Fonte: huffingtonpost
di Paolo Pezzati – 10 agosto 2018
Mentre il Parlamento approvava, pochi giorni fa, la cessione da parte dell’Italia di 12 motovedette alla Guardia costiera libica e lo stanziamento di circa 2,5 milioni di euro per la manutenzione delle imbarcazioni e l’addestramento degli equipaggi, ho incontrato Dalmar e Cawil (nomi di fantasia per motivi di protezione). Sono due ragazzi somali di 20 e 25 anni. Uno fuggito dalla violenza diffusa nella sua terra contesa tra Etiopia e Somalia, l’altro da Al Shabaab. Da un mese vivono in Toscana, accolti da Oxfam Italia. Mi son detto: chi meglio di loro mi potrà confermare che la Libia è un paese sicuro? E soprattutto che i centri di detenzione sono dotati di ogni confort? Magari, se riesco ad entrarci in confidenza, riesco anche a farmi raccontare come se la sono spassata nella “crociera” che li ha portati in Italia.
Rinchiusi in 400 in una buca, tra le dune del deserto rovente
“Dopo due mesi di viaggio, passati in buona parte nelle mani di diversi gruppi di trafficanti, sono arrivato al confine tra Chad e Libia. Ci hanno catturati e portati in una prigione in mezzo al deserto. I carcerieri erano ciadiani, ma lavoravano assieme ai libici. – racconta Dalmar – Ci hanno gettato in una buca scavata tra le dune, recintata da rami di palma per impedire che la sabbia ci seppellisse vivi. Dormivamo in 400 ammassati, ci davano un pasto al giorno. Di giorno morivi di caldo, di notte di freddo. – continua – Ogni giorno qualcuno veniva torturato. Sono rimasto lì 8 mesi. La mattina ci portavano a cogliere i datteri. Vietato mangiarli, sennò ti picchiavano. Eravamo scalzi e la sabbia bruciava, non potevamo scappare. C’è chi ha provato a scappare di notte, ma li hanno sempre ripresi. C’erano ragazzi, famiglie, bambini, anziani, donne incinte che hanno partorito lì. In tanti non ce l’hanno fatta, ne morivano 3 o 4 al giorno.” Nella voce di Dalmar c’è il dolore di un ricordo atroce, ma la voglia determinata di raccontarlo. Di far capire cosa ha vissuto.
Flash back, in fuga dal “terrore” in Somalia
Dalmar e Cawil hanno una corporatura minuta e modi delicati. Nei loro occhi scuri uno sguardo vivo, profondo, forte e gentile. Entrambi hanno alle spalle, un’odissea lunga mesi, lungo le consuete “rotte” che dal Corno d’Africa portano alla Libia. Cawil ha iniziato il suo viaggio scappando da una prigione delle milizie di Al Shabab in Somalia: lo volevano arruolare ma lui si è rifiutato; così lo hanno preso e torturato. Due anni prima gli avevano fatto sparire il fratello e una volta ucciso, hanno detto alla famiglia di andare a riprendersi il corpo. Dalmar è fuggito da una zona mai pacificata al confine tra la Somalia e l’Etiopia e contesa da decenni da entrambi gli stati. È stato proprio lì che è finito nelle mani dei trafficanti che lo hanno fatto arrivare al confine col Ciad.
Vicino a Tripoli, nell’inferno di Beni Walid
“Eravamo 150 in una stanza piccolissima con un tetto di lamiera, uomini e donne tutti ammassati – racconta Cawil – Sono stato lì 5 mesi. Eravamo soprattutto somali, eritrei poi qualche nigeriano e gambiano. La banda che gestiva il carcere era composta da una ventina di persone: i capi erano libici, avevano delle divise, mentre i carcerieri che ci torturavano erano nigeriani, ciadiani, togolesi e anche somali. Mangiavamo in 10 in un piatto, un pasto al giorno”.
Una sorte simile tocca anche a Dalmar. Un orrore senza fine, in attesa che venga pagato il riscatto chiesto alle famiglie dagli aguzzini. Tra compagni di cella che ogni giorno muoiono per la mancanza d’aria, per le torture, per le infezioni contratte.
Di notte da Misurata all’Italia
Tanti dei compagni di Cawil e Dalmar non ce la fanno, ma i loro parenti riescono per miracolo a raccogliere la somma chiesta dai trafficanti, finché un giorno, vengono portati sulla spiaggia di Misurata, dove si conosceranno per non dividersi più.
“Dopo un paio di mesi un parente ha pagato non so quanto, da quello che ho capito, poco, perché ero messo male: sembrava che potessi morire da un momento all’altro da quanto ero magro. – aggiunge sorridendo Dalmar – Quindi mi hanno portato a Misurata, assieme ad altri. Era notte, c’erano 8-10 libici con delle divise ed erano armati. Hanno obbligato uno che era con noi a guidare,- continua – poi gli hanno dato una bussola e un telefono. Eravamo 120, siamo partiti alle 2 di notte. Dopo qualche ora è finita la benzina e nel gommone entrava l’acqua. Provavamo a buttarla fuori ma senza riuscirci. Abbiamo iniziato ad avere molta paura, non si vedeva nessuno all’orizzonte, solo il mare. Poi di mattina ci ha visto un piccolo aereo. Dopo 10 ore siamo stati trovati da una nave che aveva sia la bandiera italiana che europea. La sera dopo siamo arrivati in Italia, a Catania”.
Una macchia per l’Italia e l’Europa
Tutto questo orrore conferma tragicamente quanto già denunciato da Oxfam nel rapporto “Libia, l’inferno senza fine”, lo scorso febbraio e oltre un anno fa. E non si riesce a immaginare come il governo italiano non sapesse – al momento della firma dell’accordo con la Libia – ciò che si consumava nei lager libici. Nonostante ciò l’Italia ha negoziato l’accordo senza nemmeno tentare di vincolare il governo di Al Sarraj – che tutt’ora controlla tra l’altro solo una parte del nord del Paese- al rispetto di clausole legate al rispetto dei diritti umani. Anzi all’epoca fu ribadito “il forte legame di amicizia” e le comuni radici culturali. Ebbene queste non sono davvero le nostre radici.
Rafforzare la Guardia costiera libica può significare riportare indietro le persone in centri come quelli dove hanno vissuto Dawar e Calwir. Quando si sventola perciò come un gran risultato il calo degli sbarchi bisognerebbe essere più prudenti: si sta festeggiando il fatto che migliaia di persone possano finire di nuovo nelle mani di trafficanti, torturatori, violentatori e aguzzini. E questa è una macchia che il nostro Paese e l’Europa difficilmente potranno cancellare. Per questo continueremo a chiedere la revoca immediata del Memorandum d’intesa e delle iniziative ad esso collegate. Fino a quando la Libia non sia stabilizzata e il quadro normativo libico non sia in grado di garantire la protezione di migranti e rifugiati. Finché la Libia non firmerà la Convenzione di Ginevra sui di diritti umani. Già perché con ogni probabilità l’orrore sta continuando.
Mentre l’inferno libico scompare dal dibattito, il Governo continua nella stessa direzione
Questo governo purtroppo sembra continuare sulla stessa strada di quello precedente ed in sintonia con l’UE nell’accelerare il processo di esternalizzazione delle frontiere. Rafforzando, in alcuni casi nel nome del loro controllo, forze militari o di polizia di paesi che violano i diritti umani, spesso sospettate di essere colluse con i trafficanti di uomini.
Vorrei che mio figlio li conoscesse
Finito il racconto, scopro che sia Cawil che Dalmar, abitano poco lontano da casa mia. Sono contento, mi viene subito in mente di farli conoscere a mio figlio, che abbia la possibilità di guardarli negli occhi, come ho fatto io. Di capire. Ci salutiamo. “Piano piano stiamo tornando alla vita” mi sussurra uno dei due, mentre ci abbracciamo.