di Stefano Casarino, 26 gennaio 2018
Non da molto celebriamo il Giorno della Memoria.
Abbiamo iniziato a farlo grazie alla Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1 novembre 2005: sono quindi solo una dozzina di anni. Fu fissato al 27 gennaio perché quello fu il giorno (nel 1945) in cui l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz: vi furono trovate solo 7.650 persone (quel campo poteva contenerne sino a 200.000) in condizioni così disperate che, entro il 6 febbraio 1945, ne morirono 2.770. Si calcolò che in cinque anni, lo sterminio nazista provocò nel solo lager di Auschwitz-Birkenau almeno un milione di vittime.
Oggi ci è familiare il termine “Shoah” (in ebraico “catastrofe”, “distruzione”); prima usavamo un altro termine, “Olocausto” (in greco significa “bruciato integralmente” e designava un particolare tipo di sacrificio, in cui l’animale sacrificato veniva appunto arso del tutto).
Cambiano i termini, resta l’abominio di un fatto unico nella storia dell’umanità: non solo lo sterminio, l’annientamento (die Vernichtung) di oltre i due terzi degli Ebrei d’Europa (circa 6 milioni), ma di una quantità ancora maggiore di persone (da 12 ai 17 milioni) tra prigionieri di guerra, polacchi, rom e sinti, disabili, omosessuali, testimoni di Geova, oppositori politici, ecc… Un fatto unico, verificatosi con piena intenzione, voluto e progettato nei minimi dettagli, imparagonabile ad altro e proprio per questo indelebile nel ricordo.
Per aiutarci a rammentare e, soprattutto, a riflettere possiamo ricorrere a Primo Levi (1919-1987): non, però, a quello più noto di Se questo è un uomo (1947) , La tregua (1963), I sommersi e i salvati (1986), tutte opere in prosa, ma al Levi autore di un’unica, particolarissima opera, Ad ora incerta (1984), che raccoglie quarant’anni della sua sporadica attività di poeta e di traduttore di poesie.
Il titolo rimanda ad un testo da lui molto amato, che costituirà quasi una sorta di ossessione: La ballata del vecchio marinaio (1798) di Samuel Taylor Coleridge. Come là il vecchio marinaio è costretto da un potere sovrumano a raccontare a chiunque incontri la sua terrificante storia, così l’autore torinese si sentì dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz: uno che non poteva fare a meno di ripetere – “ad ora incerta”, cioè imprevedibilmente, in qualunque momento – la narrazione dell’orrore del Lager. In prosa e in versi, anche se nella raccolta le poesie direttamente riferite alla Shoah sono solo otto: ma non è difficile trovare riferimenti, allusioni ad essa anche in molti altri testi.
Ad ora incerta è un’opera di cui mi sento di raccomandare la lettura: qui mi limito a richiamare solo qualche lirica.
Alzarsi è un breve testo – solo 14 versi – in cui Levi contrappone le notte e i risvegli nel Lager (le notti feroci; i sogni densi e violenti, breve sommesso il comando dell’alba) a quelli del ritorno a casa, alla normalità (il nostro ventre è sazio; abbiamo finito di raccontare). Ma anche ora può tornare il comando straniero, formulato in polacco: “Wstawać”. In polacco, non in tedesco: Auschwitz è in Polonia, nel Lager imperavano i Kapò, detenuti di “razza ariana“classificati come criminali comuni, contrassegnati con una fascia al braccio, a cui venne affidata l’organizzazione dei diversi caseggiati, arbitri della vita e della morte dei detenuti. La folle volontà nazista di sterminare coloro ritenuti indegni di vivere creò gerarchie di aguzzini, organizzò maniacalmente tutte le possibili gradazioni di sadismo e di violenza. L’angoscia di un passato che può sempre tornare, di quel comando che può essere nuovamente riascoltato è il leit-motiv di tutta la produzione di Levi: sarebbe bene che un pochino di quell’angoscia la avvertissimo anche noi, oggi che si parla stoltamente a vanvera di “razza” e che si disquisisce su quanto di buono abbia fatto il fascismo!
Per Adolf Eichmann fu composta nel luglio 1960: in quell’anno uno dei principali responsabili dei trasferimenti degli Ebrei nei lager, rifugiatosi in Argentina, fu arrestato dal Mossad e portato in Israele, dove fu il primo nazista ad essere processato là, quindici anni dopo Norimberga, e condannato all’impiccagione (31 maggio 1962) per genocidio e crimini contro l’umanità (unica esecuzione capitale di un civile avvenuta in Israele).
Al processo Eichmann si difese sostenendo di avere semplicemente eseguito gli ordini ricevuti e fu considerato da Hannah Arendt (nel suo famoso La banalità del male, 1963) un grigio burocrate: in realtà fu convintamente antisemita, come emerse dalle numerose testimonianze e in base a quanto lui stesso dichiarò: All’occorrenza salterò nella fossa ridendo perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere. A questo funzionario dell’orrore, Levi nella sua poesia non augura la morte, ma un destino ben peggiore: Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:/possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,/e visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide/rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,/intorno a sé farsi buio, l’aria gremirsi di morte. Versi durissimi, del tutto estranei al perdono cristiano.
Lo stile poetico di Levi è privo di abbellimenti retorici, di compiacimenti estetici: nemmeno indulge in particolari macabri o nella facile ricerca del pathos.
D’altronde, Levi, ebreo non credente, è colui che in Shemà – la lirica premessa a Se questo è un uomo, allusiva della preghiera più importante dell’ebraismo, in cui si invita l’intero popolo di Israele ad “ascoltare” – ci impone (vi comando queste parole) di ricordare, di tenere sempre ben presente a cosa è riuscito ad arrivare l’uomo, a quali abissi di degradazione morale e di ingiustificabile frenesia omicida.
Leggere i suoi versi è una meditazione laica, un esercizio di pietà per le troppe vittime della Shoah e la raccolta di un importante lascito etico.
Il secolo scorso ha contenuto il massimo dell’orrore che si possa incontrare studiando la Storia e ha scosso irreparabilmente le facili fedi in un’umanità “naturalmente” buona: ricordare, nel Giorno della Memoria (ma non solo!) è anzitutto un dovere morale.
Ed è anche, voglio crederlo, l’unico valido modo per esorcizzare il male sempre in agguato e sempre pronto a ripresentarsi.
Anche nel nostro presente.