Fonte: La Repubblica
intervista a Mariana Mazzucato di PAOLO GRISERI su “La Repubblica” del 24 agosto 2018
Mariana Mazzucato, economista italo-americana (in novembre uscirà in Italia il suo ultimo libro: «Il valore di tutto: rendita e profitto nell’economia globale»), interviene così nella discussione aperta in Italia sul ritorno dello “Stato padrone” dopo la tragedia di Genova. Mazzucato è nota al grande pubblico per un testo decisamente controcorrente: «Lo Stato innovatore: il pubblico screditato di fronte al mito del privato». È professore di economia dell’Innovazione all’University College London (Ucl) dove ha fondato un istituto per l’Innovazione e il valore pubblico. Si è formata e ha insegnato negli Stati Uniti. Sintetizza: «Non possiamo continuare ad utilizzare occhiali vecchi. Molte delle grandi innovazioni non sarebbero esistite senza un intervento propositivo dello Stato. Il nodo da sciogliere è come interagiscono pubblico e privato. Tema che alcuni Stati europei hanno affrontato da tempo. L’Italia non lo ha ancora fatto. La discussione aperta dopo Genova potrebbe diventare l’occasione per voltare pagina».
Dopo gli anni in cui sembrava che l’unica efficienza fosse nel privato, ora si torna a parlare in termini positivi del ruolo dello Stato nell’economia. Che cosa è successo?
«È successo che per troppo tempo si sono attribuiti solo al privato meriti economici che in realtà erano anche del pubblico. E anzi, senza l’iniziale investimento pubblico non si sarebbero potuti immaginare».
Può farci un esempio?
«Quello più classico riguarda la nascita dell’economia digitale negli Stati Uniti: Internet, il Gps, molte delle funzionalità del nostro smartphone, sono nate da investimenti e scommesse anche abbastanza azzardate dell’economia pubblica. Analogamente è accaduto per le grandi innovazioni in campo sanitario».
Quando è cominciata la deriva privatista?
«A partire dalla metà degli anni ‘80 si è cominciato a pensare che il sistema pubblico non fosse in grado di garantire in breve tempo efficienza e profitti. Così si è pensato di trasformare anche le strutture pubbliche ricalcando il modello delle aziende private, che esigono efficienze e profitti in tempi relativamente brevi. E guardando a quel modello si è stabilito che il pubblico era inefficiente e parassitario».
In Italia come è potuto accadere?
«Nel dopoguerra la ricostruzione e il miracolo economico sono in larga parte merito dei grandi enti pubblici (Iri ed Eni) che avevano ai vertici manager di assoluto livello. Poi quegli stessi manager sono stati progressivamente sostituiti da dirigenti indicati dalla politica e, contemporaneamente, si è cominciato ad organizzare anche il sistema pubblico in base a criteri privati. Al termine del percorso si è stabilito che il pubblico è inefficiente. Una classica profezia che si autoavvera».
Una delle critiche al sistema pubblico è stata in Italia la sua incapacità di gestire. Come dimostra la Salerno-Reggio Calabria…
«L’errore è proprio quello di immaginare un sistema completamente pubblico o completamente privato. Il segreto è nell’interazione. L’economia è fatta di interazioni. Ogni parte porta qualcosa. Chi immagina una società senza sindacati, ad esempio, non riflette sul fatto che senza sindacati non avremmo un orario di lavoro, delle vacanze, un sistema di diritti».
Compromessi, interazioni. Ma non era il libero mercato l’unico regolatore? Non era questo il verbo dell’economia classica?
«Questa è la versione che si è spacciata per decenni. Quando Adam Smith parlava di libero mercato non immaginava affatto un mercato senza regole. La sua polemica era contro i vincoli che nell’economia imponeva, all’epoca, il sistema della rendita che non rischiava capitali ma incassava il frutto delle sue proprietà».
A proposito, come giudica il sistema delle concessioni ai privati nelle autostrade italiane?
«Se è vero che nel caso di Autostrade il governo, in caso di revoca, dovrebbe comunque pagare gli utili per gli anni che mancano alla fine della concessione, vuol dire che quello è un accordo scritto male. Non accade solo in Italia. In Inghilterra, ad esempio, un sistema analogo ha finito per rendere inefficienti e ottocentesche le ferrovie. Le concessioni sono dei patti tra pubblico e privato. Possono essere buone e simbiotiche se scambiano gli incassi dei pedaggi con opere migliorative ma sono certamente cattive e parassitarie se sono sbilanciate a favore di una parte, in questo caso i concessionari».
Altrove non è così?
«Negli Stati Uniti se la parte pubblica dà in concessione un bene, c’è sempre una clausola che impone al privato di pagare una penale per il mancato rispetto del patto. Se io imprenditore non raggiungo l’obiettivo o addirittura causo un danno è ovvio che io debba pagarne le conseguenze»
Lei propone un modello di collaborazione pubblico-privato. Su quali basi potrebbe funzionare in Italia? Immagina che lo Stato possa gestire direttamente delle infrastrutture?
«Il punto non è se lo Stato debba o non debba gestire direttamente e in quali casi , ma come. Nel caso il concessionario fosse pubblico, come la società Autostrade ai tempi dell’Iri, si potrebbero stabilire connessioni e rapporti più trasparenti ed equilibrati, che favoriscano maggiori e migliori investimenti nell’interesse pubblico generale. Non credo a chi mette un veto alla gestione da parte dello Stato. Perché a lungo andare in economia chi non gestisce diventa stupido, finisce ai margini del sistema, non capisce neanche più il futuro delle opportunità. A chi obietta che lo Stato non ha dato prova di grande capacità in questi anni rispondo che c’è bisogno di alzare il livello dei tecnici e dei manager pubblici, ma anche di avere criteri molto diversi per misurare e valutare gli investimenti. Lo Stato non dovrebbe essere relegato a ‘salvare’ le società fallimentari. Deve investire, attraverso le sue strutture (banche pubbliche come Cdp, enti pubblici, ecc.) dove il privato non investe, creando nuovi scenari e aspettative di crescita. Invece in Italia c’è stato per troppo tempo un pubblico che dava solo garanzie, ed un privato che spesso approfittava senza veramente investire adeguatamente: dalla Telecom alle Autostrade».
In quale direzione investire?
«Una economia ecologicamente compatibile richiede non solo energia rinnovabile ma anche materiali diversi, infrastrutture moderne, più rispettose dell’ambiente. Vuol dire proprio pensare a come trasformare tutti i settori dell’economia, incluso i servizi. All’Italia servirebbe un grande piano di ricostruzione in questo senso. Lo sta facendo la Germania ma sta capitando anche in Cina, in Danimarca. Lo schiaffo subìto con la tragedia di Genova può diventare la spinta per imboccare questa strada. Ma questo si può realizzare solo evitando i bagni di ideologia, imbracciando finalmente un piano strategico per il paese con una forte missione pubblica».