L’accelerazione politica di Renzi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gabriele Pastrello
Fonte: facebook

Dopo la prima parte (PARTE I. LA SCALATA) di una riflessione di Gabriele Pastrello (SAN GIOVANNI. UN WAS DANN?) che prende le mosse dalla grande manifestazione di Piazza S. Giovanni e ripercorre sinteticamente le tappe della scalata di Renzi fino alla Segreteria del PD, pubblichiamo la seconda parte L’ACCELERAZIONE  “dedicata all’accelerazione politica che Renzi ha impresso alla vita politica del paese con le tappe della sua iniziativa politica recente e le varie risposte che sono state date a questa resistibile ascesa, fino a delineare il progetto implicito in questa scalata”.  Antonio Napoletano

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di Gabriele Pastrello – 11 novembre 2014

PARTE II/A L’ACCELERAZIONE

PREMESSA. LA RINCORSA DELLA LEGITTIMITA’.
La crisi dell’aprile 2013, col fallimento del tentativo Bersani di formare un governo, la bocciatura dei due candidati alla Presidenza della Repubblica, Marini e Prodi, la formazione del Governo Letta, le dimissioni di Bersani da Segretario PD e l’elezione di Epifani al ruolo, avevano aperto una gravissima crisi di legittimità nel governo e nel maggior partito del Paese.

(Nel ragionamento politico ‘legalità’ e ‘legittimità’ sono più o meno negli stessi rapporti di ‘legge’ e ‘giustizia’ in quello giuridico; si sa la ‘legge’ non è sempre è ‘giusta’)

Quindi, non crisi di legalità: il Governo Letta aveva avuto la fiducia delle Camere, come previsto dalla Costituzione; ed Epifani era stato eletto Segretario secondo le procedure previste dalla Statuto PD. Ma, se tutto era a posto, niente era in ordine.

Dagli anni Novanta, infatti, l’opinione pubblica aveva accettato l’idea, estranea alla Costituzione, che il presidente del Consiglio dovesse ricevere un’investitura popolare diretta, e che quindi Presidenti del Consiglio parlamentari, non risultanti da un voto, ma dal venire a meno di una maggioranza parlamentare e dal formarsene di un’altra (fatto normale nella Prima Repubblica, e costituzionalmente legittimo) in realtà soffrissero di una mancanza di legittimazione.

Era il frutto dell’intensa propaganda politico-costituzionale berlusconiana (iniziato nel 1994 con la violenta campagna contro il cosiddeto «ribaltone»: la sfiducia al primo governo Berlusconi nel dicembre 1994) che voleva, infatti, spianare la strada all’accettazione popolare di regimi di tipo presidenziale. La cosa era stata accettata dal centrosinistra che, già dalle elezioni del 2001, aveva messo sulle schede il nome del candidato (Rutelli; uno dei tanti cedimenti ‘ideologici’ delle formazioni di sinistra di cui è costellata la storia di questi ultimi vent’anni).

Date le premesse del giudizio pubblico diffuso (espresso o inespresso, è indifferente), quindi, Presidente del Consiglio e Segretario PD erano in difetto di legittimazione: il primo non era stato votato dagli elettori a quella carica. Il secondo non era stato votato alle primarie, e quindi era necessariamente ‘transitorio’.

Tutta la scalata renziana è segnata, sia nelle tappe già attuate, che in quelle future, dalla rincorsa a sanare la carenza di legittimità. Il Governo Letta, per esempio, era doppiamente non-legittimo: Letta non era stato designato da un voto popolare come Presidente del Consiglio, ma neppure era stato designato dagli elettori delle primarie PD a essere il loro candidato a quella carica. Debolezza mai dichiarata esplicitamente, ma che si rifletteva inconsciamente in una costante svalutazione pubblica (immeritata, peraltro) della persona del Presidente (svalutazione alimentata anche da Renzi con i suoi tweet ‘scherzosi’) e del suo governo. Per di più neppure l’alleato di governo delle ‘larghe intese’ del Governo Letta, dal settembre 2013 in poi, l’NCD di Alfano, godeva di legittimità popolare, frutto com’era di una scissione politica parlamentare. E tre (vuoti di legittimità).

Ovviamente tutti questi giudizi sono formulati in base alla logica plebiscitaria, introdotta da Berlusconi, non contrastata dalle forze di centro-sinistra (da qualcuno nell’area sottovalutata, e da altri invece più o meno apertamente sostenuta), e ovviamente cavalcata da Renzi. E comunque largamente accettata, con più o meno convinzione, nell’opinione pubblica. La Costituzione non lo dice, ma buona parte della popolazione lo crede. In questa forbice, aperta da Berlusconi, e che le forze di centro-sinistra non hanno mai saputo, o voluto, chiudere, si è inserito prepotentemente Renzi.
Ecco quindi che le primarie del dicembre 2013 costituivano il primo passo del processo di recupero della legittimità politica. Almeno il Segretario PD era di nuovo quello investito dal proprio popolo: il popolo degli ‘elettori’ delle primarie (non degli ‘iscritti’).

Il secondo passo, la scalata al Governo. Ci sono state polemiche, nei mesi precedenti, sul fatto che le primarie del dicembre avesero designato ‘solo’ il Segretario del partito; e quindi, si concludeva, non vi erano motivi di mettere in discussione il Governo Letta. Dal punto di vista della prassi politica e di governo ordinaria, per di più costituzionalmente in regola, ovviamente no. Ma, dal punto di vista delle legittimità ‘plebiscitaria’, ovviamente sì.

Accettare o meno questa divisione del lavoro, partito-governo, del tutto ragionevole anche per la stabilità istituzionale e politica del Paese, stava nello stile e negli obiettivi politici del Segretario. Ma per quel che riguarda lo stile, non vi è dubbio che il lato ‘plebiscitario’ sia dominante, se non unico, nel personaggio Renzi; e anche gli obiettivi non aiutano la stabilità, fin dai tempi della scalata.

Il Segretario Renzi era di nuovo un segretario legittimo, ma era al tempo stesso, legittimamente, secondo Statuto, il candidato alla Presidenza del Consiglio. Carica occupata da chi non aveva alcun titolo di legittimità ‘plebiscitaria’ (anche se aveva quella ‘costituzionale’). Ovviamente si poteva soprassedere. Non Renzi.

E qui si vede anche l’errore politico di Bersani. Le primarie del 2009 non lo avevano investito solo Segretario, gli avevano dato anche l’investitura per le successive elezioni politiche, quelle del 2013, che nell’estate 2012 dovevano aver luogo di lì a poco. Al limite, fosse accaduto due anni prima, si sarebbe potuto dire: le condizioni politiche sono talmente cambiate, dal momento delle primarie, che non si può reggere altri due anni in una sospensione di legittimità.

Ma le elezioni erano solo dopo pochi mesi. Non c’era alcuna ragione per revocare la legittimità dell’investitura. E non bastava l’esistenza di una ‘sfida’ alla Segreteria (la campagna sulla «rottamazione»). Là dove questo procedura è la regola (in Gran Bretagna) la sfida viene lanciata ‘dopo’ una sconfitta elettorale (e non ‘prima’ delle elezioni, col rischio di perderle), o con largo anticipo rispetto a un appuntamento elettorale (la Thatcher fu sostituita, in seguito a imponenti proteste nel paese, due anni prima delle elezioni del 1992, da John Major, che le vinse).

Ma Bersani, Segretario per investitura plebiscitaria, ‘interpretò’ la carica come il Segretario di un partito della Prima Repubblica. E rovinò.

Quindi, se lo Statuto designava Renzi, una volta eletto, come ‘naturale’ candidato a Presidente del Consiglio, diventarlo successivamente significava sanare, quantomeno in parte, quella mancanza di legittimità. Occupando la carica di Presidente del Consiglio, Renzi vi portava il legittimo candidato del PD. Ma per Statuto il candidato si doveva poi sottoporsi al vaglio ‘universale’ delle elezioni politiche.

Renzi, invece, godeva sì di un’investitura ‘plebiscitaria’, ma con due limiti: non era ‘formalmente’ politica (era un atto interno di partito) ed era, quanto alla dimensione, limitata al ‘popolo del PD’. Il passo successivo assolutamente necessario, in quella logica, era quindi di sanare quantomeno il difetto di ‘dimensione’ della sua legittimazione plebiscitaria (per sanare la mancanza di ‘forma’, erano necessarie nuove elezioni politiche; ma era un passo ancora lontano).

Le elezioni europee erano quindi il banco di prova obbligato per conquistare una legittimazione, per ‘dimensioni’, universale, popolare. Certo non erano elezioni politiche, ma non erano nemmeno un sondaggio, era un’elezione: dove l’elettore esercita una scelta, per quel momento, ‘irrevocabile’.

Resta, ormai, solo l’ultimo passaggio, per l’ottenimento della piena legittimità della sua azione di governo. Le elezioni politiche. In linea di principio, Renzi non può reggere, in carenza di piena legittimità, fino al 2018. Poi magari andrà avanti, se non potrà fare altro. Ma non è nella logica della sua azione politica. E non solo perché non controlla politicamente in pieno gli eletti PD del 2013 al Parlamento, eletti in base agli equilibri politici di partito precedenti le elezioni del 2013 (per quanto equilibri mutati, anche tra quelli, a suo favore).

Non può reggere perché, avendo dichiarato di voler ‘rivoltare l’Italia come un calzino’, gli manca la legittimazione plebiscitaria ‘politica’ definitiva, da usare come ‘arma letale’ contro tutti gli oppositori. Certo, sta usando quella ‘virtuale’ delle europee. E anche con molta determinazione. Ma la mancanza del suggello politico ‘finale’ si sente. Solo quello gli darà mano libera.

L’ACCELERAZIONE 1. DAL NAZARENO ALL’EUROPA.

Dalla vittoria alle primarie l’8 dicembre 2013 a oggi è stato una sequenza pirotecnica.

Le danze cominciano il 2 gennaio 2014 con una lettera aperta alle forze politiche sulla riforma della legge elettorale, che propone tre opzioni. Grillo declina, ma Berlusconi lo stesso giorno si dichiara entusiasta. Da quel momento è stata una sequenza incalzante.

Qui non si tratta di commentare in dettaglio i vari passaggi, ma di mettere in evidenza la direzione politica dei continui rilanci. La cui serie possiamo enunciare con una sequenza di tappe politicamente significative: accordo Nazareno (gennaio), scalata Governo (febbraio), ingresso PD nel PSE (febbraio), approvazione Italicum (marzo), abolizione Provincie (marzo) Jobs Act_1 (decreto Poletti; marzo, conversione: maggio), provvedimento 80 Euro (aprile), elezioni Europee (maggio), campagna nomine in Europa (luglio-agosto), riforma Senato (agosto), Jobs Act_2 (settembre-ottobre; abolizione dell’art 18), DEF (ottobre; il Decreto Economia e Finanza, con lo sgravio sull’Irap). Un notevole attivismo.

Troppo spesso si polemizza sui troppi annunci, o i pochi fatti. Non è mai così con Renzi. Magari i fatti sono solo inizi di fatti, germi di sviluppi futuri, ma sono fatti. Annunci – tanti, inutile tentare di seguirli – e fatti sono tutti funzionali, e intrecciati. Naturalmente il tutto immerso in una azione tattica rapidissima, mai programmata. Con l’obiettivo di «costruire ‘un’ pubblico» da ‘molti’ pubblici; già visto nella scalata berlusconiana (edilizia – Milano 2 -, assicurazioni, televisioni locali, calcio, grande distribuzione – Standa, Rinascente -, telegiornale ‘nazionale’ – decreto Craxi -, editoria – Mondadori -, 1993: finalmente, politica).

Anche Renzi lo fa, metodicamente, cercando di tenere insieme ‘pubblici’ eterogenei. Questa è la chiave di lettura della sua azione di governo.

Anche se la lista delle accelerazioni è stata compilata in ordine cronologico bisogna cominciare dalla scalata al Governo. Della sequenza di avvicinamento sappiamo già tutto. Le promesse di lealtà, gli ‪#‎enricostaisereno‬, le polemiche sulle larghe intese, etc. Fino alla Direzione del PD che il 13 febbraio dichiara la necessità di una vaga nuova fase. Documento su cui 136 voteranno a favore e 16 contro (solo Civati, tra i leader, votò contro); il 24 e 25 febbraio il Governo Renzi otterrà la fiducia alle Camere (voto seguito da un gelido e fulmineo passaggio di consegne tra Letta – che aveva rifiutato di facilitare il proprio rovesciamento dimettendosi prima della Direzione, come richiestogli – e Renzi).

Del processo di formazione del Governo l’episodio più importante sono le tre ore di ritardo nell’annuncio della composizione al Quirinale. Einaudi diceva che il Presidente è un notaio. Mentiva sapendo di mentire. Il Presidente ha potere di firma; può negarla. Ma tutto il processo di moral suasion avviene di regola prima, nei rapporti discreti tra Presidente incaricato e Quirinale. Qualcosa non aveva funzionato, se si dovette discutere tre ore su due ministri cruciali: Finanze e Esteri. Napolitano riuscì a imporre un ministro esperto alle Finanze, Padoan, e Renzi il proprio ministro ‘inesperto’ agli Esteri, la Mogherini.

Ma l’evento più interessante del 24 febbraio è avvenuto lontano da Roma, a Bologna. Lì, il giorno della fiducia al Senato, Bill Emmott, ex-direttore dell’Economist, presenta un suo cortometraggio sull’Italia. Durante la presentazione dirà che la rimozione di Letta è un ‘assassinio’ politico, e che Renzi ne pagherà il fio. Bisogna ricordare che Bill Emmott è il direttore della copertina su Berlusconi: ‘Unfit to Rule’. Il termine unfit non si riferisce a capacità, ma a inadeguatezza. Di che tipo? Etico-politico suppongo. Basta ricordare la stretta vicinanza di Berlusconi con Marcello Dell’Utri, condannato per Mafia. Non è una vicinanza che sarebbe ammissibile in altri paesi. Ma la cosa rilevante è che Bill Emmott fa questa dichiarazione il giorno della fiducia, conseguenza politica dell’accordo del Nazareno. Gettando su Renzi l’ombra della condanna politica a Berlusconi.

Torniamo quindi all’accordo del Nazareno e al suo più importante risultato: l’Italicum, la legge elettorale. L’accordo come tale è misterioso e suscita i peggiori sospetti (confermati dalle trattative su una modifica alla legge Severino che consenta la riammissione di Berlusconi in Parlamento). Una conseguenza probabile dell’accordo, che si intravvede solo a tratti, è la ‘garanzia’ che in caso di bisogno i voti ‘azzurri’ andranno in soccorso del Governo; neutralizzando i possibili voti contrari delle opposizioni interne. Il che’ ovviamente non esclude una politica dei ‘do forni’ con 5 Stelle. Ma il fatto rimane che l’accordo è stato sottoscritto, immediatamente dopo le primarie, ‘solo’ con Berlusconi, senza alcuna discussione previa, quindi con una ‘preferenza’ per lui tanto esplicita quanto ‘inspiegabile’.

Ma mi limiterò qui all’Italicum. Perché riguarda un aspetto cruciale del primo periodo del Governo Renzi: la modifica degli assetti costituzionali del paese.

Anche i tempi dell’accordo del Nazareno sono abbastanza strani. Una rapidità mai vista di proposta e accettazione, su una questione di così radicale importanza come un accordo sulla Legge Elettorale. Le Commissioni Bicamerali sulle riforme costituzionali sono naufragate dopo anni di discussioni inconcludenti. Qui, in quindici giorni si trova l’accordo. La sensazione che fosse già pre-cotto è forte. E comunque anche il contenuto è dubbio. La Corte Costituzionale ha detto che il premio in seggi alla coalizione vincente senza specificare il livello da raggiungere perché scatti, che deve essere adeguato, è incostituzionale.

La risposta è stata un minestrone di leggi elettorali di vari paesi: i collegi piccoli alla spagnola, premio all’italiana con livello à la carte (come piace al cliente), e sbarramenti alla tedesca. In realtà sbarramenti all’italiana, differenziando a seconda che i partiti siano o meno in coalizione. Quindi i voti di un partito valgono più o meno a seconda che stia in un’alleanza o meno. Ha tutta l’aria di un profilo di incostituzionalità. Prima approvazione in marzo. E poi?…

Primo passo: l’entrata nel PSE; copertura a sinistra. In realtà processo iniziato addirittura da Franceschini e sviluppato fino alla conclusione (mancava solo l’occasione ufficiale del Congresso PSE a Roma, il 1 marzo) da Bersani e Epifani. La presenza di Renzi è servita solo a tacitare l’ultimo ‘giapponese’ anti-PSE, Fioroni. Il che gli ha permesso, però, di attribuirsi il merito, non suo, di aver sanato il profondo disagio dell’elettorato di sinistra che si era visto, dall’ostinazione di Rutelli, separato dal suo sbocco ‘naturale’ europeo.

Abolizione Provincie; copertura a destra. Soprattutto per le argomentazioni, dando soddisfazione alla viscerale campagna sui costi della politica. Ma c’è anche un suggerimento di indirizzo costituzional-politico: l’abolizione o comunque la neutralizzazione dei corpi intermedi. Infatti, il vero contenuto della ‘abolizione’è la sostituzione di organi elettivi con organi non-elettivi; senza autonomia politica, e con una drastica riduzione dei fondi, e dei servizi. Coerente con il progetto di legge elettorale e l’abolizione del Senato.

Per il momento, sembrano provvedimenti di immagine. Come l’abolizione delle ‘inutili’ Provincie; in realtà non lo sono ma lo si vedrà meglio nel seguito.

Con il decreto Poletti, prima parte dello Jobs Act si entra nel vivo. Non solo immagine, ma anche strategia di ridefinizione del corpo sociale; attraverso il rapporto con il lavoro. Sperimentando in grande, inoltre, uno stratagemma cruciale della scalata renziana: l’opposizione tra parole e fatti (si dice una cosa, si fa il contrario).

Con la prima misura del Jobs Act si riforma l’ingresso nel mondo del lavoro, regolando i contratti precari e il passaggio a quelli stabili. Stabilizzazione, che sarebbe l’obiettivo dichiarato della misura. Ma il punto cruciale del contratto è la sua estensione a tre anni, prima della stabilizzazione. Con la conseguenza, pressoché inevitabile, che la domanda di lavoro di breve periodo, cui risponde quel contratto precario, fa tempo a esaurirsi. Solo imprese lungimiranti, con strategie espansive di lungo periodo, e responsabili, non saranno indotte dalla fine del ciclo di crescita a chiudere il rapporto precario senza stabilizzazione. Una minoranza.

Pubblico: i giovani. La propaganda massiccia del Governo, come provvedimento per i giovani, cancella la realtà della misura: il precariato a vita per le future generazioni (a meno che non arrivi una ripresa mondiale sostenuta e permanente). Inoltre, quanti giovani, avendo avuto un anno di orizzonte di contratto (legge Fornero), dicono: almeno adesso sono tre anni? É umano che lo pensino.

Ma il vero capolavoro è stato il provvedimento degli 80 euro. Pubblico: tutti. Non abbienti, destra e sinistra; per tutti gli altri: ecco il rilancio dell’economia. E per la sinistra, il racconto che il bonus consistesse in una redistribuzione da capitale a lavoro. Una favola. Il bonus, di circa 10 mld, è stato finanziato quasi tutto con i soliti tagli, che cadono su fasce medio-basse, e aumenti di imposte indirette. Di necessità così, perché si doveva fare senza toccare la percentuale del 3% del deficit.

Da una tasca all’altra. Effetto economico zero. Come si è visto solo pochi mesi dopo.
Ma effetto politico garantito: ‘tutti’ vedono gli 80 euro che arrivano. Domani qualcun altro, che non si sa chi, ce li rimetterà. Ma intanto il risultato in termini di immagine e di voti è assicurato. Domani è un altro giorno.

Nazareno, Governo, ingresso nel PSE, Italicum, abolizione Provincie, decreto Poletti, 80 Euro. Il risultato di questa marcia a tappe forzate si è visto il 25 maggio: PD, 40,8%. Terza tappa di rilegittimazione: fatto.

L’ACCELERAZIONE 2. DALL’EUROPA AL SENATO.

Finalmente una legittimazione di massa, dopo le elezioni europee. E quindi, il tiro viene alzato. Su tutto: sulle cariche in Europa, sulle riforme costituzionali, ma soprattutto sul secondo tempo del Jobs Act. Non quello dichiarato, ‘misure per il lavoro’; ma il ‘vero’ contenuto: la resa dei conti sull’art. 18.

Ricordiamo la sequenza: campagna d’Europa (luglio-agosto), riforma Senato (agosto), Jobs Act_2 (settembre-ottobre; abolizione dell’art 18), DEF (ottobre; il Decreto Economia e Finanza, con lo sgravio sull’Irap). Qui vedremo solo i primi due passaggi: l’Europa e il Senato.

Il PD è stato l’unico partito del PSE ad aver registrato un successo elettorale; e per di più notevole. I partiti del PSE francese, tedesco e inglese hanno invece perso terreno, e questa perdita ha bruciato le prospettive di una Presidenza Schulz. Prospettiva bruciata, peraltro, proprio anche dal primo intervento di Renzi in Europa, dopo le elezioni. A essere onesti, Renzi aveva bocciato ambedue le candidature dei due partiti maggiori, sia Schulz che Juncker. Una mossa che chiaramente ripeteva le tattiche di spiazzamento tanto efficaci in Italia. Ma gli antagonisti non erano gli stessi, come si è visto in seguito.

Qui una breve digressione s’impone. Renzi non aveva fatto nessun nome alternativo. Ma il suo intervento faceva ricordare lo strano episodio in Italia, da parte del Sole24Ore, del lancio della candidatura, totalmente irrituale, della signora Lagarde, presidente del FMI, alla Presidenza della Commissione. Irrituale, perché invece il Trattato di Lisbona stabilisce che il Consiglio europeo, l’organismo dove contano gli Stati, cui spetta designare la candidatura da mettere ai voti in Parlamento, deve ‘tener conto’ delle elezioni. E la Signora Lagarde, non poteva essere né candidata né votata.

Candidatura del convitato di pietra delle elezioni europee: gli USA? Poi fu Tsipras a dire: no, dobbiamo tener contto solo dei candidati votati. La Merkel tacque per un po’, poi disse Juncker, e così fu. Ma la stranezza rimane agli atti. Come la domanda su quale scacchiere mondiale stia giocando Renzi.

Dopo di che cominciò la trattativa per i componenti della Commissione che durò tutta l’estate e si concluse in settembre. Non si tratta qui di riepilogare i passaggi, bensì di fare un bilancio di quello che Renzi ha portato a casa: per sé o per l’Italia. Il bilancio per l’Italia è facile: niente.

Avrebbe potuto portare a casa la Presidenza del Consiglio d’Europa (che secondo il Presidente uscente, van Rompuy, sarebbe diventato addirittura più importante della Commissione stessa). Il PPE aveva fatto sapere che avrebbe votato Letta. E avere un presidente italiano in un posto cruciale (comunque, quasi alla pari con il presidente della Commissione) sarebbe stato molto utile. Ma Renzi ha preferito portare a casa ‘per sé’ la bocciatura di un concorrente politico, Letta (sai mai che poi non gli venisse voglia di vendicarsi per l’#enricostaisereno), piuttosto che un posto influente ‘per l’Italia’; ma non per lui, meglio nulla per l’Italia.

Avrebbe potuto portare a casa un qualche Commissario pesante: Industria, Trasporti, etc.; o qualsiasi altro. Ci spettava di diritto. E avremmo avuto un Commissario di peso dove si spartiscono le risorse dell’UE. Sarebbe servito a molti settori economici italiani. Ma noi non ci saremo; come cantavano i Nomadi. Perché un Commissario serviva all’Italia, ma evidentemente non a lui.

Perché Renzi voleva il Ministro degli Esteri dell’Unione, e la Mogherini in quel ruolo.

Tutti sanno che la carica magniloquente di Ministro degli esteri dell’Unione è un guscio vuoto. Né Germania, Francia o Inghilterra metteranno mai la propria politica estera in mano a Bruxelles. Infatti, l’inglese Lady Ashton era lì per non fare né far fare nulla. In realtà qualche spazio ci sarebbe. Una personalità, che conoscesse da tempo tutto e tutti, conosciuto da tempo da tutti, potrebbe trasformare l’ufficio in un luogo di raccordo per possibili convergenze (un’ONU intra-europeo). In Italia c’è un nome: Massimo D’Alema. Certo non la Mogherini.

In compenso, oltre a non aver ottenuto nulla, ha dovuto pagare un prezzo politico pesante: la Presidenza del Consiglio europeo al polacco Tusk. Carica concessa, per avere via libera per la Mogherini, al gruppo dei paesi baltici (Lituania, Estonia e Lettonia) capitanati dalla Polonia, violentemente anti-russi e sospettosi dei pregressi rapporti amichevoli italo-russi. Presidenza Tusk che per la sua posizione sulle sanzioni alla Russia ci procurerà solo danni, che già si sentono pesantemente in Italia, ed è solo l’inizio.

Ma ci voleva un risultato di prestigio, da vendere in Italia, che colpisse l’opinione pubblica per costruire il suo futuro pubblico elettorale. Tanto chi lo sa veramente che il Ministro degli esteri UE non conta nulla? Quindi, a tutti i costi, Mogherini; anche per affermare, davanti al grande pubblico che dove lui vuole arrivare, arriva.

Mentre si sviluppava la campagna d’Europa, in Italia è infuriata la battaglia sulla cancellazione del Senato, da più di trent’anni nell’elenco del Piano Rinascita di Gelli.

Tecnicamente non è una cancellazione, ma la trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, con membri eletti dai Consigli Regionali. A questo disegno è funzionale l’elezione dei membri di questo ‘Senato’ da parte dei Consigli regionali. In questo modo questi ‘senatori’ mancano di qualsiasi legittimità politica popolare. Quindi, non avranno nessun peso nei confronti della Camera. Il limite della battaglia politica degli oppositori a questa proposta è stato non affrontare il punto politico fondamentale: il ‘declassamento’ politico del Senato in quanto ‘contrappeso costituzionale’.

Per giustificare la scelta, da più parti si è tirato fuori che, alla Costituente del 1946, anche il PCI aveva fatto una proposta di un Parlamento monocamarale. Giustificazione inconsistente. Ogni Costituzione disegna un sistema di contrappesi istituzionali. Bicamerale o meno non importa. Ogni sistema ha i suoi contrappesi. Ma se in un sistema bicamerale si toglie un pezzo senza sostituirlo allora si altera l’equilibrio dei poteri; in questo caso si concentrano tutti i poteri di indirizzo politico nella Camera. Quadro che completa la concentrazione di poteri in un partito, come conseguenza dell’Italicum.

Se questo era la sostanza va detto che la battaglia sull’opinione pubblica è stata ancora peggiore per argomenti scelti accuratamente per aumentare la disinformazione. Abolire il Senato per risparmiare ‘soldi’ era solo un ammiccamento alla destra populista leghista e grillina. Bastava ridurre i membri del Parlamento in entrambi i rami. Altra menzogna: che il ‘bicameralismo perfetto’ produce disfunzionalità. É stato dimostrato che la lunghezza del processo legislativo in Italia è in linea con quello degli altri paesi.

La vera ‘disfunzionalità’ del processo legislativo in Italia è dovuta al ruolo ‘incostituzionale’ che i Ministeri si sono assunti di decidere quali leggi, approvate dal Parlamento, debbano o no produrre effetti, facendo i Regolamenti attuativi, oppure no. Ha un bel discutere il Parlamento: facciamo così o cosà, riformiamo questo o quello. Tanto senza Regolamenti, le leggi pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale diventano carta straccia. Mancano 700 decreti attuativi. Questa è la vera ‘strozzatura’ nel processo legislativo italiano. La prerogativa di cui si sono impadroniti ‘illegittimamente’ i Ministeri: attuare o no a discrezione le leggi (se i siano i politici a nascondersi dietro i Ministeri, o questi a sostituirsi a quelli non è chiaro). Questa è la riforma da fare, di cui nessuno parla.

Ma come sviamento dell’opinione pubblica gli argomenti: costi, strozzatura parlamentare, una strizzata d’occhi al federalismo, servivano invece perfettamente; per aggiungere altri pezzi di ‘pubblico’.

L’ACCELERAZIONE 3. LA CAMPAGNA D’AUTUNNO: ART. 18 E IRAP.

La battaglia d’Europa sulla Mogherini, che aveva attraversato momenti alterni, con il rischio anche di uno scacco totale, si era alla fine conclusa positivamente. Questo risultato, e conseguente guadagno di immagine, avevano forse convinto Renzi che fosse giunto il momento di mettere a segno due ulteriori colpi. Sferrare l’attacco finale sul punto cruciale dello Jobs Acts: la cancellazione dell’art. 18; contro lavoratori e sindacato. Regalando contemporaneamente alle imprese, nel DEF, lo scalpo dell’Irap, l’odiatissima tassa introdotta da Visco.

Sia ben chiaro. Per lo stile e gli obiettivi politici di Renzi non è per nulla necessario che il contenuto dell’iniziativa venga sviluppato fino in fondo. Quello che è cruciale è convincere chi si vuole convincere che l’intenzione è seria, e che non appena sarà possibile, sarà portata fino in fondo. Convincendoli si costruisce un altro pezzo di ‘pubblico’ elettorale che aiuterà a costruire le condizioni grazie alle quali la promessa potrà essere realizzata.

Ma è anche vero che l’attacco all’art. 18, sia o no portato fino in fondo è il vero ‘coronamento’ della ‘scalata’. Finalmente è stato trovato in Italia qualcuno ‘a sinistra’ disposto a farlo. Riportare i lavoratori italiani agli anni Cinquantà: reinstaurando la libertà ‘assoluta’ di licenziamento. Ha un bel dire Scalfari che la legislazione europea impedisce la cancellazione delle garanzie. Ce lo vediamo un lavoratore licenziato senza giusta causa fare ricorso alla Corte di giustizia europea?

E c’è un’altra circostanza più ravvicinata che non è mai menzionata. Il Diritto del Lavoro e la giurisprudenza italiana sul lavoro prima dello Statuto dei lavoratori, e prima degli anni Settanta, era orientato a favore dell’impresa. Dopo gli anni Settanta la giurisprudenza si orientò maggiormente a favore del lavoratore. Una svolta governativa come questa è il messaggio: tutti a casa, si torna ai bei tempi della priorità dell’impresa; e l’Europa, pace Scalfari, è lontana.

In realtà, nei provvedimenti che passano sotto il nome collettivo di Jobs Act, il Decreto Poletti del marzo, e la legge delega su cui è stata richiesta la fiducia in ottobre, di art. 18 non si parla, né nel titolo né dentro. Hanno invece noiosi titoli burocratici: ‘Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione, etc.’ il primo, ‘Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, etc.’ il secondo.

Ma sulla stampa non si parlava d’altro che dell’art. 18. All’inizio fu un certo tira e molla. ‘Niente tabù sull’art. 18’, non si capiva se sul fatto di volerlo o non volerlo cancellare. Più spesso sembrava il secondo, ma talvolta no. Poi sul contenuto della legge delega: ci sarà si o no, l’art. 18 nel provvedimento. Ma intanto saliva la tensione col sindacato.

Fino all’attacco duro esplicito. Il sindacato è conservatore, danneggia i lavoratori. Lo fa nel proprio interesse (quale?). Si interpone nel rapporto tra il lavoratore e chi? Il Governo? Il capitalista? Sembrava che Renzi volesse entrare in rapporto diretto (plebiscitario’) con gli stessi lavoratori (perché? quando sono sul posto di lavoro c’è lui o l’imprenditore?). Un attacco duro, che rinverdiva tutti gli argomenti tradizionali della destra anti-sindacale; o dei liberisti.

È da quando sono sorti i sindacati che questi argomenti sono stati usati contro di loro. Contro la casamatta che i lavoratori sono riusciti in due secoli a costruire, associandosi, per difendere la loro posizione individuale di inferiorità contrattuale: un singolo che ha bisogno di un reddito per sopravvivere lui e la sua famiglia; nei confronti di qualcuno che questo bisogno radicale non ha. Perfino Adam Smith pensava che i lavoratori avessero ragione ad associarsi. Non Renzi, o Ichino.

Ichino, peraltro, da tempo aveva rilanciato un argomento classico della nuova ortodossia anti-keynesiana: che la facilità di licenziare sia l’incentivo necessario alle imprese per assumere. Perfino Draghi dice che bisogna preoccuparsi di assumere, e non di licenziare. L’Italia è diventata la sesta potenza industriale al mondo con lo Statuto dei lavoratori. E comunque l’argomento suggerisce palesemente il falso: che in Italia sia difficile licenziare. La Fiat a Torino è passata da 120mila operai a 20mila. Evaporati? Per non parlare di tutti quelli in questi anni cui toccherà passare dalla Cassa Integrazione alla cosiddetta ‘mobilità’. Cioè licenziamento per motivi economici. Quello che può decidere a offrire occupazione aggiuntiva è che l’imprenditore si aspetti che la produzione aggiuntiva abbia mercato. Altrimenti il licenziamento resta licenziamento.

Attacco da destra e argomenti pretestuosi. Ritenuti evidentemente funzionali per aggiungere un altro pezzo di ‘pubblico’ elettorale.

Il tutto si è concluso con una mostruosità giuridico-legislativa. È stata votata una fiducia su una legge-delega; il chè è già assurdo. Inoltre, su un contenuto, dichiarato pubblicamente – l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – che non compare tra i temi oggetto della delega (non c’è, infatti, alcun riferimento alla legge 300/70, più conosciuta come Statuto dei Lavoratori); a meno non la si voglia catalogare tra le ‘politiche attive’ a favore dell’occupazione: cioè licenziare, parola di Ichino.

Anche l’adempimento costituzionale della Legge Finanziaria, il DEF, per il 2015 è stata un’occasione di ‘campagna’ elettorale.

Infatti, l’esordio, con grande rullare di tamburi fu che, mentre il deficit ‘tendenziale’ era vicino al 2% (i limiti di Maastricht è il 3%), il governo aveva deciso una spesa in deficit di circa 11 miliardi. Un exploit keynesiano! Tutto vero. A parte due particolari. Primo, il deficit dell’anno in corso, il 2014 è del 3%; con tutta questa correzione il deficit del 2015 resta allo stesso livello. Cioè tanto rumore per nulla. Non ci sarà nel 2015 ‘nessuno’ stimolo aggiuntivo all’economia. Perché quello che conta è la differenza tra i deficit ‘effettivi’ dei due anni. Non tra uno effettivo e uno scritto solo sulla carta (il ‘tendenziale’).

Ma il marketing politico è servito eccome, a convincere che il governo italiano stesse seguendo il governo francese nel decidere il proprio deficit anche a costo di disobbedire a Bruxelles. Invece il Governo è tanto ‘obbediente’ che quando Bruxelles, per bocca del falco Katajnen, ci ha imposto di ridurre almeno un po’ il deficit, in segno di buona volontà, è stato immediatamente fatto.

Secondo. C’è un bel po’ di sgravi fiscali. È stato riconfermato il bonus degli 80 euro (già si sa, compensato da tagli; per cui l’effetto nel 2015 sarà lo stesso che nel 14; nulla). E è stato deciso, inoltre, uno sgravio a favore delle imprese sulla tassa odiatissima perché, come dicevano, non riuscivano a evaderla: l’IRAP. Tra l’altro destinata esplicitamente al finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale. E adesso chi paga? Non a caso c’è stata la levata di scudi di enti locali e Regioni. Facile fare i magnifici con le imposte degli altri.

Per di più la motivazione data allo sgravio come stimolo all’occupazione è risibile. Domanda aggiuntiva ci vuole. Senza, assisteremo solo alla sostituzione di lavoratori senza bonus fiscale con quelli con il bonus. E in una situazione in cui tutte le misure del governo puntano al taglio delle retribuzioni (come affermato anche nel rapporto del CNEL 2014 sulle riforme del mercato dl lavoro; nel Riquadro sulle riforme del lavoro), è irragionevole aspettarsi espansioni della domanda interna. Morale: gli sgravi ‘non’ si trasformeranno in occupazione.

Ma il segnale politico-mediatico è stato dato con chiarezza al mondo delle imprese: anche il PD è disposto (e non solo il solito Berlusconi) a favorirvi in tutti i modi; anche se a pagare saranno tutti gli altri, con minori protezioni contrattuali, con maggiori tasse e minori o peggiori servizi. La sinistra ‘moderna’ sembra un film di Sergio Leone: (tutto) per qualche voto (molti) in più.

LA RISPOSTA 1. L’ATTENDISMO.

Come ha risposto finora la sinistra PD? Con una strategia attendista. Di fronte a una strategia incalzante che, oltre alla capacità di improvvisazione tattica, che aiuta, sembra avere molto chiara la direzione di marcia, una strategia attendista pare del tutto inefficace. Anche se basata sul retropensiero che, per supponenza e inesperienza, l’avventura politica renziana sia ‘condannata’ a bruciarsi da sola. E quindi, visto lo ‘scudo stellare’ di un’opinione pubblica ‘incantata’, contro cui è inutile andare a rompersi la testa (facendo il bis dell’atteggiamento nei confronti del berlusconismo, peraltro), sia meglio risparmiarsi, aspettando i tempi della maturazione di un contrattacco.

C’è del vero in questo giudizio. Che però pare non prendere in considerazione i tempi. Il senso di accelerazione che si desume da tutto gli avvenimenti sopra delineati, sembra indicare che nell’ambiente renziano è ben presente la necessità di ‘chiudere’ al più presto la scalata con la legittimazione ‘definitiva’ di elezioni politiche (d’altra parte, accelerazioni e ‘scarti’ tattici servono a spiazzare, scomporre in anticipo possibili alleanze, bruciare i tempi necessari alla maturazione di eventuali convergenze, quindi a guadagnare tempo).

Chiudere la scalata prima che limiti oggettivi e soggettiva si scontrino con una possibile situazione critica. Limiti oggettivi, cioè politiche che, data l‘incomprensione dei fattori cruciali della situazione di crisi economica del paese, la aggravano (come tutte le politiche che, aumentando precarizzazione e disoccupazione, producono cadute di domanda interna). Limiti soggettivi, l’inadeguatezza del personale politico a capire e affrontare questa crisi, economica e politica. In questo quadro, la strategia attendista è stata finora inefficace; come si è visto dal fatto che non sia riuscita in alcun modo a ‘frenare’ la dinamica del processo.

Inoltre, è difficile capire ‘chi e che cosa’ sia la sinistra nel PD. Perché la domanda non è tanto o solo cosa farà adesso la ‘sinistra democratica’ del PD, ma è sulla stessa sinistra ‘nel’ PD: chi le appartiene, e in base a cosa, visto che dice e si ripete, peraltro giustamente, che il Congresso è finito. Ma se il Congresso è finito, e quindi le divisioni congressuali hanno perso di senso, allora cosa definisce l’appartenenza ad un’area che si definisce ‘sinistra’ dentro al PD?

Nel corso delle primarie si è visto un elettorato di sinistra. Ma poi, che ne è stato dei dirigenti, cui sia questo elettorato, sia gli eletti di quell’area congressuale nei vari organismi, facevano riferimento?

Ma, dalla fine del Congresso in poi, si fa fatica a vedere un’area. Si vedono solo personalità.

Si vede Civati, che ha fatto una scelta intelligente di coerenza e di continuità con le posizioni assunte durante le primarie, cancellando, quantomeno in parte, quella sensazione di irrefrenabile ‘leggerezza’ che lo contraddistingueva.

Certo, si vede Cuperlo, ma il vero problema non è tanto il fatto che concluda sempre con la necessità di allinearsi alla Segreteria; finché ci resta, può giustamente obbiettare: la disciplina di partito è vincolante. Il problema di Cuperlo è proprio la sua critica, espressa sempre in termini più che misurati, sottotono; e che quindi rinuncia al ruolo fondamentale di una minoranza: la battaglia politica per diventare maggioranza.

Inoltre, come non si può convenire sulla sua idea di partito-comunità! Ma non si può non rilevare che quest’idea resta del tutto inefficace politicamente se non la si contrasta non solo con la realtà attuale del PD, ma proprio con il disegno del PD futuro come emerge dallo Statuto: partito ‘privatizzato’ da un vertice, scelto in modo plebiscitario, con effetto a cascata negli organismi dirigenti, che non risponde a nessuno; certo non a quella congerie di visitatori più o meno occasionali, senza poteri definiti, che è la sua articolazione organizzativa (Forum, donne, giovani etc.) in cui sono immersi gli ‘iscritti’; volontari senza poteri.

Così come non si può non apprezzare, sempre restando sull’idea di partito, quella enunciata da Barca di ‘partito’ come procedura di ricerca culturale attraverso una continua discussione interna. Che ha, però, il limite di un vago sapore hayekiano; assomiglia molto alla sua, di Hayek, idea di ‘mercato’ come ‘procedura di ricerca’ dell’equilibrio. Mi pare che Barca non si renda sempre conto di come postulati teorici di destra non possano dare esiti di sinistra.

Si vede Fassina, che appare decisamente isolato anche se puntuale nella critica degli aspetti negativi dei provvedimenti e ancor più della linea economica generale del governo. Va aggiunto che a suo merito va l’introduzione di un minimo di terminologia ‘keynesiana’ nel dibattito politico-economico, quasi totalmente assente prima. Assente anche per una storica antipatia che allignava nel PCI nei confronti delle teorie keynesiane (di cui fu rigoroso interprete Padoan – questo Padoan – in una serie di articoli su Critica marxista negli anni Settanta). Allergia che facilitò enormemente la deriva ‘liberista’ della sinistra nei Novanta.

E D’Alema ? Al solito ambiguo: a partire dall’affermazione fatta prima delle primarie 2013: ‘non ho mai perso un congresso’. Affermazione che, all’epoca, mentre si stava annunciando la valanga renziana, sembrava azzardata e vanitosa; soprattutto per uno ritenuto universalmente, a ragione o piuttosto a torto, il principale sponsor di Cuperlo. Poi, attore in quella che apparve la spinta all’ingresso in maggioranza della minoranza congressuale.

(Ingresso di cui poi Orfini e Speranza sono stati i più entusiasti interpreti. Orfini e Speranza, due ex-bersaniani. Il primo Giovane Turco distaccatosi da Bersani dopo il voto e sostenitore di Cuperlo, e quasi subito poi diversamente renziano. Speranza, bersaniano ex-sostenitore di Cuperlo – in quanto bersaniano – e ora ‘autonono’ nell’area Bersani come il più proto-diverso renziano; un ‘pontiere’, si sarebbe detto una volta.)

Senza contare l’affermazione ‘distaccata’ di D’Alema che lui forma gruppi dirigenti, e nient’altro. Come dire: Renzi ne avrà bisogno; di qua dovrà passare. Anche se gli sviluppi successivi non sembrano avergli dato ragione. Come lo scavalcamento da parte della Mogherini a danno delle sue giustificatissime ambizioni europee. Non sembra che quest’ambiguità abbia pagato. E c’è anzi la netta sensazione che lo abbia capito anche lui.

Per non parlar di Bersani. Di cui si può solo dire che il ‘sottotono’ come scelta di vita, introiettato nel lungo addestramento politico nel PCI, è la ragione della sua evidente irrilevanza politica odierna (al di là delle sue qualità e meriti personali, innegabili). Come conferma il suo recente intervento, di critica, come sempre, sottotono all’attacco renziano al sindacato, di fatto convergente con la critica del Direttore di Repubblica, Ezio Mauro sul ‘metodo’: eccesso di mezzi di correzione. Ambedue ricordano la Mary Poppins del ‘con un po’di zucchero la pillola va giù’. È la pillola a fare male, la pillola è l’errore, non la mancanza di buone maniere.

Date le premesse non può stupire la caratteristica costante di tutte le battaglie, molto moderate, peraltro, sui vari temi oggetto dell’iniziativa politica e legislativa renziana. Di appuntarsi sempre su aspetti secondari e marginali delle misure. L’assenza di un’«area» necessariamente produce critiche ‘isolate’. Che convergono a fatica nelle occasioni di voto. Messe sempre in scacco dai rilanci renziani, e dagli aiuti ‘esterni’. Come nel caso del voto segreto sulle preferenze per la legge elettorale respinto per un pugno di voti. Ma non attacco, ad esempio, sulla possibile incostituzionalità degli sbarramenti differenziati; magari convinti che si tratta di misure che cadranno da sole. Ma il fatto grave è che se non cadessero verrebbero portate fino infondo. È l’assenza di senso del limite democratico ‘interno’ a quel fare politica che non viene mai messo sotto attacco. Prima di tutto, per far capire dentro al Pd a chi non lo capisce che sono atteggiamenti democraticamente ‘pericolosi’.

Sul Decreto Poletti, i contratti di lavoro a tempo determinato, la critica si è concentrata sul numero di rinnovi (otto, veramente vessatori) del contratto entro i tre anni di periodo massimo di rinnovo prima della stabilizzazione. Senza attaccare né il fatto che queste assunzioni precarie non debbano più essere giustificate da necessità dell’azienda (come nella legge Fornero; permettendo quindi la sostituzione arbitraria di assunzioni stabili con quelle precarie) né la durata: i tre anni sono cruciali (almeno da ridurre a due).

Ma anche sull’Europa ci sono stranezze. La candidatura Schulz è stata la bandiera che ha consentito alla sinistra PD di presentarsi a elettori che cominciavano ad avere dubbi chiedendo convintamente un voto per il PD di Renzi. Ma poi Vincenzo Visco, l’ex-Ministro delle Finanze, storico esponente della sinistra, rilancia dopo le elezioni la candidatura Lagarde, sull’Unità, per di più. Incomprensibile. E anche sulla convulsa fase delle trattative estive c’è stato un silenzio tombale dei politici. Sia Scalfari, che qualche commentatore avevano fato notare la strana rinuncia da parte di Renzi a possibilità di ottenere per l’Italia qualcosa di più sostanzioso a livello europeo. Osservazioni cadute nel vuoto.

La Battaglia sul Senato è stata la prima battaglia aspra. Anche grazie alla coerenza di coloro che l’hanno lanciata. Vannino Chiti, soprattutto, ma anche Corradino Mineo, rimosso con una certa brutalità dalla Commissione Affari Costituzionali. Perché questo è il punto. Se il partito avesse discusso ampiamente prima, e fosse arrivato a votazioni interne in seguito a una discussione ampia, ovviamente questo fatto avrebbe obbligato Mineo alla disciplina.

Ma su una misura, non discussa, presentata come derivante plebiscitariamente dal voto dell’8 dicembre 2013 (e chi ne aveva mai parlato?), che in coscienza possa introdurre dei vulnus costituzionali, sarebbe corretto lasciare libertà di coscienza. Ma credo che la parola ‘correttezza’ sia sconosciuta nel vocabolario renziano. Di conseguenza sarebbe il caso che gli oppositori interni ne prendessero atto.

Le richieste degli oppositori a questo progetto di introdurre l’elezione popolare del Senato o accrescere alcune competenze, riducevano il danno, ma non lo eliminavano. Lasciandone intoccato il ‘declassamento’ costituzionale. La ‘perfezione’ del bicameralismo costituisce di per sé contrappeso. E quindi il tema della ricostituzione di un’architettura costituzionale ‘bilanciata’ va affrontato ‘direttamente’, e non solo ‘indirettamente’, discutendo la legittimazione elettorale dei componenti (se popolare, o di secondo grado, via Consigli regionali).

Sull’art. 18 è sotto gli occhi di tutti che l’inizativa di contrasto è partita dalla CGIL, e che le adesioni dal PD sono state individuali. Di fronte a una svolta politica di quest’entità tra Governo e sindacati, con i sindacati additati a ‘nemici pubblici’ del ‘cambio di verso’ dell’Italia, un attacco che nei modi e nei toni cancella decenni di storia italiana (così eccessiva da suscitare la reprimenda perfino di Ezio Mauro) è stata una risposta quantomeno timida.

Il Decreto Economia e Finanza, è il terreno naturale per battaglie di emendamenti. Lì il copione è scritto. Il Governo taglia e chiunque riesca ad avere una sponda, dovunque, in Parlamento, tenta di evitarlo. Ma il tema politico, profondo implicito, del DEF è, come sempre in questi anni, l’Europa, l’austerità, l’euro.

Qui, il PD anche nelle incarnazioni precedenti ha fatto dell’obbedienza europeista una sua ragione d’essere. E ovviamente una correzione di rotta, per quanto ragionevole, richiede una discussione che forse sta solo iniziando adesso. È una debolezza pregressa che rende difficile anche solo puntare il dito sulla schizofrenia renziana tra il dire e il fare, che può essere presentata come astuzia tattica.

C’è bisogno di ben altro. Bisogna incominciare a mettere in discussione apertamente il carattere di sinistra delle misure e mettere in discussione comportamenti di questo Governo nei confronti dei sindacati, che difficilmente possono essere catalogate come ‘correzioni’ di tipo blairiano della linea tradizionale della sinistra. Ma come abbiamo visto, perfino Blair c’entra molto poco, e queste più che correzioni sono proprio ‘rovesciamenti’. Cosa aspetta la sinistra PD, chiunque o qualsiasi cosa ricada sotto questo termine, che l’Italia subisca una trasformazione definitiva in direzione anarco-liberista, e lo Stato italiano in direzione anarco-burocratica?

Anche perché il governo non è un monocolore PD. Ovviamente la fiducia è un dovere di disciplina (astrazion fatta per il caso di coscienza; o no?). Ma dev’essere perfettamente legittimo, per una componente di sinistra, quando i contenuti provengano, com’è spesso e volentieri, sia nella materia che nella forma, dall’area dell’alleato di centro-destra, l’NCD di Alfano – quando non dal ‘convitato di pietra’ di centrodestra, Berlusconi – cercare di mantenere l’asse dell’azione e della propaganda di Governo a sinistra. Pieno diritto da rivendicare, cosa fatta raramente e debolmente, senza essere criminalizzata, come succede abitualmente, dalla maggioranza renziana.

Aspettare non aiuta. Anche perché la strategia renziana, come si è visto ripetutamente, alla fragilità strutturale fa fronte con dinamismo e durezza tattica. Accelerando e rilanciando in continuazione, per poter arrivare al passaggio del consolidamento definitvo: l’alfa e l’omega di tutta la sua politica.
(Un attendismo che, nel 25mo anniversario della cauta del Muro di Berlino, ricorda fin troppo da vicino il lungo “attendiamo” del PCI nello staccarsi dall’URSS, che lo fece travolgere prima dal Muro e poi dalle conseguenze della frettolosa, tardi e male, Bolognina).

LA RISPOSTA 2. L’ABBAGLIO.
Dopo il milione di Piazza San Giovanni, Vendola dice di voler dare ‘forma politica’ alla piazza. Ma chi difendeva fino a qualche mese fa una posizione di favorevole attendismo nei confronti di Renzi nel nome del ‘nuovo’, se non Vendola. Non è certo grazie a lui che questa piazza ha ‘preso forma’. Se la situazione è arrivata a questa gravità è anche perché agli attendismi della sinistra interna PD si è aggiunto il clamoroso errore politico del giudizio di Vendola sulla svolta renziana (o forse si sono rafforzati l’un l’altro; gli uni timorosi di uno scavalcamento di Vendola, l’altro invogliato a farlo).

(Quanto segue non è una critica a SEL nel suo insieme. E’ noto il suo travaglio congressuale. Tanti militanti, simpatizzanti, hanno lavorato duramente per la Lista Tsipras e per Piazza San Giovanni. Qui si parla proprio solo di Vendola, e di un giudizio politico errato che di fatto ha ‘marchiato’ tutto SEL davanti a molti elettori e militanti di sinistra.

Ma non comincia tutto il 9 dicembre 2013; c’è il precedente delle ‘primarie di coalizione’ del 2012 in cui Vendola ha coperto con la sua candidatura le delegittimazione di Bersani. Poi, dopo la non-vittoria del febbraio 2013, Vendola ha dato subito per defunta la coalizione, partecipando alla gazzarra grillina con Rodotà, e avviando una campagna alzo zero contro Letta, di conserva con Renzi per delegittimarlo, senza minimamente cogliere (anzi sprezzandolo) il rilevante risultato politico lettiano della spaccatura del PDL e dell’isolamento di Berlusconi che tutti davano per defunto. Nei fatti, è uno dei suoi resuscitatori, uno di quelli che ha impedito la ristrutturazione del centrodestra deberlusconizzato.

Evidentemente pensando di approfittare della perdita di egemonia bersaniana per crearsi una base in un futuro PD, comunque sia renziano che non. Questa è l’origine degli opportunismi di SEL, questo oscillare tra ‘sinistra-sinistra’ d’immagine, al tempo stesso restando legato al carro degli enti locali per finanziare quel poco di apparato che ancora rimane.

E alla fine Renzi arriva; l’8 dicembre 2013. Quindi, non può stupire, con questo pregresso, che Vendola saluti favorevolmente la sua vittoria alle primarie in nome del ‘nuovo’. Come se si trattasse di un fisiologico spostamento verso il centro della direzione politica di un partito che, invece che richiedere di essere contrastato, aprisse degli spazi alla sinistra di quella direzione politica.

Errore marchiano, visto lo sviluppo. Quanto ci è voluto perché quel progetto politico, un passaggio del quale è l’annullamento della forza sindacale e più in generale dei corpi intermedi, diventasse visibile? Meno di un anno. E un dirigente politico della statura di Vendola, o che vorrebbe avere, non riesce a diagnosticare la natura di una tale svolta con un anticipo di dieci mesi?

Immagino la massa di frustrazione, di risentimenti contro i ‘piciisti’ che quella parte dei quadri e militanti di Sel che risalgono anche alle formazioni degli anni 70, più ostili al Pci (più l’antagonismo giovanile più recente), si portava dietro. Più tutto il risentimento per le politiche delineate sopra. Anche se pian piano, dopo, molto è cambiato. Ma che spiega anche il deflusso di circa 400mila voti alle europee da SEL al PD (analisi dei flussi elettorali SWG).

Ma questo è il punto; non si fa politica sulle recriminazioni; o inseguendo umori massmediatici. I contorni del progetto renziano erano ampiamente visibili anche prima delle primarie. Si capiva che intorno a lui c’era un’alleanza mediatica che suggeriva altre unificazione dei poteri italiani (Corriere e Repubblica uniti nella lotta).

C’era stato il rapporto con Marchionne nella vicenda del referendum dei lavoratori FIAT, con Renzi che esprime il suo appoggio ‘senza se e senza ma’. Vicenda che Marchionne definì ”l’anno zero dopo Cristo”, con l’esclusione del sindacato sgradito dalle trattative (prassi antisindacale che Roosevelt bandì nel 1937; provasse Marchionne ad andarlo a fare negli USA), rottura nella Confindustria e, dulcis in fundo, abbandono dell’Italia da parte della Fiat.

Senza contare le sue parole nell’intervista del 2 ottobre scorso, in cui Marchionne parla del mercato del lavoro e della necessità di “togliere i rottami dai binari” (rottami: il sindacato?), precisando: “L’abbiamo messo là per quella ragione …”. Ma come si fa a sottovalutare simili prese di posizione? La cui natura di patto di ferro è ulteriormente confermata dall’endorsement di Marchionne a Detroit contro l’attacco di De Bortoli; se mai ce ne fosse stato bisogno.

Poi ci sono durissime dichiarazioni ‘thacheriane’ di Davide Serra nelle varie Leopolde, e ribadite sulla stampa. Dichiarazioni ripetute sulla necessità di tagliare brutalmente welfare e pensioni, mai smentite, mai criticate, da cui mai preso le distanze (se non blandissimamente: e solo ora). Dichiarazioni fatte da un grande ‘elemosiniere’ di Renzi medesimo. Ma come si fa ad avvallare come partito ‘progressista’ un partito al cui centro ha diritto di cittadinanza un simile personaggio, e per di più ‘finanziatore’? Per non parlare del team economico, imbottito di iper-liberisti, se non peggio.

La responsabilità di Vendola in questa deriva è non minore di quella della sinistra interna. Anche se Vendola un partito dietro ce l’aveva, e la possibilità di politiche ‘autonome’ pure. Rischiosa certo, ma questa è la politica, baby.

Vendola, oggi in SEL, ieri in Rifondazione, aveva instancabilmente attaccato le politiche di segno ‘liberista’ che le dirigenze PDS e DS avevano fatto come forza di governo. Ma per quanto non sia un argomento del tutto convincente, si poteva sostenere che quelle politiche intendessero essere in parte ‘ritirate ordinate’ di fronte all’incalzare della ‘globalizzazione’; e in parte, se ben indirizzate (le ‘liberalizzazioni’ nei confronti di ‘corporazioni’ effettivamente dannose), giustificabili.

Ma come si può non vedere che questa estremizzazione rispetto a quelle politiche è ormai di attacco esplicito e convinto alle condizioni di vita di ampie masse, non più un tentativo, magari pensato in modo superficiale e mal indirizzato, e quindi sbagliato, di riduzione del danno (così almeno l’aveva pensata, a ragione o a torto, una parte non minoritaria del PDS e dei DS).

E a questa strategia d’attacco ‘finale’ al Novecento, e alle conquiste dei lavoratori si pensava di poter dare una copertura di sinistra? O di poterla frenare? Mah? Ho sentito dire: ma la strategia di ingresso come ala sinistra del PD era già in atto da tempo, c’era un’inerzia in atto, che Vendola aveva solo assecondata. Ma come si fa a non non capire la differenza tra fare l’ala sinistra di Bersani, per quanto ‘liberista’, con la sua storia e comunque i suoi collegamenti sindacali, e invece farla di Renzi che quel mondo voleva cancellare, e quindi anche SEL la sua storia e radici, insieme a quello?

E’ un abbaglio che si fa fatica a credere possa esserci stato. Eppure è così. L’aver alimentato questa ambiguità, questo giudizio superficiale sulla strategia renziana è stato un suicidio politico. Se il 9 dicembre 2013 Vendola avesse alzato la bandiera del rifiuto di cancellare totalmente le conquiste dei lavoratori italiani nel dopoguerra, SEL oggi sarebbe già un partito del 6% (se in condizioni disastrate la lista Tsipras è arrivata al 4%, la conclusione si impone) e probabilmente potrebbe pensare di affrontare indenne persino lo sbarramento tagliola dell’8% dell’Italicum. A non essere troppo ottimisti.

Quanti, fin dai primi momenti del trionfo renziano, guardavano a SEL e sono rimasti sconvolti dalla presa di posizione di Vendola? E quanti in questi dieci mesi si potevano aggiungere? Forse una gran parte di quel milione di Piazza San Giovanni. Adesso bisogna raccogliere i cocci, e limitare i danni, tra cui i transfughi cappeggiati da Migliore.

Per non parlare dei dirigenti locali di SEL, intrappolati nella collaborazione amministrativa a sinistra di lungo periodo, i quali non possono e non vogliono neppure pensare che questa svolta qui e ora possa rimetterla in discussione. Per l’ovvio motivo che, in questo momento, qualsiasi sostegno ‘locale’, per quanto con ottime ragioni ‘locali’ ha come conseguenza inevitabile e innegabile il rafforzamento della svolta ‘nazionale’.

Per fare il caso ‘cruciale’ qui e adesso, il voto regionale in Emilia è l’assoluto banco di prova di quella strategia: riuscire a tenere l’elettorato a sinistra nonostante un’aperta dichiarazione e messa in atto (con gli atti politici e legislativi recenti) di una politica di annullamento della capacità sindacale di difendere gli interessi dei lavoratori; cioè un voto di sinistra per una politica che a livello nazionale non si può che definire ‘thatcheriana’.

E ciò, nonostante gli scollamenti apparsi proprio in Emilia: la caduta di partecipazione alle primarie, il crollo del tesseramento, l’umore diffuso tra molti militanti per cui è da dubitare che il PD riesca ancora a fare le sue Feste dell’Unità. Comunque certo è un voto alla strategia nazionale renziana, che non si può separare da questo voto amministrativo, così come non si poteva separare dal voto europeo all’ottimo candidato Schulz.

Cosa dicono ora quelli che ‘io voto Schulz, e non Renzi’, dopo l’uso a mo’ di clava proprio contro la minoranza interna di quel 41% raggiunto anche grazie a loro? Pensano di ripetere l’esperimento? Con il rischio, gravissimo o di far trionfare la strategia di cancellazione della sinistra storica, quale che sia il filone, in questo paese, o di far inabissare tutta l’opposizione sociale, che ha mosso solo i primi incerti passi in piazza San Giovanni, nell’astensione? Rovesciando così lo storico rapporto destra/sinistra con la partecipazione politica.

(SEGUE)

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