Fonte: Come don Chisciotte
Vista da un’angolatura psicoanalitica, la follia è sempre un problema d’amore. Purtroppo l’Italia non è, oggigiorno, un paese per l’amore: né per quello romantico, né per quello filiale.
Soprattutto, non è un paese capace di sostenere né culturalmente, né attraverso le istituzioni il meraviglioso, nutriente e indispensabile amore della “coppiamadre” per la sua creatura. Bene prezioso che eviterebbe alla creatura stessa di divenire, da adulta, un individuo con disturbi mentali talmente gravi da indurlo ad uccidere i suoi stessi famigliari.
Il termine “coppiamadre” è un’espressione del teorico di psicoanalisi infantile Guido Crocetti, che prevede che il compito di allevare un figlio nei primi anni di vita sia non solo della madre, ma di una coppia in cui due adulti generano un bambino avendo in mente un progetto goduto e pensato. Progetto che prevede spazi nobili di dedizione, tempi lunghi di cura, ascolto, assistenza, disponibilità. E studio emozionato degli interventi d’appoggio da compiere nei tanti dilemmi di un figlio che cresce.
La “coppiamadre” così descritta, però, non sembra vedersi granché: fino a che gli “adultescenti” di oggi dovranno occuparsi delle proprie “magagne irrisolte”, finché saranno impegnati attorno al proprio “ombelico sofferente”… non vi sarà vero spazio mentale per il nuovo nato. Quest’ultimo verrà anzi chiamato a risolvere i problemi dei genitori: di visibilità, di realizzazione nel mondo, di conferme mai avute, di affetto da chiedere al figlio perché si è incapaci di ottenerne da un adulto. I “like” ottenuti dal figlio sono più soddisfacenti di quelli raccolti online!
Lo psicoterapeuta Giulio Cesare Giacobbe ricorda con tenerezza, nel libro “Come fare un matrimonio felice che dura per tutta la vita”, che una delle motivazioni alla base del desiderio di fondare una famiglia è che il mondo ti calpesta, ti umilia, ti sottomette, ma al tuo rientro a casa, la sera, troverai gli occhioni lucidi dei tuoi piccoli, che ti considerano un gigante. Un po’ perché essendo piccoli non capiscono molto, un po’ perché non hanno altra scelta.
Avviene insomma come per il cane, che a detta di qualcuno “è il migliore amico dell’uomo… perché non gli può rispondere!”.
Il titolo significativo di un bel saggio dello psicoanalista infantile Lancini “Sii te stesso a modo mio” chiarisce gli impasse educativi dei genitori contemporanei: aperti, si son fatti la teoria che il figlio debba essere appagato in ogni desiderio, forse anche perché appagano se stessi identificandosi in lui. E’ la famosa “vendetta dell’ex deprivato”, dell’ex affamato (in questo caso, d’amore): ricordate le tante obesità del dopoguerra?
L’altra motivazione è altrettanto triste, altrettanto dolorosa: pensano che solo in questo modo possono legare il figlio a sé, immaginandosi privi d’altri poteri. Ciò che li corrode è un’implicita teoria, nascosta in fondo all(’in)coscienza: l’idea d’aver davvero poco d’interessante da offrire dentro di sé.
L’iper- appagamento cui ricorrono è destinato però a lasciar tutti insoddisfatti (non a caso l’iper-appagamento è divenuta legge su cui si basa il consumismo). Non essendo legato ai reali bisogni di figli identificati nella loro unicità, ma a bisogni “allucinati” dei genitori che trattano i figli come proiezioni di sé, esso è alla fine un tradimento, che lascia questi ultimi vuoti, misconosciuti nella loro reale essenza. I figli, se solo potessero esprimere un pensiero impensabile, non vorrebbero esser trattati come delle appendici.
“Per molto tempo (n.d.r: nel secondo Novecento), ai ragazzi abbiamo chiesto di aderire alle aspettative ideali di genitori e insegnanti. Li abbiamo cresciuti come piccoli adulti, li abbiamo spinti a socializzare, li abbiamo protetti dall’infelicità e dal dolore.
Oggi però lo scenario sta cambiando. Siamo approdati a una società che non si limita più a chiedere ai ragazzi di essere all’altezza delle nostre aspettative, ma li costringe a seguire un mandato paradossale: “Sii te stesso, ma a modo mio”.
Questa trasformazione, che segna il passaggio al paradigma post narcisistico, è in atto da tempo, ma è stata la pandemia ad aver smascherato il rischio di un’inversione dei ruoli: mentre i ragazzi si adattano alle esigenze degli adulti per farli sentire tali, questi ultimi sono alle prese con una crescente fragilità”.
Secondo l’Autore, per uscire da questo cortocircuito in cui la generazione vecchia fagocita quella giovane, impedendole di partire per la sua avventura (il compito primario è… adattarsi al genitore per farlo sentire adulto, come abbiamo visto) occorre “curare gli adulti”. Operazione impensabile, senza pensare di cambiare alcuni paradigmi a guida sia del pensiero, che della cultura, che della struttura della nostra società.
Non sorprende che l’amore di sé, quel narcisismo sano che ci consente di star bene nella nostra pelle concedendoci il lusso di amare gli altri, sia per tanti ragazzi irraggiungibile: non sanno cos’è, non avendolo mai ottenuto dai genitori. Hanno avuto con essi un rapporto d’uso (come abbiamo visto), non d’amore. Nella loro mente non possono attingere all’amore di sé, che finiscono per sperimentare a intermittenza, tra un eccesso di pulsionalità e l’altro, tra un empito rabbioso che li conduce ad accumular grandi o piccole follie (come gli stupri in diretta o le più blande ma non meno distruttive “canne”) e un ritiro depressivo a mò di “hikikkomori”.
Il problema è il solito: la “coppiamadre” non ha potuto riempire d’amore le loro “tasche vuote”.
E l’amore non ricevuto, ottenuto “a rate” oppure morbosamente, si trasforma in un buco di pensiero.
“Chi uccide i fratelli, i genitori, i figli, il marito, la moglie è un animale”, dice qualcuno. C’è un fondo di verità in quest’espressione, qualora la prendiamo come metafora per quanto “forte” essa sia:
l’omicidio in famiglia si deve al fatto che chi lo commette non ha potuto accedere a una mente “umana” adulta.
Si tratta infatti di un “bambino” che non ha avuto modo di sviluppare il pensiero e il sentire. È rimasto allo stato dell’”orda primitiva”, quello ”animale” in cui si ama e si odia a seconda del momento e dell’utilità: “mi fai un torto, ti uccido; mi dai una carezza, ti amo”… ma non ho modo di prevedere o ricordarmi che se ti uccido, poi sei la stessa madre che amavo e non ti riavrò”.
Sono molte le persone vittima della diffusa “presentificazione” del mondo d’oggi, meccanismo di difesa contro l’ansia per il futuro e il terrore che il passato sia per sempre perduto.
Meglio scordarlo, il passato, complice una scuola e una cultura che cancellano i riferimenti spazio-temporali abolendo l’insegnamento della geografia, della storia dell’arte e persino avendo in animo di togliere il criterio cronologico dalla presentazione della filosofia. Ma da difesa contro l’angoscia qual è in partenza, il meccanismo della presentificazione può farsi foriero di una regressione ancora più pericolosa.
Alla poc’anzi descritta primitività mentale, il giovane che oggi uccida in famiglia unisce una confusione tra mondo interno e mondo esterno dovuta a un pensiero anch’esso di qualità psicotica, corroborato dal massiccio affidamento alla realtà virtuale: nei videogame si uccide e la vittima torna in vita nel frame successivo; oggi l’esistenza virtuale è presentata all’infans troppo presto, viene percepita come talmente in continuità con quella reale che… le leggi dei due mondi si sovrappongono, la realtà si sfalda e lascia il posto a un terrore primitivo, per via del quale si è costantemente sull’orlo dell’abisso: l’abbandono affettivo viene avvertita come equivalente alla morte, la frustrazione come preludio a un ignoto che inghiotte. “Chi sono io, infatti, se non mi posso percepire unito alla sostanza stupefacente, all’oggetto, al bene di consumo, all’uomo o alla donna da cui dipende il mio godimento?” potrebbe implicitamente chiedersi il nostro, ma non vi riesce (se vi riuscisse, non avrebbe bisogno di agire la sua follia).
“Se non godo non sono, se non godo non vivo.
Se non godo, avverto il mio essere mutilato, mancante di, imperfetto, impotente, in balia. Meschino… E non posso accettarlo. Non tollero nemmeno il desiderio, tanto allude a una mancanza”.
Il non-ancora-soggetto di oggi si trova in una posizione mentale che gli psicoanalisti, sulla scia di Melanie Klein, denominano “schizoparanoide”: in essa l’individuo non riconosce persone intere, se non parti di persone (il seno, gli occhi) collegate alle funzioni che hanno per lui (nutrirlo, guardarlo) in una relazione d’uso;
vive in un mondo scisso (“schizo”) in cui o è amore o è odio, nessuna tonalità intermedia. Come i gatti, che un attimo prima si fanno accarezzare, un attimo dopo, fossero grandi come tigri, vi sbranerebbero. Senza rimpianti, senza memoria.
In quella fase mentale, che nella normalità si conclude a sei mesi di vita, il bambino non ha, infatti, memoria, non lega nemmeno la sensazione, l’emozione, il sentimento. Sono cose per lui prive di continuità e significato, il suo mondo è a sprazzi d’emozioni persecutorie o euforizzanti… Non sa cosa vuol dire essere qualcuno, non ha la continuità dell’esistere né la “costanza dell’oggetto d’amore”, cioè l’idea che il referente affettivo sia lì con continuità. Vive terrori impensabili, angosce senza nome, le stesse che spingono l’omicida ad agire.
Anch’egli, come il neonato, è intrappolato nell’incapacità di tessere le fila di una memoria personale che, dall’affastellarsi di istanti “conosciuti non pensati” dei primi giorni, dovrebbe farsi storia della propria vita, teoria di sé, mente pensante, ma non ce la fa.
Questo itinerario, che va dall’”animale” incapace di pensiero e sentimento dei primi anni di vita all’uomo, viene magistralmente ripercorso nel romanzo “Lucy” di Cristina Comencini. Lucy è l’ominide femmina considerato dagli antropologi “l’anello mancante”, il testimone del “salto evolutivo” tra ominide e uomo. L’Autrice ne immagina alcuni momenti di vita. È quando Lucy esce dalla concentrazione animale su di sé, in cui è prigioniera della sensazione dell’istante… e per via della quale ciò che prova nell’attimo, estasi o dolore che sia, crede debba durare per sempre; quando alza lo sguardo da terra per incontrare quello del maschio e si sente in lui, e “lo” sente; quando capisce che in fondo dipende da lui, che deve seguirlo, occuparsi della raccolta delle bacche mentre lui difenderà lei e suoi cuccioli; quando avverte che lei e lui possono di più, assieme, e che assieme stanno meglio… ha inizio la storia dell’uomo.
Essa inizia, cioè, avvertendo qualcosa al di fuori di sé che è l’Altro. Abdicando all’egoismo dei bisogni primari a favore di qualcosa di più.
Trova in sé un “altruismo” che è “cosa mammifera”, sì, ma soprattutto “cosa umana” quando s’ammanta di ideale, di progetto e si fa scelta.
La capacità d’amare non solo nell’istante del bisogno, come fa il bambino, ma d’amare con continuità, “nella buona e nella cattiva sorte”, è cioè dono naturale dell’uomo in quanto essere biologicamente generativo, ma anche cimento squisitamente umano che richiede l’adultità del pensiero e la maturità del volere, la capacità di una scelta e di una rinuncia.
In Lucy la “scoperta” dell’Altro coincide con l’accesso alla memoria, che fa sì che “la Lucy buona” degli istanti d’amore e “la Lucy cattiva” degli istanti di odio avvertano d’essere la stessa “persona”.
Mettere insieme sensazioni contrastanti, accedere al senso di una continuità di se stessa nel tempo, fa entrare Lucy nella dimensione complessa della “responsabilità”, che è la premessa “umana” dell’amore duraturo. La fa cioè entrare in un tempo che non è più l’eternità immemore dell’animale, ma la storia degli uomini. In realtà, nell’ontogenesi umana la dimensione del tempo comincia ad essere avvertita soltanto grazie al ripetersi delle situazioni di presenza e assenza dell’oggetto desiderato, dell’oggetto amato: il tempo è la misura di quanto mi separa dal ritorno della mamma! Oggetto che riconosco come un intero, una persona, da cui dipendo.
La memoria di noi comincia con l’attesa del ritorno dell’Altro da cui dipendiamo.
Tornando al nostro “folle”, egli è preda di momenti emotivi ingovernabili dalla ragione (non è potuto avvenire il lento ammaestramento degli impulsi legato all’educazione), non ha memoria di sé (anche perché non lo è ancora, un sé) né ha fatto sua l’idea inizialmente inaccettabile di dipendere davvero da un altro per farcela.
Tutti elementi, quest’ultimi, cui si accede grazie a una prolungata assistenza genitoriale, una cura primaria della madre e secondaria del padre o di chi ne assuma i ruoli.
Intendo dire che la grave carenza, indotta culturalmente e dal sistema economico di oggi, nella mente del bambino è l’assidua presenza di una madre nei primi tre anni di vita, che lo farebbe evolvere dal suo stato “animale”.
Le madri che debbono affidare al nido il loro bambino prima dei tre anni spesso sentono quanto assurda, crudele, ingiusta sia questa norma sociale, che non può che produrre esseri umani feriti dall’assenza di ciò che gli spetterebbe per diritto: l’amore di una e una sola donna al mondo, la madre. Gli altri e le altre vengono dopo, sono “gli scarti” cui vengono affidati, immaginando d’esser scarti a loro volta. La madre s’occupa d’altro rispetto a loro, che vengono dunque in secondo piano. E poiché la madre è sacra, non possono che ritenere inconsciamente di valere molto poco, visto che lo crede lei, mostrandolo nei fatti!
La seconda condizione di una mente capace di pensare è la presenza di un padre, o di qualcuno che ne svolga il ruolo, che è tradizionalmente quello di chi ti dà il senso del limite, di chi ti trasmette i valori. La madre ti dà il senso della tua infinità e “onnipotenza” potenziale, il padre li commisura ai vincoli della realtà, aiutando il figlio a dar forma e realizzazione concreta ai suoi desideri.
Tra figli e genitori di oggi assistiamo a una finta pienezza fatta d’appagamenti inutili, accompagnata da un vuoto profondo: per dirla con Crocetti, si configura tra genitori e figli un vuoto di conoscenza, un vuoto di appartenenza, un vuoto di valori, un vuoto di gioco.
Tutto questo genera nel soggetto una perdita del senso di sé, un’esperienza di se stesso disorientata e superficiale che non si fonda su codici valoriali presentati dai genitori, vividamente sentiti e condivisi.
I bambini vengono affidati a “balie” o “maestre” avventizie, e da queste ultime spesso ai videogiochi del telefonino.
Di recente ho appreso da una mia collega, che si occupa di terapia del bambino, che molti bambini non sanno più giocare.
Il fatto è inedito: la terapia del bambino, da che è nata quasi un secolo fa, si basa sul gioco, proposto anche a bambini che stanno molto male. Se il “nuovo standard” dovesse essere quello di non saper giocare mi metterei le mani tra i capelli.
Non saper giocare significa avere una mente meno sviluppata del cane di casa, che, come sapete, le sue “finte” le fa, con sommo divertimento. Giocare significa infatti “aver del gioco”, “del margine” tra sé e la realtà. La realtà è così come la vediamo, ma la possiamo immaginare anche diversa nel gioco! Possiamo inventarne una alternativa. Il gioco è la base del pensiero ipotetico, la qualità che ha reso l’uomo l’unico essere capace letteralmente di crearsi “il suo mondo”.
Se i crimini in famiglia sono oggi in aumento, non oso immaginare cosa ci attenda per il futuro. Credo che l’emergenza “bambino”, inteso come “padre dell’Uomo”, dovrebbe essere tenuta ben più presente da chiunque si occupi di diritti civili. È in gioco il concetto stesso di “essere umano” per come lo conosciamo ora.