La sinistra di massa e il partito che non c’è (e forse c’era)

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 29 aprile 2019

Ho letto l’articolo di Paolo Franchi sul Corsera e l’intervista a Cacciari oggi su Repubblica. Ho provato a sovrapporre i due pezzi. C’è un minimo comune denominatore tra di essi, che è utile a indicare una direzione di marcia. Franchi discute l’ingraiano ‘Tentativo di dialogo sul comunismo’ edito da Ediesse e il libro di Provenzano, ‘La sinistra e la scintilla’, e ne trae un auspicio finale, che “ci sia una forza che abbia la capacità, e prima ancora la voglia” di evocare e far contare le ragioni della sinistra, per prima l’uguaglianza. Una forza che non sia ‘centro’, come afferma appunto Provenzano, e che colga l’intuizione di Ingrao, per il quale se il comunismo di ieri era soprattutto ‘fare’, ‘lavoro’, quello del futuro sia invece sentimentale, romantico, psicologico. “Una forza”, scrive proprio Franchi, riportando così in auge il problema del soggetto politico.

Su cui si sofferma Cacciari, per il quale serve una “sinistra di massa”, “organizzata e di governo”, che rigetti la formula del moderatismo, che dia rappresentanza alla “moltitudine di persone abbagliate dal fenomeno 5stelle”, affinché divenga una corrente del partito di massa della sinistra. Un partito che si ponga il problema della classe dirigente senza essere elitario, senza essere un partito d’azione con i voti del partito d’azione, cioè zero. Un partito che vada ben oltre il PD, aggiungo io, che è parso, in fin de’ conti, più un loft radicale con ambizioni di massa che altro. Che vada ben oltre il PD, per mettere in campo un partito di sinistra largo, plurale, ma organizzato e di massa, con solide ambizioni di governo.

Entrambi gli articoli evocano il PCI. Impossibile non farlo a fronte della piega che ha preso la politica e dinanzi alla crisi del sistema della rappresentanza. Quel partito resta il primo ed essenziale riferimento italiano a sinistra, ove si intenda progettare un’organizzazione di massa, retrocedendo da sciocchi schemi di partito leggero, elettorale, mediale, contenitore, del Leader, ecc. Ove si intenda fare politica, cioè, con le figure sociali, invece che limitarsi a dare fiato ai tromboni dei media e dei social (che non vuol dire negare il tema della comunicazione, anzi). Perché il PCI? Non per nostalgia, e nemmeno per prendere quel modello e evocarlo astrattamente oggi, così com’era. Ma perché esso è contrassegno storico di come si possa fare politica includendo i lavoratori e i cittadini, approntando forme di partecipazione organizzata, in un rapporto positivo con le istituzioni della democrazia rappresentativa, in un dialogo potente tra classi dirigenti e masse popolari, basando tutti gli sforzi politici su un lavoro di ricerca e di studio che oggi, invece, è uguale a zero. Oggi al più si consultano guru, che magari vengono fatti sedere ai tavoli dove si decide la politica.

Evocare il PCI vuol dire avere piena consapevolezza del guado, anzi del gorgo ove ci troviamo a navigare, tentando di uscirne con la mente aperta e la schiena diritta. Avere piena consapevolezza, soprattutto, di quanto la politica debba essere un grande movimento di istituzioni, partiti, corpi intermedi, un articolato storico e sociale di soggetti e figure che dialogano, si confrontano e combattono pur sempre in un contesto di regole condivise che in Italia si chiamano arco costituzionale, unità popolare, democrazia rappresentativa, partecipazione organizzata delle figure sociali alla cosa pubblica, solidarietà civile, rispetto.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.