di Alfredo Morganti – 24 marzo 2019
“Abbiamo raccontato male quel che abbiamo fatto”. Ha detto così Luca Lotti a bilancio dell’esperienza di governo renziana. Tutto bene, dunque, meno la narrazione. Detto da chi ha puntato tutto proprio sulla forza narrativa è una specie di suicidio, un mea culpa. Il riconoscimento plateale che si è fallito, ben oltre i pur celebrati fasti di governo. Ed è la prova che la politica, la sua ricerca del consenso e il suo ‘agire’, si sono ormai affidati al riscontro mediatico e alla pura capacità di affabulare.
Si dirà: questo è il tempo dei media e dei social, non c’è scampo. D’accordo, ma una cosa è pensare la comunicazione come ancella della politica, una cosa è l’opposto. Ossia pensare la politica sotto specie mediatica, come mero ornamento comunicativo. Questa è stato, in massima parte, la cultura politica del PD, che ha mollato del tutto la riflessione e i tempi lunghi del pensiero per donarsi mani e piedi a quelli corti, cortissimi, dell’azione social-mediatica e del riflesso tv. Un linguaggio è stato sostituito da un altro, o meglio l’agire politico è stato sostituito dal fare tecnico. Mi spiego in che senso.
Chi ‘agisce’ è il soggetto (individuo od organizzazione), con la sua abilità strategica, di pensiero, tattica, sociale e istituzionale. Chi ‘fa’ è il mezzo, invece, lo strumento, che nell’epoca della tecnica obbedisce solo alle sue leggi. Il mezzo sostituisce il fine, ogni fine, per primi quelli ideologici, che governano invece l’agire politico. La politica che ‘fa’ e che poi comunica il ‘fatto’ è dunque un mero calcolo tecnico, un’operazione destinata a costruire consenso, senza cambiare lo stato di cose.
La politica che agisce, la prassi politica, è invece un movimento di soggetti, che si uniscono, partecipano e progettano assieme la trasformazione. Certo, chi predica il ‘fare’ parte dal principio che il soggetto è morto, che ci si deve affidare per forza alla tecnica, che il soggetto è solo un’invenzione linguistica, una finzione grammaticale. Quasi tutto il Novecento ha ribadito queste cose. Se non avessimo dimenticato la critica delle ideologie, potremmo tranquillamente ribattere che il mondo in questi anni è molto cambiato e non solo per la rete o per le tecnologie sempre più potenti e pervasive. Dunque un soggetto c’è, non risiede solo nell’ordine del discorso come fosse una categoria grammaticale o un puro fatto psichico.
D’altra parte, se la politica non fosse praxis staremmo freschi, dovremmo diventare tutti conservatori per necessità, e acconciarci a ‘fare’ cose, vedere gente, sopravvivere in un mondo tecnico tendenzialmente ostile ed estraneo, oltre che autonomo dai nostri desiderata e dalle nostre lotte. E magari è anche così. Ma stabilirlo in linea di principio è da pazzi, soprattutto a sinistra, dove invece ancora discutiamo accoratamente (e meno male) sulle tattiche e le strategie da mettere in campo per trasformare davvero il mondo.
Il mondo non lo cambia certo la tecnica, scordatevelo proprio, che è anzi l’ideologia più conservativa che conosca (innova certo, ma non trasforma mai nulla di nulla). Quindi serve un soggetto politico, o più soggetti larghi, plurali, democratici, indispensabili ad agire nel mondo, a mettere al primo posto i fini contro il prevalere di una pura logica dei mezzi. Serve un partito, o più partiti per dare corpo alla soggettività. E servono partiti articolati, imprese collettive, potenze morali e intellettuali che progettino un cambiamento concreto, e non siano riflessi leaderistici o meri contenitori al soldo della tecnica, che poi vorrebbe dire al soldo degli attuali padroni del vapore. Né più né meno.