LA TRAPPOLE E I TENTACOLI DELL’AVERE
IL CAMMINO IMPERVIO PER L’ ESSERE
Il tema dell’avere e dell’essere mi è balzato all’attenzione da pochi giorni, come al solito c’è una disinvoltura che mi fa oscurare prese di coscienza; poi appare un buchetto da cui fuoriesce qualcosa, e presto si trasforma in uno squarcio. Ricordo di aver comprato e letto il libro di Erick Fromm “Avere o Essere?” alla fine degli anni Settanta. Lo assimilai, senza però farne una direttiva, perché quella lettura era solo un allargamento dell’orizzonte culturale. Che bilancio posso tracciare di quelle idee, che cosa se ne può apprendere alla luce dell’esperienza della vita, la quale si incarica di verificarne la validità e la comprensione?
Mi trovavo da giovane alla ricerca di benessere materiale, e l’avere si vestiva di molte forme, era il pacchetto di sigarette, il biglietto del cinema, la pizza con gli amici. Ricordo che tutte e tre cose insieme erano però incompatibili e bisognava giocoforza rinunciare ad una di esse, per lo scarso bilancio a fine settimana. All’orizzonte delle spese appariva anche il giornale e un libro-una tantum– e si ricorreva alle lezioni private, i lavoretti di fotografia- tutto era lì a ricordarmi le necessità materiali, fino all’affitto della casa, quando fui laureato.
Insomma, l’avere aveva la sua importanza e priorità, lo dico senza occultarlo, e si vestiva di necessità immediata. Si era anche abbellito di mille forme quando il piacere cominciò a reclamare i suoi diritti con le prime incursioni nella materia. La patente di guida la ebbi ai ventiquattro anni all’epoca della laurea, la prima auto-usata- ai venticinque. L’essere intanto emergeva a poco a poco, camminava su un piano parallelo, era allora la personalità irruenta e disposta allo studio. Visto ora, c’era una fertile combinazione, l’avere si rinforzava con i risultati dello studio, le materie superate, il curricolo che cominciava a formarsi, e questi in un certo modo delineavano una identità in fieri, una personalità in continua evoluzione per le esperienze, gli scambi, le amicizie.
Dico, a costo di sbagliarmi, che avere ed essere si svilupparono su cammini paralleli, anche se l’avere fagocitava la coscienza dell’essere. Certo, l’essere è qualcosa in più, allude a valori e ideali che vanno costruiti autonomamente, quando la volontà personale ci innalza. Ciò accadeva in momenti episodici, per intuizioni improvvise, per slanci inaspettati, per lezioni che la vita ci dà quando ci desnuda di orpelli e falsi piedistalli. In questi momenti l’avere contava meno, poteva rivelarsi un ostacolo e una distrazione. Direi che erano irruzioni di morale che temperavano l’avere. Ma era sempre in agguato la carriera, il curricolo. Che poi era ciò che significava il viatico per il mondo del lavoro. La locuzione latina di curricolo allude al corso della vita e le realizzazioni che contano, etimologicamente riporta al “correre”. Ha acquistato da tempo il significato di elenco dei corsi di istruzione superati e delle esperienze di lavoro, i titoli di studio o la sequenza delle discipline in ambito universitario. In senso metaforico, il curricolo opera similmente al letto di Procuste: sforbicia aspetti della vita non ritenuti essenziali, oppure dilata valori materiali e virtù fittizie. E a volte le due cose insieme. Nella mitologia greca c’è la figura del letto di Procuste. Il letto di Procuste doveva essere perfettamente conforme alle misure del viandante. A un ospite troppo alto Procuste tagliava le gambe con un’ascia, un ospite troppo basso veniva sottoposto a una vigorosa trazione per essere adattato esattamente alla lunghezza del letto.
Pure, quando mi osservo senza pregiudizi mi vedo come un essere unico e irripetibile, indescrivibile nella sua complessità, anche scrivendo una autobiografia dettagliata. Va senza dire che il curricolo è divenuto indispensabile per tutti in tante relazioni in cui si bada al sodo e si tralasciano aspetti a prima vista ridondanti. Rimane il serio dubbio se la propria vita possa essere racchiusa in una mezza paginetta.
Quando ci si interroga, bisogna chiarire come consideriamo l’avere, quale connotazione intima gli diamo. È senza dubbio una modalità personale. Per uno è il possesso sfrenato, per un altro l’avere può degenerare in avarizia, oppure alimentare l’egoismo, quel sentirsi padroni dell’esistenza, la ricerca continua del piacere senza una migliore conoscenza di sé stessi, il consumo che alimenta una effimera gratificazione, in una rincorsa senza tregua, l’accumulare altre cose ancora. Gli appigli e le tentazioni dell’avere sono una moltitudine, i tentacoli sono dovunque, esso si serve di tutto per affermarsi. In un certo senso, è l’apparire attraverso il possesso, è quel continuo accarezzare la personalità e soddisfarne le brame.
Quando ho cominciato a interrogarmi su questo tema? Non ho disdegnato certe forme di avere, i viaggi, la comodità, piaceri materiali. Le cose sono a poco a poco cambiate quando ho fatto l’esperienza dell’apprendere a vivere in una comunità con compiti e ritmi, dormire in dormitori o in piccoli alloggi individuali, con solo l’essenziale, la pratica del silenzio, i compiti da svolgere per il buon andamento collettivo. Visto retrospettivamente, è stata una scuola di vita in cui contava poco o nulla il curricolo, molto di più il distacco dai beni materiali. Qui l’esperienza è stata intensa e i benefici sono emersi col passar del tempo, all’inizio non ne ero consapevole come lo sono oggi. Cominciare a porre nella coscienza il significato del distacco dai beni materiali non essenziali, può essere un buon inizio per intravedere la fine di una modalità di esistenza a cui si è affezionati, e percorrere il lento passaggio dalla personalità all’individualità.
FILOTEO NICOLINI
Immagine: NANCEE CLARK, Orphanage.