che la Dea potesse fare, si ispirasse a una donna gravida o partoriente. In quella rappresentazione egli riusciva ad unire la magia degli esseri viventi con la concretezza di un’organizzazione sociale foggiata sul mutualismo tra uomini e donne, sigillato dalla profonda comune appartenenza tra umano e divino: appartenenza espressa dall’arte, che nelle sue manifestazioni ne coglieva i momenti più magici e misteriosi.
Contraraiamente a ciò che molti media cercano ancora oggi di avvalorare, l’indole umana non é caratterizzata dalla forte volontà di dominio e di privilegio (che implicano separatezze) ! Quest’ultimi sono tratti emersi per la prima volta con l’avvento e l’evolversi delle vicende «storiche»: quelle documentate dalla storiografia ufficiale, che sappiamo essere sempre stata un’arma in possesso dei popoli vincitori e in particolare dei loro condottieri. Da qui la comprensibile enorme difficoltà degli artisti di ‘epoca storica’ di rappresentare nelle loro opere un collegamento tra l’umano e il divino. Ovvero di cogliere il ‘mistero’ e di esprimere la magia che lo circonda, nella rappresentazione di ciò che é vivente. Questa possibilità di collegare il vivente con il divino fu interrotta dalla cultura elogiativa della morte eroica. In tutto ciò che elogia il guerresco e l’eroismo di chi ‘uccide meglio’ e ‘di più’ la dimensione magica del vivente scompare completamente. Se tutti i veri grandi artisti hanno ricevuto riconoscimenti soltanto molto tempo dopo la loro morte, é perché essi con le loro opere nel cogliere (al pari degli artisti neolitici) l’essenza magica della vita, hanno inevitabilmente oscurato i falsi valori dell’eroismo e della morte in guerra, da cui hanno tratto vanto, prestigio e potere i dominatori, fino ai giorni nostri.
Come esempio di superamento di questa grande difficoltà Andrè Breton dice che il suo amico Robert Lebel cita le opere di due pittori da considerare “culminanti e che al disotto della loro estrema dissimiglianza celano il segreto di una comune virtù”. Infatti, pur essendo distanti le loro appartenenze geografiche, «Nell’opera di questi due pittori – a proposito dei quali si resta anche sorpresi nel constatare che furono esattamente contemporanei – Hieronymus Bosch e Leonardo da Vinci – su quei miraggi proteici ed effimeri si erano saldamente innestati i dati precisi dell’ermetismo. Per loro la doppia immagine diventa la base di un sistema del mondo e la chiave di una vera e propria cabala figurativa. Entrambi hanno l’ossessione dell’unità: Bosch l’esige morale e Leonardo la reputa naturale. Nel primo, i cui quadri illustrano quasi tutti la maledizione dell’ibrido, l’antropomorfismo composito offre prospettive infinite allo sviluppo dei simboli. Tra i tanti esempi evidenti, basterà ricordare la ‘casa a forma di uomo associato’ nella ‘Tentazione di Sant’Antonio’ di Lisbona e ‘l’uomo alchemico’ formato da due alberi cavi e dal guscio d’uovo nel ‘Giardino delle delizie’.
Leonardo, al contrario, inscrive deliberatamente la doppia immagine all’interno della forma (vedi androgino, ndr). Dopo aver portato la natura estrema al culmine della facilità espressiva, egli si preoccupa di mantenerne intatta la complessità, evocando le sue divergenze strutturali. Alla necessità di un ibrido esterno, quale garanzia dell’unità metafisica in Bosch, Leonardo risponde nella ‘Strega che si guarda in uno specchio’ con un ibrido interiorizzato, che é l’inverso di un viso mirabilmente liscio».
A partire da queste due esaltanti esperienze d’arte figurativa, in prosieguo cercheremo di mettere in risalto tutti gli artisti che hanno colto la necessità dell’unione di ciò che é stato artificiosamente separato nell’animo umano.