Fonte: linkiesta.it
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Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?
È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di “sinistre nuove” a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e “guardiano” di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo “di governo” di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione – nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee – e di forza.
Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale – le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere – ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria – tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili – ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare. Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di “nuovo inizio”, senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire “la propria gente”, con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il “processo costituente” fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una “sinistra senza popolo” circondata da “populismi senza sinistra”.
Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava “la formazione del gruppo dirigente”. Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentano.
L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea – questa Unione Europea – è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus” germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una “questione greca” la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme “questione europea” e, dentro a questa, di una gigantesca “questione tedesca”.
Perché vede una “questione europea”?
Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive. Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo.
In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore. Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita.
Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map. Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”. Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia.