di Alfredo Morganti – 21 maggio 2015
“Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio.” Antonio Gramsci. Marco Miccoli cita questa frase gramsciana per motivare il suo ‘sì’ alla ‘buona scuola’ di Renzi. Ma che cosa c’entri Gramsci con il futuro Preside-Padrone proprio non si capisce. Miccoli solleva un specie di odioso polverone contro gli studenti e contro gli intellettuali/insegnanti (questi sarebbero gli avvocatuzzi) che si battono contro la ‘riforma’, solo per giustificare, giustificarsi probabilmente, e ammantare di gramscianesimo una scelta che lui stesso, probabilmente, fatica a comprendere o non vuole comprendere a pieno.
Gramsci, in quel passo, vuole solo ribadire la centralità morale dell’operaio, di contro a chi conduce una scialba vita ‘intellettuale’. Non vuol dire che gli studenti sbaglino a lottare, non vuol dire che la scuola è piena di fannulloni immotivati, e non può essere certamente usato per convincerci che l’istituzione scolastica italiana oggi sia priva di italico nerbo e abbisogni di una ‘raddrizzata’ deontologica e disciplinare. Il discorso del grande sardo è tutto dalla parte di chi lavora in fabbrica, quello di Miccoli, invece, è contro le figure scolastiche che oggi si oppongono al caterpillar renziano. Il giorno e la notte, insomma. Se c’è bisogno di Gramsci per tenere in caldo la propria coscienza dirupata di parlamentare senza più un partito ma con un Grande Capo che incombe alle spalle come un Preside cattivo, nel PD siamo davvero al fritto.
Peraltro, basterebbe porre sotto osservazione proprio il PD di Renzi per vedere dove conduce l’accentramento di poteri in uno soltanto (per quanto molto paraculo) e cosa comporti la rottamazione della collegialità e della solidarietà tra pari. Il darwinismo applicato internamente a un organismo sociale non si limita a promuovere la competizione sfrenata e senza freni inibitori, ma divora anche quel minimo di riconoscimento reciproco, quel minimo di stima e di rispetto l’un l’altro che contrassegnava i grandi e insuperati partiti novecenteschi. Oggi i parlamentari del PD non votano più con il coraggio delle proprie idee, ma debbono ricorrere ai simboli e ai grandi padri per giustificare delle scelte discutibili anche a se stessi. Ecco il punto. È lo stesso destino inscritto nella nuova scuola renziana: un organismo liquido, in mano a un Capo, frammentato in mille competizioni e rivalità, che si avventano famelicamente sulle risorse private esterne e sugli aumenti di stipendio interni. Una vera e propria scuola di mercato, appunto. Ecco perché Gramsci non c’entra niente.