di Alfredo Morganti – 6 luglio 2017
Per carità, non è da oggi. È da decenni che c’è sempre qualcuno, o molti che si ergono a svolgere il rigido compito di esaminatori, che invitano alla ‘autenticità’, che indicano quale sia la cosa ‘vera’, quale il modello unico e incontrovertibile da seguire, quale lo schema insuperabile, quale l’essenza a cui attingere nel caso si voglia anche solo accennare alla ‘sinistra’. Dividono, spartiscono, giudicano. Il vero contro le contraffazioni. Si adoperano nel compito di separare il grano dall’oglio, individuano la zizzania, adottano per la politica la parabola cristiana del Vangelo secondo Matteo 13,24-30. Ma lì ci si riferiva al diavolo, qui a semplici esseri umani che però getterebbero zizzania tra coloro che invece la sinistra vera pretendono di conoscerla e di custodirla indefessamente. Attenti alle contaminazioni, dicono, noi vogliamo solo la sinistra autentica, quella che resiste al nostro esame, quella pura, dura, cristallina, rocciosa, marmorea, tufacea, oltre la quale c’è solo il tradimento dei valori e la fine di tutto. Questi giudici, dritti sul loro scranno, hanno lunghe liste di domande da fare, e basta solo non rispondere adeguatamente a una sola di esse che sei fottuto. Sei un revisionista, un venduto, un traditore, una petecchia. Scegliete voi.
Mi chiedo: ma perché avercela così tanto con le ‘contaminazioni’, perché pensare l’identità in forma così rigidamente metafisica? Io lo trovo odioso, ma soprattutto fuori dalla realtà e ancor più dal pensiero. Faccio un esempio. Nel mio piccolo ho letto un certo numero di libri. Mi è sempre piaciuto spaziare, forzare i confini del mio mondo, sentire gli altri, mettere alla prova il mio pensiero con quello altrui. Se mi fossi fermato alla mia cultura ‘vera’, originaria, indefessa (quale?) oggi mi sarei perso moltissimo. Non si tratta di abbandonare la rotta, né di sciorinare cinicamente il tutto sincretico che ci assale. Si tratta, invece, di confrontarsi, pensare, praticare l’altro. Sennò, che si vive a fare? Per ripetere le stesse parole, lo stesso pensiero di sempre? Per recintarsi in qualche dove, nella progressiva indifferenza altrui? La contaminazione rafforza il nostro pensiero, non lo indebolisce. Dico di più: senza contaminarsi, senza esplorare, senza cercare l’altro e senza ‘governare’ il nostro rapporto con esso, sarà l’altro infine a possederci, ad assimilarci, a mutarci antropologicamente. Diverremmo noi, l’altro, senza essere più noi stessi. Uno sciocco ribaltamento, prodotto da una clamorosa eterogenesi dei fini. L’identità è sempre frutto di una esplorazione, di una ricerca (il mio ‘Io’ è un tragitto, ed è bene così), e non di un’attesa che diventa, prima o poi, un assedio e, alla lunga, una mutazione nostro malgrado.