La teoria empirica della politica. Il contributo di Norberto Bobbio

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Andrea Mignone

La teoria empirica della politica.

Il contributo di Norberto Bobbio

 

INDICE1. Premessa – 2. Bobbio e la “rinascita” della scienza politica in Italia – 3. Fissare i recinti disciplinari per praticare l’arte di “scavalcarli” – 4. Il metodo della scienza politica – 5. L’oggetto della scienza politica – 6. Conclusioni – 7. Bibliografia

 

  1. Premessa

Il magistero scientifico e l’impegno civile che Norberto Bobbio ha dispiegato nella seconda metà del Novecento non hanno bisogno di molti commenti. Bobbio molto ha scritto e molto su di lui è stato scritto. Studioso dai molteplici interessi culturali e quanto mai versatile e “curioso”, ci pone (e lui stesso ironicamente pose nel corso di un convegno torinese) l’interrogativo da cui partire in questo scritto. Quale Bobbio? Domanda lecita, poiché ha lasciato un segno indelebile in molti campi del sapere, anche diversi (lontani o contigui), e soprattutto nelle scienze sociali.

La sterminata produzione scientifica di Norberto Bobbio ci consegna una immagine poliedrica dello studioso, il cui acuto ingegno ha attraverso plurimi settori disciplinari. Anche su Bobbio ormai gli scritti si sono sedimentati in misura impressionante. In questo ambito ci limiteremo a considerare il contributo del maestro per la promozione e lo sviluppo della scienza politica in Italia, anche attraverso il consolidamento dei suoi strumenti analitici (si veda il bel contributo di Sartori del 2004). Il punto di partenza sarà la ricostruzione dell’impegno di Bobbio per una “teoria empirica” della politica (uno dei tanti ossimori usati come figure retoriche), attraverso il recupero della (già al tempo dei suoi primi scritti e forse di nuovo ora) dimenticata eredità dei classici italiani della scienza politica: Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto su tutti. La rinascita della scienza politica come disciplina con un autonomo statuto volto a definire un approccio scientifico allo studio dei fenomeni politici sarà l’incipit su cui articolare il presente lavoro. In questa prospettiva daremo poi conto degli sforzi (di Bobbio, ma in una continua interazione consensuale/conflittuale con Bruno Leoni – studioso non ancora apprezzato come meriterebbe – e, soprattutto, con Giovanni Sartori) per delimitare i confini disciplinari della scienza politica. Tratteremo in seguito due aspetti fondamentali per l’edificazione di un approccio scientifico degli studi politici: la precisazione del metodo e la definizione dell’oggetto della scienza politica. Tenteremo poi una breve conclusione, che vuole ricordare come oggi la scienza politica ha forse troppa “empiria” e poca teoria: una montagna di dati sovente cresciuta sul vuoto teorico. Sarà forse giunto il momento di riproporre una “terza” rinascita della scienza politica in Italia?

 

  1. Bobbio e la “rinascita” della scienza politica in Italia

E’ ormai riconosciuto, per unanime giudizio, il ruolo centrale che Norberto Bobbio ha avuto dagli anni Cinquanta per la ripresa della scienza politica in Italia nel secondo dopoguerra. Con pochi altri, che incontreremo nel prosieguo dello scritto, è stato protagonista sia della istituzionalizzazione della disciplina sul piano accademico e nella cultura del paese, così come della definizione dello statuto scientifico degli studi politici, individuandone il metodo di indagine, i contenuti e gli oggetti.  Lo stesso Bobbio, considerato uno dei padri nobili della ripresa dello studio scientifico dei fenomeni politici (Sola 2005, 27), ha compiuto un bilancio della disciplina, con un resoconto delle vicende relative alla sua nascita, sviluppo, declino e rinascita. Bobbio ha cominciato a scrivere, dall’inizio degli anni ’50, articoli che nel loro insieme si propongono la ricostruzione storica della nascita e del primo sviluppo della moderna scienza politica italiana, unita al tentativo di mettere in chiaro la validità scientifica degli studi politici e, in questo ambito, delle dottrine élitistiche. L’argomentazione di Bobbio è persino perentoria sin dall’incipit di un suo noto contributo: “Della scienza politica in Italia si può stabilire con una certa esattezza la data sia di nascita, alla fine del secolo, sia della rinascita, dopo la seconda guerra mondiale. Tanto la nascita quanto la rinascita sono connesse allo sviluppo dello stato liberale e democratico, dello stato liberal-democratico” (Bobbio 1986, 44). La nascita coincide con la pubblicazione degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca nel 1896. Invece “l’atto di rinascita può essere considerata l’uscita del primo fascicolo della rivista Il politico (1950) diretta da Bruno Leoni, il qual insegnava peraltro dottrina dello stato” (Bobbio 1986, 58). Il nostro si affretta a ricordare che nel 1952 esce a Firenze la rivista  Studi politici con saggio di Sartori e si tiene il primo congresso di studi metodologici a Torino con contributi di Bobbio stesso e Maranini sullo stato della scienza politica.

Per la Scienza politica del secondo dopoguerra il bilancio è ancora considerato “lamentevole” da Bruno Leoni, che ne evidenzia il sottosviluppo (Leoni, 1960) e Bobbio condivide il giudizio: il risultato è “modesto”, poggiando più su buona volontà che su fatti compiuti (Bobbio, 1961). Ancora nel 1967 Sartori ha modo di scrivere che “la scienza politica è in fase di parto” e che il “1967 è ancora l’anno zero, o giù di lì. Si direbbe che in Italia la scienza politica non è nemmeno oggetto di domanda” (Sartori, 1969). Negli anni Cinquanta le sedi che si occupano di scienza politica sono: Firenze con Giovanni Sartori, Pompeo Biondi – tra l’altro, direttore della rivista “Studi politici”, uscita nel 1952 ospitando un articolo di Sartori, seguito “a ruota” da un ulteriore contributo nel 1953 (Sartori, 1952 e 1953) –  e Giuseppe Maranini; Torino (oltre a Bobbio, vincitore della cattedra di Filosofia del diritto nel 1939, Luigi Firpo e Alessandro Passerin d’Entreves, coordinatore – tra l’altro – di una importante sessione dedicata allo studi delle élites nell’ambito del IV Congresso mondiale di sociologia tenutosi a Milano nel 1959, con la partecipazione di studiosi come Sartori, Catlin, Meisel e Bobbio stesso), Pavia (Bruno Leoni, fondatore nel 1950 de Il Politico), Bologna (Felice Battaglia). Bobbio tratteggia mirabilmente la situazione agli inizi degli anni Sessanta (Bobbio 1963, 45): “In questo benedetto paese si è trovato un Parlamento disposto ad approvare… l’introduzione delle Istituzioni di diritto e procedura penale tra le materie obbligatorie delle Facoltà di scienze politiche…..E invece non mi risulta che qualche autorevole membro del Parlamento abbia sinora proposto di introdurre nelle Facoltà di scienze politiche l’insegnamento della scienza politica…Effettivamente la scienza politica non ha avuto in Italia in questi ultimi anni una buona stampa, nonostante che la tradizione di questi studi possa contare su un’opera assai nota anche fuori del nostro paese, gli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca, apparsi quasi settant’anni fa!…”. Bobbio era sensibile alle suggestioni della tradizione classica, individuata in Mosca, Pareto  e Michels (riconosciuti “senza dubbi” come i padri fondatori della rinata scienza politica in Italia), in contrasto con giuristi, filosofi e storici, mentre Leoni, allievo come Bobbio di Gioele Solari, era più sensibile alla tradizione empirica anglosassone con forti interessi per la scienza economica. Ancora nel 1966 Giovanni Sartori è l’unico titolare di cattedra di Scienza politica in Italia (a Firenze): è il primo ingresso ufficiale della materia nelle Università italiane. Anche in questo caso, tuttavia, Sartori ha la cattedra di Scienza politica per trasferimento da Sociologia, cattedra vinta nel 1961 con il primo concorso in Italia di tale disciplina (la laurea in Scienze politiche gli sarà conferita Honoris Causa dall’ateneo genovese il 14 novembre 1992). Negli anni precedenti erano stati attivati alcuni corsi liberi: lo stesso Sartori era stato incaricato a Firenze nel 1956, e Bobbio nel 1962 a Torino. I suoi corsi avevano per oggetto “l’argomento principe della scienza politica: i partiti politici” (Bobbio 1997, 168). Tra l’altro, utilizzava un classico dell’argomento, il testo di Maurice Duverger, I partiti politici, edito in italiano dalle Edizioni di Comunità (1961). Tema sul quale Bobbio aveva già scritto un saggio nel 1946 (Bobbio, 1946). L’incarico è stato, successivamente, uno dei motivi del suo trasferimento nel 1972 alla neonata Facoltà di Scienze politiche come titolare della cattedra di Filosofia della politica. Curiosamente, ma non tanto, anche il corso di Scienza politica tenuto a Firenze nel 1965 da Sartori si intitolava Partiti e sistemi di partito.

Le traiettorie accademiche e disciplinari descritte mettono in luce alcuni tratti distintivi dei due grandi protagonisti della rinascita della scienza politica in Italia, Bobbio e Sartori. In primo luogo, Bobbio ha soprattutto la volontà di rivendicare l’autonomia e la dignità scientifica della scienza politica rispetto alle discipline giuridiche (nel contributo su “Tempi Moderni” del 1963 ha modo di ricordare un convegno torinese con giuristi per sostenere la scienza politica, dal quale emerse invece indifferenza, se non ostilità) e anche nei confronti dell’area storica. Sartori cerca soprattutto di distinguere la scienza politica dalla fiorente (e alla moda) sociologia politica. In secondo luogo, Bobbio poggia il rilancio della disciplina sulla grande tradizione italiana di studi politologici, da Machiavelli a Mosca e Pareto (i suoi celebri “Saggi sulla scienza politica in Italia” del 1969 sono incentrati appunto sui contributi di Mosca e Pareto). Sartori è più attento a cogliere i risultati della scienza politica d’oltreoceano (behaviorismo e approccio sistemico) e a sviluppare le questioni metodologiche, specie con riferimento all’attività di comparazione (la “Antologia di scienza politica” dallo stesso curata nel 1970, contiene – a parte le Introduzioni scritte da suoi allievi e collaboratori: Urbani, Passigli, Sani, Fisichella, Mortara e Pasquino, che si era laureato invece a Torino con Bobbio – trentacinque contributi tutti di autori stranieri). Bobbio pone al centro della riflessione politologica il tema del potere, del suo esercizio e della sua distribuzione; Sartori è più sensibile ai temi delle istituzioni e delle regole, delle forze politiche organizzate. Certo, in comune vi è stato un uso del linguaggio in cui i termini non sono mere convenzioni, ma strumenti conoscitivi della realtà: l’analisi concettuale attraverso l’analisi linguistica. Entrambi convergono sulla necessità della chiarezza concettuale e di una puntuale analisi terminologica, con particolare attenzione all’uso dei termini, alla strutturazione di linguaggi appropriati (Pasquino 2013, 460). Sartori a partire da Democrazia e definizioni del 1957 non ha mai smesso di insistere sulla concettualizzazione “non stiracchiata”, e Bobbio  presenta il Dizionario di Politica (1976) come strumento per superare la constatazione che “Il linguaggio politico è notoriamente ambiguo” in quanto molti termini hanno significati diversi, anche perché “nessuno dei termini del linguaggio politico è ideologicamente neutrale”, con l’obiettivo di sistemare con precisione i termini scientifici del lessico politico.  Bobbio, “pittore di concetti”, nella sua opera dimostra la grande capacità di operare distinzioni, di analizzare i concetti, di chiarire i diversi significati con cui vengono usati, di scomporre contrapporre, ricomporre i termini, talora equivoci, dei problemi (Ferrajoli 2003, 179); al tempo stesso dispiega la sua abilità per scovare le implicazioni nascoste e rilevare i nessi significativi tra concetti e problemi, tra l’analisi e i fatti, tra la storia e la teoria. Quest’ultima intesa come tessuto aperto di ipotesi e congetture, fortemente orientato in senso empirico e costruito a partire dal linguaggio ordinario, reso puntuale dalla lama della filosofia analitica.

Ma il loro è stato anche un impegno nello studio scientifico inteso come una “vocazione” (Weber, 1948). Sicuramente lo è stato con riferimento all’affermazione della scienza politica come disciplina accademica e alla costruzione del suo statuto scientifico: non si contano negli anni Sessanta gli articoli e i convegni volti al riconoscimento della materia tanto nell’ambiente universitario quanto nella cultura italiana. In particolare, vale la pena di ricordare il Convegno organizzato a Torino nel 1962 dal Centro di Studi Metodologici, sotto la presidenza dello stesso Bobbio. L’occasione fu “un primo scambio di opinioni attorno al metodo e all’oggetto della scienza politica e ai criteri del suo insegnamento nelle nostre università”. Le relazioni introduttive furono di Leoni (Oggetto e limiti della scienza politica) e di Sartori (Metodologia della scienza politica). Quasi per curiosa coincidenza, nel 1969 Bobbio pubblica il suo “manifesto” della rinnovata scienza politica con i Saggi citati, mentre Sartori pubblica la sua Antologia nel 1970 e darà vita l’anno successivo alla nascita della “Rivista Italiana di Scienza Politica” (che ospiterà già nel secondo fascicolo del primo anno un fondamentale contributo di Bobbio sui confini disciplinari). Inoltre, il primo concorso specificamente riservato a professore ordinario di Scienza politica è del 1970: risultano vincitori Domenico Fisichella e Alberto Spreafico (allievi di Sartori) e Paolo Farneti (allievo carissimo a Bobbio).

Sartori “conferisce” a Bobbio il titolo di maitre à penser (Sartori, 2004): studioso proveniente dalla filosofia del diritto, sostiene Sartori, abbracciò il positivismo giuridico e si avvicinò alla scienza empirica attraverso il Centro di Studi Metodologici di Geymonat. Ma l’avvicinamento alla scienza politica da parte di Bobbio fu, per Sartori, soprattutto determinato dall’interesse allo studio dei classici volto alla elaborazione di una teoria generale della politica e dalla forte passione civile. Il fondamentale lavoro di Michelangelo Bovero ne dà ampia testimonianza (Bovero, 1999).

Non vi è lo spazio per soffermarsi su un aspetto interessante sui luoghi della discussione: le Riviste. Esse sono state protagoniste della ripresa degli studi politici negli anni Cinquanta e Sessanta: non solo le classiche testate “il Politico” e “Studi politici”, ma anche “Tempi Moderni”, “Occidente”, “Nord e Sud”, “il Mulino”, “Controcorrente”, “Il Ponte” hanno ospitato riflessioni teoriche ed indagini empiriche classiche della scienza politica. Gli studiosi sono mossi dal “desiderio di saperne di più”, di tracciare “più larghe visioni”. Esse contribuiscono a cogliere i legami tra gli elementi di una struttura sociale e i modelli prescelti per osservarli, descriverli e interpretarli. Le radici sono nel clima in cui al trepidare delle speranze, all’ardore degli ideali si affiancano cautele per i cambiamenti impetuosi, attenzione per nuovi attori decisivi nella democrazia. All’età della poesia resistenziale segue l’età della prosa, dei problemi economici, delle tensioni sociali. Sensibilità, spirito critico, bisogno di verità fondata sui dati ricavati dalle copiose ricerche empiriche avviate: una nuova prosa sfida lo studio dei fenomeni politici.

 

  1. Fissare i recinti disciplinari per praticare l’arte di “scavalcarli”

Negli anni in cui si pongono le fondamenta per un rilancio della scienza politica, la questione non è soltanto quella di recuperare le “salde radici” dell’opera di Mosca e Pareto per la rinascita della disciplina, ma anche quella di tracciare l’identità degli studi politici condotti con metodo scientifico e saggiarne l’autonomia. Insomma, la definizione dei confini è questione non solo istituzionale, ma anche scientifica e identitaria. Nel caso della scienza politica, la definizione dei contenuti e dei metodi attiene non solo ai rapporti con discipline contigue – come sociologia, filosofia, diritto e storia – ma chiama in causa anche altri due problemi: “lo stato della cultura politica diffusa e, soprattutto, l’accettazione del principio che sia possibile conoscere i fenomeni politici in modo avalutativo e produrre un sapere suscettibile di applicazioni concrete” (Sola, 2005, 44). Nel clima culturale del dopoguerra era importante affermare la possibilità di una conoscenza dei fenomeni politici separata dalle ideologie e dai valori e di una autonomia disciplinare rispetto a metodo applicabile, a prospettive di ricerca, a contenuti sostantivi degli studi. In un limpido articolo del 1961 Bobbio ricorda le difficoltà di un progetto scientifico nel clima ideologico del secondo dopoguerra: “Chi guardi il panorama degli studi politici in quegli anni, vede soprattutto espandersi tre correnti di pensiero politico con intenti prescrittivi, il marxismo, il socialismo liberale, il cristianesimo sociale. L’analisi della società è spesso un pretesto per costruire programmi d’azione” (Bobbio 1961, 217). Vale a dire, una cultura dominata dalle ideologie rappresenta un ostacolo serio all’affermarsi di una teoria empirica della politica. Bobbio, in particolare, si propone di dimostrare la diversità della scienza politica rispetto alle discipline giuridiche e rispetto alle scienze storiche. In questo giocò un ruolo fondamentale la rilettura dei “classici”, soprattutto Pareto e Mosca, ma anche Weber, con particolare riferimento al tema del potere. Da un lato vi era il formalismo giuridico, per il quale “il punto critico della cosiddetta scienza politica era la fluidità e la provvisorietà … dei suoi contenuti, la sua incurabile, perché costituzionale, empiricità” mentre per gli storici d’indirizzo storicistico “il punto critico era invece il procedimento metodico di generalizzazione … era, in definitiva, la sua inevitabile astrattezza” (Bobbio 1963, 17). Ancora Bobbio: “Le sentinelle che sbarrarono l’accesso degli studi empirici e generalizzanti della politica al nobile castello delle scienze furono, da un lato, il metodo giuridico, con cui si veniva intendendo sempre più la costruzione di forme stabili, ove poteva essere calato qualunque contenuto, e il metodo storico, che, volto alla ricerca dell’individuale, cercava di tener lontane le false, e talora strampalate, generalizzazioni dei positivisti ottocenteschi” (Bobbio 1963, 46-7). In entrambi i casi, la scienza politica veniva degradata a scienza ausiliaria (nella migliore delle ipotesi): del diritto secondo i giuristi, della storiografia secondo i cultori delle discipline storiche (Graziano 1986, 23). Bobbio si propone di mettere in evidenza i tratti distintivi della scienza politica, una sua diversità per punti di vista e per metodo. “Il giurista fa oggetto delle proprie ricerche i comportamenti in quanto sono regolati dalle norme di un determinato ordinamento giuridico … Lo scienziato della politica, invece, studia di un comportamento soprattutto le motivazioni e le conseguenze rispetto ai fini proposti”. Il giurista si occupa di istituzioni come strutture formali e di comportamenti regolati da norme in termini di diritti e doveri; lo scienziato politico osserva le istituzioni, in cui la distribuzione dei poteri di fatto si distanzia dagli aspetti formali e descrive comportamenti cercando spiegazioni in termini di interessi e motivazioni, di risultati e di conseguenze. Per quanto riguarda gli storici la differenza è tra ricerca individualizzante (idiografica) e ricerca generalizzante “ma lo storico dovrebbe cominciare a domandarsi se sia possibile conoscere un qualsiasi fatto individuale senza far uso di concetti generali” (Bobbio 1969, 21-3). Da un lato, quindi, lo scienziato politico si interessa delle ragioni che portano l’individuo a prendere parte o meno alla vita politica e analizza le conseguenze dei rapporti di potere sostanziale e non solo formale. Dall’altro la differenza tra scienziato politico e storico è tracciata tra conoscenza individualizzante e conoscenza generalizzante. Il primo utilizza concetti generali che gli consentono di esaminare i fenomeni di massa, mediante studi che applicano all’analisi dei fenomeni politici la metodologia delle scienze empiriche (“scompaiono gli individui e rimangono i tipi”). Lo storico invece considera i fatti come diversi gli uni dagli altri, dedicandosi alle vicende specifiche e a persone concrete. Per Bobbio “il più forte argomento a difesa della scienza politica … sta nel mostrare, nel far toccare con mano, che lo studio giuridico-normativo e quello storico-individualizzante dei fatti politici non esauriscono il campo, e in mezzo c’è quella terra di nessuno che sta per venir occupata da una nuova scienza …” cioè, dalla scienza politica (Bobbio 1963, 48).

Ma è la differenza con la filosofia politica che occupa negli anni Cinquanta e Sessanta la riflessione di Bobbio nella costruzione dell’identità della scienza politica. In verità, già Sartori aveva osservato nel 1959 (nelle dispense fiorentine dedicate a Questioni di metodo in scienza politica) che la differenza sta in particolare nell’uso empirico e osservativo del linguaggio della scienza politica e nell’uso speculativo e onni-rappresentativo del linguaggio da parte della filosofia. Bobbio ribadisce la differenza tra le due discipline proprio per proporre in positivo una definizione di scienza politica. Egli ebbe modo di riassumere e distinguere, in una relazione presentata ad un Convegno a Bari, nel 1971, quattro significati dell’espressione “filosofia politica”: “a) ricerca della miglior forma di governo  o dell’ottima repubblica; b) ricerca del fondamento dello stato e conseguente giustificazione (o ingiustificazione) dell’obbligo politico; c) ricerca della natura della politica o meglio della politicità, e conseguente distinzione tra politica e morale; d) analisi del linguaggio politico e metodologia della scienza politica” (Bobbio 1971, 367). Nel contempo considera la scienza politica come ogni analisi empirica dei fenomeni politici che risponda alle seguenti condizioni: il principio di verifica come criterio di validità, la spiegazione come scopo, la avalutatività come presupposto etico, come virtù dello scienziato (Morlino 1989, 21). Si può convenire sulla tesi che la scienza politica presenta convergenze con la filosofia politica sui precedenti punti a) e d) “sia quando ricerca nelle condizioni date di quali siano le istituzioni migliori ovvero, comunque, preferibili, utilizzando il metodo comparato, sia quando elabora una concettualizzazione precisa e condivisa, indispensabile premessa per un efficace uso di qualsiasi metodologia” (Pasquino 2011, 135). Come sostiene efficacemente lo stesso Bobbio, la filosofia politica non è la scienza politica, intesa quest’ultima come ogni analisi dei fenomeni politici che si valga “nei limiti in cui è possibile, delle tecniche di ricerca proprie delle scienze empiriche, cioè si dica scienza nel senso in cui sono scienze le scienze empiriche (distinte secondo la terminologia carnapiana, che mi sembra tuttora valida, dalle scienze formali)” (Bobbio 1971, 370). La filosofia politica è conoscenza normativa, talora volta a progettare regimi ideali occupandosi “della miglior forma di governo” e delle ragioni dell’obbligazione politica. La scienza politica è sapere descrittivo ed esplicativo, basato sull’osservazione e cercando di dar conto dei rapporti fattuali di potere, anche poggiando l’indagine sugli attori, di scena e di retroscena (per alcune riflessioni critiche si veda Zolo 1985).

Va tuttavia riconosciuto che i “tanti Bobbio” sono l’espressione di una forte attenzione per i reciproci rapporti di complementarietà tra le discipline, secondo la lezione del plurifattorialismo e della multidisciplinarità imparate dai classici, che gli consente di assumere una posizione costruttiva ed equilibrata. Nei suoi lavori si può incontrare un fruttuoso incontro di vari strumenti analitici di volta in volta ricavati dalla storia delle dottrine politiche, dalla scienza politica, dalla filosofia politica, dal diritto pubblico (basta scorrere le voci del Dizionario di Politica sia nella edizione del 1976 che in quella del 2004). Importante esempio è l’uscita della rivista “Teoria Politica” a partire dal 1985 a Torino, del cui Comitato editoriale Bobbio fa parte. Il programma della rivista sottolinea la positività dell’incontro “considerato naturale” tra due modi (quelli della scienza politica e della filosofia politica) di studiare la stessa realtà politica, in virtù della tradizione dell’interdisciplinarità. Il punto di partenza comune è il “giudizio positivo sulla possibilità che filosofi e sociologi, storici, politologi e giuristi si interroghino reciprocamente, interagiscano e collaborino…, accettino insomma di rimettere in discussione i risultati del loro lavoro specialistico attraverso la considerazione attenta di quanto prodotto nel campo dei vicini” (così l’apertura del Direttore, Luigi Bonanate).

Sarebbe interessante anche approfondire il dibattito sulle differenze con la sociologia politica, questione nella quale è stato polemista eccellente soprattutto Sartori. Ma questa è un’altra storia. La Sociologia politica, come studio “di confine”, ha attraversato stagioni ugualmente critiche e incerte, sovente in bilico tra sociologia e scienza politica. Anche in questo caso le prime avvisaglie risalgono alla prima decade del Novecento, quando si consolida la scienza politica con l’opera di Gaetano Mosca e la sociologia è ai suoi massimi scientifici con Vilfredo Pareto. In modo singolare tra il 1911 e il 1912 escono alcune opere che possiamo definire di sociologia politica. Ovviamente l’esempio più clamoroso è il libro di Roberto Michels, La sociologia del partito politico, edito nel 1911 e tradotto in italiano l’anno successivo: opera vera di “sociologia politica”. Ancora nel 1911 esce il primo libro che forse riprende nel titolo l’“etichetta” di cui discutiamo. Alfonso Asturaro pubblica appunto Sociologia politica, la cui lettura appare oggi piuttosto deludente. Michels sarà chiamato all’Università di Roma nel 1926 a tenere un corso di un mese proprio di Sociologia politica. Il corso dà luogo ad una dispensa dal titolo Corso di sociologia politica (1927) ed è la ragione di un tentativo, fallito, di istituzionalizzare già allora la disciplina.

Nel secondo dopoguerra il tema dei confini disciplinari si ripropone, ma lo sviluppo di molte ricerche empiriche su partecipazione politica, opinione pubblica, gruppi ed élites costituiscono la base per il rilancio della sociologia politica come disciplina autonoma. Non a caso troviamo nella bibliografia dell’epoca il lavoro di Filippo Barbano, Sociologia della politica (1961), il contributo di Angelo Carbonaro Sociologia politica nella Antologia di scienze sociali curata da A. Pagani (1963), il testo di Alberto Spreafico Ricerche di sociologia politica (1964) e quello di Alberto Izzo, Sociologia dei fenomeni politici, in AA.VV., Questioni di sociologia (1966). Sartori segna la strada: in un articolo del 1968 sulla Rassegna italiana di sociologia, dal titolo Alla ricerca della sociologia politica, sostiene che la sociologia politica non esiste, esiste la scienza politica. Le reazioni sono scarse e poco incisive, a parte un articolo di Giacomo Sani del 1969. Non a caso nel 1970 esce la Antologia di scienza politica (una sorta di manifesto disciplinare) e si celebra il primo concorso a cattedra di scienza politica; mentre nel 1971 esce il primo numero della Rivista italiana di scienza politica. Ma la storia riserva talora sorprese dietro le curve della sua strada. I sistemi politici erano attraversati da nuovi fermenti, i movimenti sociali erano sempre più attori politici, la distinzione tra fenomeni sociali e politici tendeva a sfuocare. Tornava la necessità di studiare i fenomeni sociali e la loro influenza sulle dinamiche politiche. Nel 1971 Eugenio Pennati pubblica Elementi di sociologia politica e nel 1973 Franco Ferrarotti scrive Sociologia del potere; l’anno dopo in Francia esce un manuale – scritto da J. P. Cot e J. P. Mounier – che avrà larghissimo impiego nelle Università, Pour une sociologie politique (tradotto in Italia nel 1976). Nel 1979 T. Bottomore pubblica Political Sociology, tradotto nello stesso anno col titolo Politica e società.

 

  1. Il metodo della scienza politica

Il consolidamento dello studio scientifico della politica passa attraverso un vero e proprio “discorso sul metodo”. Lo stesso Bobbio lo sottolinea. Nel dare conto della sua “conversione” o meglio, di un suo “processo di liberazione” dal formalismo giuridico figlio dell’idealismo, Bobbio ricorda che “Anche grazie alla nascita del Centro di studi metodologici, che raccoglieva scienziati e giuristi, filosofi ed economisti, intorno al discorso sul metodo… mi riuscì di compiere il passo decisivo per lasciarmi alle spalle definitivamente le ambiguità del passato” (Bobbio 1992, 7-8). Frutto della partecipazione alle attività del Centro fu l’articolo Scienza del diritto e analisi del linguaggio. Tra l’altro tutto ciò determinò, nel nostro, il passaggio alla filosofia positiva e quindi la sua filosofia del diritto si risolse nella teoria generale del diritto (e giustifica la fisionomia di un Bobbio “kelseniano”).

Ne emerge un percorso realistico (Carrion, 2004) nell’accostarsi all’indagine dei fenomeni politici. La sua vocazione del realismo è stata sovente in tensione con ciò che altri hanno chiamato una utopia ragionevole. Per Bobbio è importante “… il richiamo alla lezione dei fatti, l’invito a un ragionevole diffidenza verso gli ideali troppo eccelsi o verso le teorie troppo perfette, che avevano fatto schermo alla comprensione di quello che stava realmente accadendo” (Bobbio 1996; VII). E ancora: “La teoria dell’élite è una teoria realistica della politica. Come tale, è un perenne e salutare invito a osservare le cose della politica con sguardo disincantato … La scienza politica, nel suo professato realismo, per un verso insegna a diffidare degli allettamenti del pensiero utopico, per un altro verso, si propone di liberare la verità effettuale dal velo con cui le ideologie la ricoprono” (Ibidem). In primo luogo, Bobbio distingue tra scienza politica “in senso ampio” e “in senso stretto”. Con il primo tipo si intende qualsiasi studio dei fenomeni e delle dinamiche politiche “condotto con sistematicità e rigore, appoggiato su un ampio e accurato esame dei fatti, esposto con argomentazioni razionali”: ci si rimette alla prova dei fatti. In senso stretto e più tecnico, sostiene il nostro, scienza politica designa un settore di studi specializzati e anche istituzionalizzati, “con cultori collegati tra loro che si riconoscono come scienziati politici”, che si propongono di applicare all’analisi del fenomeno politico nei limiti del possibile la metodologia delle scienze empiriche. Scienza politica in senso ristretto sta per “scienza empirica della politica”, cioè condotta secondo la metodologia delle scienze empiriche più sviluppate, come la fisica, la biologia, ecc.” (Bobbio 2004, 862). Precisa Giorgio Sola (Sola 2006, 19) che lo scienziato politico sottopone ad osservazione la realtà, ne considera le forze e le strutture che limitano scelte e atteggiamenti individuali e condizionano i risultati dell’azione. Questa prospettiva realistica si presenta, secondo Bobbio (1971), in almeno tre versioni: realismo come contrasto di utopie e ideologie; realismo come critica delle apparenze, dei mascheramenti, delle manipolazioni e dei formalismi; realismo come conoscenza scientifica.

L’analisi scientifica dei fenomeni politici: Bobbio ha sviluppato l’arte di scavalcare gli angusti confini disciplinari alla ricerca dei rapporti (principi e metodi comuni) tra diritto, filosofia e scienza politica, sfuggendo alle trappole di mere analogie, metafore accattivanti e immagini retoriche riversate da una disciplina all’altra.

Il fatto che abbia rafforzato nella scienza politica il ricorso alla teoria empirica (per il nostro autore un corretto ritorno alla interdisciplinarità delle scienze sociali che ha trovato in Vilfredo Pareto, uno dei classici più tenuti a riferimento da Bobbio, uno dei vertici scientifici più alti, contrapponendo una teoria scientifica della società ai “romanzi”)  costituisce titolo di merito, soprattutto perché si è trattato di uno sforzo non disgiunto dal tentativo di proporre modelli e teorie interpretative (Bobbio 1961, 139). Sforzo teso ad evitare il pericolo di disporre soltanto di una montagna di numeri e dati ma desolatamente soprastante il vuoto teorico. Lo stesso Bobbio elenca lucidamente le condizioni che danno scientificità ad una ricerca anche nel campo degli studi sui fatti politici: “a) sottoporre le proprie conclusioni a verifica empirica, o almeno a quel tanto di verifica empirica che è possibile coi dati a disposizione … oppure mettere in opera tutte le tecniche più accreditate e applicabili al caso per aumentare la disponibilità dei dati, cioè per accrescere la sua verificabilità; b) valersi di tutte le operazioni mentali, come formulazioni di ipotesi, costruzioni di teorie, enunciazioni di leggi tendenziali, che permettano di perseguire l’obbiettivo specifico di ogni ricerca scientifica, che è quello di dare una spiegazione del fenomeno che si vuole indagare; c) non pretendere di dare alcun giudizio di valore sulle cose di cui ci si occupa e quindi di trarre prescrizioni immediatamente utili alla prassi” (Bobbio 1971, 370). Insomma, per l’autore queste tre condizioni fanno capo a tre requisiti fondamentali di ogni ricerca scientifica “secondo il modello delle scienze per eccellenza, le scienze naturali, e nel senso forte e nobile per cui l’età moderna viene fatta coincidere con l’inizio, con lo sviluppo e col trionfo della rivoluzione scientifica: a) il principio di verificazione come criterio di validità; b) la spiegazione come scopo; c) l’avalutatività come presupposto etico” (Ibidem). Su quest’ultimo aspetto si è soffermato spesso Bobbio, riconoscendo la difficoltà “di restare avalutativi” ma che il miglior modo di difendere l’avalutatività è di riconoscere la difficoltà del raggiungerla e di non nascondere, ma, come si richiede, di dichiarare, i propri valori. La nobiltà e la virtù dello scienziato stanno nello spogliarsi delle proprie preferenze, di essere wertfrei. Inoltre “soltanto un atteggiamento realistico di fronte alla politica permette di sottoporla a una riflessione oggettiva, distaccata, in una parola scientifica, di ‘andare drieto alla verità effettuale delle cose’ anziché alla ‘immaginazione di essa’”, secondo la nota espressione del Machiavelli.

In questa presa di posizione echeggia la grande lezione di Weber, uno dei pochi classici riconosciuti da Bobbio, a parte gli italiani Mosca e Pareto. Anzi, in questa occasione egli precisa le caratteristiche per considerare classico uno scrittore: essere considerato come l’interprete autentico e unico del proprio tempo; essere sempre attuale, per cui ogni età e ogni generazione sente il bisogno di rileggerlo e di reinterpretarlo; avere costruito teorie-modello di cui ci si serve per comprendere la realtà, anche la realtà diversa da quella da cui le ha derivate e a cui le ha applicate, diventando vere e proprie categorie mentali (Bobbio, 1981).

Le considerazioni esposte servono a porre la questione della scientificità dello studio dei fenomeni politici, poiché di questo si tratta guardando all’opera di Bobbio nel suo complesso: un esempio della trasferibilità di principi e metodi delle scienze fisico-naturali e delle c.d. “scienze esatte” alle scienze politiche e sociali, pur con le cautele del caso e scontando alcuni limiti (elaborazione non di leggi ma di generalizzazioni, tendenze, probabilità: ma cosa dire allora della fisica nel secolo scorso quando affronta il tema della relatività con Einstein, dei quanti con Planck, dell’onda di probabilità di Bohr, del principio di indeterminazione di Heisenberg? Le scienze sociali non erano già avanti….? Pareto in una lettera a Sensini del 22 maggio 1921 sostiene che il suo Trattato fu “un tentativo, molto imperfetto, per introdurre nelle scienze sociali quella relatività che è introdotta ora nelle scienze fisiche”).

La scienza politica ha oggi un patrimonio di risorse conoscitive – teorie, modelli e risultati di ricerca – che le conferisce un posto di rilievo nel novero delle scienze sociali. Tuttavia vi sono alcune difficoltà, dovute sia alla frammentazione di approcci e modelli che disperdono i politologi in scuole e tradizioni di ricerca che diventano talora sette, o per dirla con Almond, “tavole separate”; sia al compiacimento per tecnicismi o ricerca di “novità” a tutti i costi; sia agli scarsi risultati in ordine alla applicabilità alla realtà delle ipotesi formulate. A fronte di tutto ciò, tuttavia, la scienza politica si riferisce ad un movimento intellettuale che si propone di affrontare lo studio dei fenomeni politici seguendo un procedimento scientifico che prende come termine di confronto le scienze naturali. Ciò significa che coloro che ne fanno parte accettano di configurare l’attività di ricerca come strumento di convalida e di costruzione della teoria e, al tempo stesso, sostengono il principio della traducibilità della teoria in pratica. In questo contesto, il termine “scienza politica”, nel giudizio di Bobbio (1985) acquista una connotazione più definita e i suoi requisiti, codificati e istituzionalizzati, comprendono i seguenti punti: 1. costruzione di concetti empirici; 2. predisposizione di classificazione e tassonomie; 3. formulazione di generalizzazioni; 4. costruzione di teorie intese come schemi concettuali ordinatori e d unificanti; 5. ricorso ad un lessico denotativo in cui le parole significano quello che rappresentano; 6. verifica o falsificazione delle ipotesi mediante l’esperimento, il controllo statistico, il controllo comparato, il controllo storico (Sola 2006, 14). Gli studiosi che si riconoscono in questo programma di lavoro danno vita ad una impresa scientifica che, per quanto articolata in numerosi settori di analisi e frammentata sotto il profilo degli argomenti di ricerca, costituisce una esperienza unitaria, dotata di carattere distintivo rispetto alle altre scienze sociali.  Come ha sostenuto Ordeshook (1997), l’analisi politica ha due compiti: Il primo è la scoperta delle leggi e delle forze fondamentali (osservare fenomeni empirici, spiegare, generalizzare ipotesi, comparare, costruire relazioni logiche tra teorie). Il secondo compito è l’ingegneria politica, il tentativo di applicare le componenti della teoria all’analisi di specifici processi e fenomeni, attraverso una varietà di strumenti formali e informali.

 

  1. L’oggetto della scienza politica

Pur con i distinguo disciplinari sopra richiamati, è innegabile che Bobbio abbia abilmente utilizzato in scienza politica molte delle competenze acquisite anche nel “coltivare” studi sia di teoria del diritto che di filosofia politica, poiché tutte queste aree scientifiche si occupano dello stesso oggetto: la questione del potere politico. Sotto questo profilo, per Bobbio la scienza politica va intesa come scienza del potere. Il potere è “concetto-chiave della scienza politica” (Bobbio 1964, 73) e “la teoria del potere è l’oggetto principale della teoria generale della politica” (Bobbio 1964, 52) così come la teoria della norma è l’oggetto principale della teoria generale del diritto: “Ho sempre considerato la sfera del diritto e quella della politica, per usare una metafora che mi è familiare, due facce della stessa medaglia. Il mondo delle regole e il mondo del potere. Il potere che crea le regole, le regole che trasformano il potere di fatto in un potere di diritto” (Bovero 2010, 1). Egli costruisce la definizione della politica essenzialmente attraverso la nozione di potere. “Anche perché è la più comprensiva: nel modello di Bobbio, la sfera del potere è più ampia di quella della politica, e questa è più ampia della sfera dello stato” (Bovero 1999, XXXIV). Anzi, la concezione realistica della politica pone al centro dell’analisi il tema del potere, compresa la cruciale distinzione tra potere formale e potere reale. Commentando Weber, Bobbio ne elenca alcuni tratti: la sfera della politica è la sfera dove si svolgono i rapporti di potenza (Macht) e di potere (Herrschaft), contrassegnati da lotta fra individui, gruppi, classi, nazioni, la cui posta è sempre il potere nella duplice forma di potere di fatto e potere legittimo; la lotta è incessante; le regole dell’agire politico non sono le regole della morale (distinzione weberiana tra etica della convinzione ed etica della responsabilità). Weber è per Bobbio uno scrittore realista che cerca di guardare mantenendo una certa impassibilità “il volto demoniaco del potere”, avvicinandosi a Machiavelli e a Pareto. Di ciò si troverebbe conferma nella stessa definizione dello stato utilizzata da Weber per evidenziare la sua pretesa costitutiva al monopolio del potere. L’attenzione di Bobbio si soffermava soprattutto da un lato sulla tipologia delle forme di potere e sul problema della loro legittimità, dall’altro sulla concezione dello stato moderno come stato razionale.

La nozione di potere è stata per lungo tempo al centro della riflessione degli scienziati politici, tanto da diventare un concetto generalissimo, passando da concetto descrittivo a concetto teorico, al punto da non raggiungere una definizione condivisa del termine stesso. In genere, si distingue tra una accezione sostanzialistica ed una accezione relazionale del potere. Per Bobbio, prima di essere inglobato in una struttura, è una “situazione di relazione”. Quindi il potere è anzitutto un fatto relazionale asimmetrico tra due o più persone, gruppi, organizzazioni, stati, ecc. Nella prospettiva sostanzialistica il potere è una risorsa connessa ad un fattore scarso. Il potere politico è sempre collegato in ultima istanza all’uso della forza, ma deve avere altre caratteristiche: un potere che si esercita su di un gruppo abbastanza numeroso di persone; ha per scopo di mantenere nel gruppo un minimo di ordine; tende ad essere esclusivo, cioè a eliminare o a subordinare tutte le altre situazioni di potere (Bobbio 1964, 74). Norberto Bobbio osserva come secondo i classici (Machiavelli, Hobbes, Marx), il potere politico si fondi in ultima istanza sull’uso della forza fisica: lo stato di diritto prevede norme generali e astratte che stabiliscono chiquandocome (con quali procedure), in quale misura (proporzione fra delitto e castigo) utilizzare la forza, che è legittima e legale. Infatti, il potere politico si differenzia dalle altre forme di potere sociale in rapporto al suo mezzo tipico, cioè l’uso della forza, di cui ha il monopolio. Col metodo democratico conta invece la forza di persuasione, e non più la forza fisica (dibattito e voto). L’ingovernabilità, osserva Bobbio, è difetto di potere, ed è il problema opposto a quello dell’abuso. Vi sono rapporti privati che si sono estesi a quello pubblico: dal contratto (che richiede una transazione fra interessi diversi) al rapporto di clientela. Il potere occulto è tipico delle ideologie, e va sconfitto dalla critica pubblica (demistificazione). La crisi della democrazia comporta ingovernabilità, privatizzazione del pubblico, potere invisibile; la crisi dello stato di diritto comporta scandali e sottogoverno (Bobbio, 1984)

Bobbio distingue poi tra legittimità e legalità del potere: il potere legittimo è un potere il cui titolo è giusto (requisito della titolarità); un potere legale è un potere di cui è giusto l’esercizio (requisito dell’esercizio). Ma le cose non stanno sempre così, perché si potrebbe desumere che un potere è legittimo per il solo fatto di essere legale (teoria dello stato di diritto) oppure che un potere è legale per il solo fatto di essere legittimo (modello dello stato assoluto hobbesiano). Bobbio aggiunge due requisiti fondamentali: giustizia e validità. Procedendo dal basso, la legalità rinvia alla validità, la validità alla legittimità, la legittimità alla giustizia. Procedendo dall’alto, la giustizia fonda la legittimità, la legittimità fonda la validità, la validità fonda la legalità: insomma potere e norma si intrecciano, sono due facce della stessa medaglia, con la conseguenza che il problema del rapporto tra diritto e potere può essere guardato sia dal punto di vista della norma, sia dal punto di vista del potere. Dipende dal punto di vista da cui ci si mette, quale sia considerato il verso e quale il retro (Bobbio 1964, 54-7; Aprile 2014, 172). Legittimità, legalità sono gli attributi del potere, cui va aggiunto l’attributo della effettività, poiché “il potere senza diritto è cieco, ma il diritto senza potere è vuoto” (Bobbio, 1981).

Ma l’analisi empirica e realistica dei fenomeni politici spinge Bobbio verso una accresciuta attenzione per il potere di fatto, il potere di retroscena, non meno forte di quello “di scena” per il fatto di essere meno visibile. Non solo affronta le questioni legate alla difficoltà delle democrazie a governare in tempi congrui processi complessi e affollati di attori, oppure alle loro “mancate promesse” e al divario tra democrazia formale e democrazia sostanziale (Fabbrini, 2005). Di particolare interesse è la sua analisi del “potere invisibile”. La democrazia si connota per pubblicità, accessibilità e trasparenza: è il carattere pubblico del potere. Regime democratico come regime in cui il potere supremo viene esercitato in nome e per conto del popolo attraverso la procedura delle elezioni a suffragio universale ripetute a scadenza fissa (qui Bobbio riecheggia Schumpeter e anche Sartori). Ma la realtà ci presenta altri volti del potere, a suo tempo definiti arcana imperii: “il fenomeno del potere occulto o che si occulta e quello del potere che occulta, cioè che si nasconde nascondendo” (Bobbio, 1980). Tra questi vanno segnalate l’arte del dissimulare e la manipolazione o erestetica. O più semplicemente, il potere di gruppi organizzati rispetto ai processi decisionali formali (dalle lobbies alle società segrete ai gruppi affaristici). In particolare, Bobbio individua tre fenomeni caratteristici dei tempi moderni: il sottogoverno, il cripto governo e il potere onniveggente.

 

  1. Conclusioni

Interrogandosi sul «perché lo sviluppo delle scienze sociali è stato lento», Riker [1990] attribuiva il ritardo della scienza politica non tanto al fatto di aver ignorato questioni importanti quanto al fatto di non aver consapevolmente scelto di aderire a quei principi metodologici che avevano decretato il successo di altre scienze sociali, quali la scelta dell’attore individuale come unità di analisi e il ricorso al metodo dell’inferenza deduttiva al fine di prevedere e spiegare esiti aggregati sulla base di un ristretto numero di assunzioni comportamentali. Se la rivoluzione behaviorista degli anni Sessanta contribuisce enormemente alla definizione della scienza politica come disciplina empirica, l’accento posto su generalizzazioni induttive, raccolta di dati e problemi di misurazione finisce per relegare sullo sfondo la ricerca di un coerente insieme di principi teorici in grado di integrare le conoscenze empiriche accumulate su importanti fenomeni, dallo sviluppo politico al comportamento elettorale. La crescente specializzazione ha comportato vantaggi di cui ha beneficiato soprattutto la scienza economica. Oggi è questa stessa disciplina a raccogliere i frutti che derivano dall’integrazione disciplinare, un processo in atto da almeno vent’anni. Gli sviluppi della teoria economica dell’organizzazione e della storia economica hanno mostrato infatti non solo che molti problemi – dalla crescita economica alle politiche fiscali, dalle dimensioni del deficit pubblico alla stabilità macroeconomica – non possono essere analizzati adeguatamente senza tener conto delle variabili politico-istituzionali, ma che fenomeni come l’esistenza dell’impresa non possono essere spiegati senza tener conto di una dimensione gerarchica o «politica». Infine, l’allocazione dei diritti di proprietà non può essere adeguatamente compresa, anche guardando alla sua evoluzione storica, senza una solida teoria dello stato. Questi risultati hanno spinto le nuove generazioni di economisti a occuparsi con successo di molti temi di tradizionale interesse politologico; il loro numero supera ormai di gran lunga la più ristretta cerchia dei cultori della Public Choice tradizionale. Gli economisti sono tuttavia interessati a spiegare modelli di comportamento ed esiti economici, anche se sono giunti a riconoscere che gli assetti politico-istituzionali sono parte integrante della spiegazione. Per questo è necessario che la scienza politica intervenga a pieno titolo nel processo di costruzione di una prospettiva teorica che collochi la politica in quanto tale al centro dell’analisi. Nell’ottobre del 2000 un anonimo scienziato politico, inviò, con lo pseudonimo di Mr. Perestroika, una lunga lettera aperta al direttore della APSR, la più famosa rivista di scienza politica, espressione degli oltre 16000 associati nella APSA, denunciando un pregiudizio nella selezione degli articoli a favore di scritti formalizzati, spesso facenti uso di strumenti e tecniche matematiche, sovente astrusi e di limitato interesse, con prevalente, se non predominante, ricorso ad una sola delle possibili teorie disponibili in scienza politica (nello specifico, la teoria della scelta razionale). La verità è che si tratta di saper conciliare formalismi statistici di grande applicabilità con la capacità di scavalcare i confini metodologici e di evitare la reificazione dei modelli a danno di una osservazione della realtà concreta della lotta per il potere (Zambernardi, 2008).

Prendendo spunto dalla nota immagine weberiana del puritano, possiamo dire che il ricorso a tecnicismi e formule statistiche quali strumenti di ricerca era il “sottile mantello che si può sempre deporre” per coprire le spalle dei politologi dalle valutazioni di valore e dai pre-giudizi ideologici, ma nell’opera di molti politologi si è trasformato in una modellistica astrusa e “reificata”, è diventato cioè una “gabbia d’acciaio” che non permette più di considerare i modelli e le formule solo come strumenti per conoscere e interpretare e tra le cui sbarre inossidabili si è perso il senso del proprio lavoro intellettuale.

Si tratta di riprendere il sentiero segnato da Bobbio e operare per una terza rinascita della scienza politica, nella patria di Machiavelli, che non dimentichi la lezione dei classici, ristretto gruppo al quale oggi Norberto Bobbio appartiene per meriti sul campo. La scienza politica possiede due importanti risorse da mettere in gioco in quello che continuerà a rappresentare il più rilevante confronto teorico dei prossimi anni: da un lato, le intuizioni che provengono dalla political theory, cioè dalla riflessione filosofica che ha sempre implicitamente guidato l’analisi della politica e che resta fondamentale per individuare questioni realmente importanti per la vita collettiva in grado di orientare la ricerca; dall’altro una vasta tradizione di ricerca empirica sulle istituzioni e sul comportamento politico. Quello che appare augurabile è che la scienza politica di tradizione «empirica» si impadronisca pienamente degli strumenti metodologici e delle tecniche analitiche impiegate con successo da altre scienze. Si tratta di un requisito indispensabile per poter superare ostilità preconcette e intraprendere un dialogo serio, in grado di contrastare il rischio di semplificazioni eccessive e di contribuire al progresso della conoscenza. Ciò non comporta affatto una rinuncia alla propria identità ma, al contrario, richiede di riconoscersi pienamente come parte essenziale dello sviluppo teorico che ha caratterizzato le scienze sociali negli ultimi decenni. La scienza politica ha saputo trovare un giusto equilibrio tra carattere nazionale ed esperienze internazionali. In fondo siamo d’accordo con Bobbio che valorizzò la componente “classica” della disciplina dimostrando come i contributi di Mosca, Pareto e Weber siano ancora oggi un riferimento per quanti si cimentano nello studio scientifico dei fenomeni politici. Sono i maestri come Bobbio che permettono di fare oggi “buona” scienza politica, grazie a studi che hanno fatto avanzare significativamente le nostre conoscenze sostantive, metodologiche, teoriche.

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