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di Luca Billi, 20 agosto 2018
Nel limite delle sempre più ridotte possibilità di scelta concesse a noi consumatori, faccio attenzione quando acquisto una bottiglia di passata di pomodoro. Anche perché vivo nella provincia in cui è stato inventata, alla fine dell’Ottocento, l’industria del pomodoro, vedo i campi in cui queste piante vengono coltivate e incrocio i camion carichi dei frutti che diventeranno la passata che acquisterò. E poi so che in Emilia-Romagna la raccolta del pomodoro è quasi del tutto meccanizzata e che ogni anno, entro il mese di febbraio, i rappresentanti degli agricoltori e quelli degli industriali determinano superfici da coltivare, quantità di frutti da ritirare, prezzi di vendita e premi legati alla maggior qualità. Questo mi offre una serie di garanzie, che considero importanti.
Solo da qualche anno posso scegliere che passata acquistare: sono fortunato. Pochi anni fa non avevo questa opportunità: andavo in un discount e sceglievo la passata che costava meno. Per produrre quella passata che io pagavo così poco venivano usati pomodori raccolti da schiavi? Certamente, ma non avevo davvero altra possibilità e me lo dovevo far andare bene.
Possiamo scrivere belle leggi contro il fenomeno del caporalato in agricoltura, possiamo perfino provare ad applicarle e magari garantire nelle zone dove non esistono dei servizi di trasporto pubblico decenti – senza i camioncini dei caporali i campi di intere regioni del paese sarebbero semplicemente irraggiungibili – ma nulla di queste buone pratiche – così come quelle attuate nella mia regione – affronta il vero problema: siamo noi, tutti noi e specialmente i più poveri di noi, che abbiamo bisogno di schiavi. Quelli che raccolgono i pomodori ci danno “fastidio” perché in qualche modo siamo costretti a vederli, anche se facciamo di tutto per girarci dall’altra parte, e, nonostante questi nostri sforzi per ignorarli, veniamo a sapere quando muoiono, come è successo a causa di due drammatici incidenti in Puglia. Ma quelli che in Cina e in India producono i nostri vestiti di tutti i giorni, quelli che vogliamo costino sempre meno? Quelli non li vediamo e certo non ci accorgiamo quando muoiono, vittime di queste stesso sfruttamento.
Se ci pensiamo bene, questa è l’essenza – e anche la forza – del capitalismo che domina le nostre vite: più siamo sfruttati, più siamo poveri, più abbiamo bisogno che altri nostri fratelli siano sfruttati più di noi. Probabilmente quelli che raccolgono da schiavi i pomodori comprano la passata “fatta” da loro, perché è una delle cose più economiche che trovano nei discount, una delle pochissime che possono permettersi con quello che guadagnano. E così diventano gli sfruttatori di se stessi e ridanno ai loro padroni i pochi soldi dei loro salari.
Il comunismo – o come vogliamo chiamare un mondo diverso non più dominato dal capitalismo – deve avere prima di tutto questo obiettivo: spezzare questo circolo vizioso, per cui più siamo sfruttati, più ci mettiamo nelle condizioni di esserlo, come un laccio che ci stringe sempre più forte, quando proviamo a liberarci. E finisce per strozzarci.
Per questo dobbiamo essere in grado di innescare un processo completamente diverso: chi raccoglie i pomodori – come ogni altro lavoratore – deve essere retribuito in maniera equa per il suo lavoro, questo farà inevitabilmente salire il prezzo della passata, ma un lavoratore pagato in maniera equa può acquistare una passata che costa di più. Smetteranno di guadagnarci così sfacciatamente i padroni dei campi, delle fabbriche di trasformazione, degli hard-discount, ossia quelli che ora lucrano sullo sfruttamento dei braccianti, degli operai, dei commessi. In fondo la guerra di classe – come ogni guerra – non può essere a somma zero: per stare meglio noi, devono star peggio e soffrire loro. I padroni non hanno certo scrupoli, adesso tocca a noi cominciare a tirar loro in faccia i pomodori marci.