Fonte: Il Manifesto
di Simone Pieranni – 17 agosto 2018
Su quel ponte noi genovesi ci siamo passati centinaia di volte. Anche due o tre volte al giorno. Per andare o tornare dalle vacanze; spesso invece era un modo per evitare di passare “di sotto”. Ma proprio “da sotto”, quel ponte assumeva nuove vite, dalle finestre di casa, di amici e parenti, di bar e benzinai.
Là sotto – infatti – brulicava la vita di via Walter Fillak, arteria che collega la Valpolcevera al centro, che noi polceveraschi ancora chiamiamo “Genova”: accanto a questa via spesso trafficata, precedente il grande ingorgo del “Campasso”, c’è il torrente, quasi sempre spento d’acqua, per niente specchio di quel ponte “americano” che nonostante tutto noi genovesi abbiamo amato. Quel ponte rappresentava un orgoglio tutto genovese: quello di custodire un’opera – a Genova mica a Milano, Roma – che ci “invesgendava” facendo perno sulla nostra sensazione di non essere adeguatamente presi in considerazione, mai, dalla politica nazionale. Brooklyn a Genova, belin altro che: ora guardateci, guardate Genova, guardate i genovesi, guardate che ponte che custodiamo. Genova si vede solo dal mare: certo e ne siamo fieri, ma è una visuale da “foresti”. Genova si vede anche dall’alto attraverso “mostri” (che sono mostri per voi) come il ponte Morandi o la sopraelevata.
Il crollo del Morandi ha finito per riaccendere nella nostra memoria di genovesi l’infanzia, le gare in vespino sotto al ponte, la sensazione amara di un ritorno, l’ignoto di ogni partenza. Quando si passava sopra ci si chiedeva sempre come potesse stare su, così imponente, alto e lungo. Quando ci si passava sotto ci si chiedeva se quell’ombra distante avesse un senso, oltre alla scaramanzia di chi, studente, dalla Valpolcevera andava nelle scuole di Sampierdarena: «Se parli sotto al ponte ti interrogano».
Il crollo, il suicidio del ponte secondo alcuni, ci ha rimesso di fronte a quella sensazione di accerchiamento che Genova vive; città anziana, fagocitata dall’immobilismo e alla ricerca di una sua nuova identità nel passaggio da angolo basso del triangolo industriale a città di turismo, cultura, servizi. E ci si sente uniti a Genova, in abbracci silenziosi, in messaggi misurati, in telefonate agitate ma composte. E quasi si vorrebbe che non se ne parlasse, che nessuno ci spiegasse niente: noi – del resto – sappiamo bene chi è Stato.
Sappiamo bene come nel tempo, il nostro tempo, la strettoia tra monti e mare sia stata stuprata, abusata, incautamente arricchita di palazzi, grandi opere. Ma quel ponte, bello, brutto, orrendo, sbagliato, era parte di noi come tutto quanto ti è dato senza averlo potuto scegliere. Vengano le riflessioni, vengano i ripensamenti, si affacci la spietata violenza di ministri alla ricerca di like. Noi non ce ne curiamo, cercheremo sulla sopraelevata un’altra bruttezza da ricordare nostra, silenti, tesi nel mugugno e nella nostra smisurata certezza di essere diversi.