La ripartenza: delle attività o dell’epidemia?

per Gian Franco Ferraris
Fonte: Scienza in rete

Insieme al sollievo, l’avvicinarsi della fase 2 porta la preoccupazione sulla seconda ondata epidemica. È bene allora iniziare a capire quali sono le strategie attualmente delineate e quali gli ostacoli che potrebbero farle deragliare.

Germania, 3 maggio. Italia, 4 maggio. Francia, 11 maggio. Austria, già adesso. Si sgranano le date annunciate per l’avvio dell’uscita dalla quarantena generalizzata, fase 1 del controllo dell’epidemia di Covid-19, nella quale le popolazioni dei Paesi europei sono costrette da diverse settimane. La fase 2 è attesa con sollievo come ritorno o ripartenza verso “tempi normali”, venati tuttavia dalla preoccupazione per una seconda ondata epidemica. Per pesare quanto l’attesa e la preoccupazione siano fondate è conveniente esaminare da un lato i tratti essenziali di possibili strategie di fase 2 (Exit strategies) e dall’altro il quando e il come del passaggio dall’attuale fase 1 alla fase 2.

Strategia di uscita

Attualmente si possono delineare almeno tre strategie di uscita alternative di fase 2.

1. Stop-and-go. È ipotizzata nel lavoro di Neil Ferguson e collaboratori dell’Imperial College di Londra1, riassunto e commentato qui su Scienza in rete. Contempla una fase 1 che mira a sopprimere la circolazione del virus attraverso il distanziamento sociale, che sarebbe più accurato e simpatico chiamare distanziamento fisico, generalizzato (chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, isolamento domiciliare dei casi sospetti, quarantena domiciliare dei conviventi del caso, distanziamento generale fuori dal domicilio) : è attualmente praticato in Paesi come l’Italia e la Francia ed è stato praticato in Cina in forma ancora piu’ drastica, comprendente in larga parte le attività lavorative localizzate a Whuan e provincia.

Sopprimere, temporaneamente, la circolazione del virus significa portare R(t), il numero medio di persone che a una data definita vengono infettate da una persona infetta (“tasso riproduttivo”), sotto il valore 1: all’inizio dell’epidemia è stato stimato vicino a 3, e portarlo stabilmente per diverse settimane sotto 1 implica la diminuzione progressiva, tanto più rapida quanto più R(t) è inferiore a 1, del numero di nuovi contagi e l’arresto della trasmissione da persona a persona del virus.

Sfortunatamente il virus resta in agguato in soggetti asintomatici, o incompletamente guariti, o arrivati dall’esterno, e al rilascio delle misure la circolazione riprende in una seconda ondata tanto più ampia quanto più la prima è stata contenuta e ha quindi indotto meno immuni.

A questo punto la strategia di fase 2 delineata da Ferguson prevede la reintroduzione del distanziamento nella forma originaria fino a arrestare di nuovo la circolazione (come indicatore viene suggerito l’aumento o diminuzione del numero di casi gravi di Covid-19 che arrivano in terapia intensiva). Il successivo rilasciamento del distanziamento provoca una terza ondata sopprimibile da un nuovo distanziamento: nella modellizzazione che usa dati della Gran Bretagna e Stati Uniti, l’alternanza yo-yo risulta in due mesi di distanziamento-un mese di apertura fino alla data (fine 2021?) in cui il controllo definitivo dell’epidemia potrà passare, si spera, all’immunizzazione estensiva della popolazione grazie a un vaccino sviluppato nel frattempo.

2. Testing universale. È una proposta radicale attualmente lanciata per la Gran Bretagna con una lettera a Lancetda un gruppo di epidemiologi di calibro internazionale. La fase 2 consiste nel testare ogni settimana tutta la popolazione fino alla scomparsa stabile per diverse settimane dei nuovi contagi e all’accertamento che nessuno risulti infetto. Un progetto dimostrativo in due-tre città di dimensione 200-300.000 abitanti permetterà di verificare fattibilità, problemi, risultati, mentre il passaggio all’estensione a tutto il Paese richiederà di poter effettuare ogni giorno, per un non breve periodo, 10 milioni di tamponi nasofaringei, in generale auto-amministrati, e relative analisi qRT-PCR.

Si tratta di un programma gigantesco che richiede una mobilitazione tecnica, sociale e di risorse sostenuta, nelle parole dei proponenti, dallo “spirito di Dunkerque” che durante la seconda guerra mondiale permise, dal 26 maggio al 4 giugno 1940, di evacuare dalle rive di Dunkerque le truppe britanniche (più di 300,000 persone) in ritirata grazie a una straordinaria mobilitazione di centinaia di imbarcazioni civili in appoggio a quelle militari (resta il dubbio se una ritirata sia il miglior auspicio per la proposta).

3. Rintraccia-e-isola. È la strategia classica, largamente adottata e descritta nei manuali. Dopo avere portato a zero o quasi il numero dei nuovi contagi nella fase 1 con un distanziamento generalizzato la fase 2 include in ordine di importanza: (a) una sorveglianza intensiva ed estensiva della popolazione per identificare nuovi casi clinicamente sospetti, testarli e, se trovati positivi per la presenza del Covid-19 (test qRT-PCR), rintracciarne i contatti, isolarli in quarantena e testarli per il possibile svilupparsi della positività; (b) test sistematici della presenza del virus, in gruppi a rischio di propagazione interna (come RSA, collegi, caserme) o verso il pubblico (come personale sanitario, parrucchieri etc.) (c) come elemento addizionale e complementare, test sierologici, con metodi validati, per misurare la prevalenza dei soggetti immuni e non-immuni. Quest’ultima prevalenza misura la dimensione dei pool di suscettibili tra i quali il virus può ancora propagarsi: quanto più grande il numero dei suscettibili, tanto più ampie possono essere le ondate epidemiche seguenti la prima. Va sottolineato che i test sierologici non possono né costituire, né essere presentati come l’elemento centrale della fase 2, in quanto non sono in nessun modo sostitutivi degli indispensabili strumenti (a) e (b).

Fondamentalmente diverse tra loro, queste tre strategie partono comunque dal presupposto comune che una fase 1 ben condotta abbia ridotto il numero dei nuovi casi quasi a zero. La terza strategia è quella verso la quale si dirigono, più o meno esplicitamente, molti Paesi, e sottende le raccomandazioni dell’OMS3 e della Commisione Europea4. È attraente perché interferisce meno di altre strategie con tutte le ordinarie attività della società, e in termini di risorse appare a prima vista richiedere nulla altro che quanto esiste già in un sistema sanitario. Ritornerò su questo punto nell’ultima parte di questa nota.

Condurre a termine la fase 1

La prima e capitale domanda che ciascun Paese o Regione (o altra unità geografica di governo) che contempli il passaggio alla fase 2 deve porsi è se la fase 1 abbia raggiunto l’obbiettivo di ridurre a zero, o quasi, i nuovi casi (casi incidenti e non casi prevalenti, che possono essere un numero negativo!5,6) . Non sembra che questo sia generalmente il caso, perché fioccano date di fine fase 1 non accompagnate da alcun preciso obiettivo cifrato.

Per quanto riguarda l’Italia varie osservazioni sono particolarmente pertinenti per rispondere alla domanda. Primo, la recente analisi da parte dei ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e della Fondazione Bruno Kessler7 dei primi 62,843 casi diagnosticati come positivi al Covid-19 e come tali inseriti nella base-dati consolidata dell’ISS, mostra una partenza esplosiva dell’epidemia in Lombardia con un tasso riproduttivo di 2.96 . Ma già a metà marzo e malgrado una marcata variabilità da regione a regione, i tassi riproduttivi apparivano in discesa e generalmente con valori compresi tra 1 e 2, risultato che parla a favore dell’efficacia delle misure di distanziamento introdotte prima parzialmente, a partire dal 24 febbraio, fino al distanziamento/quarantena generalizzati (lockdown) per tutto il Paese l’11 marzo.

Seconda evidenza, Sebastiani, Massa e Riboli8 hanno modellizzato con una funzione logistica l’andamento dell’epidemia fino al 31 marzo nelle 107 provincie italiane e, in un’altra analisi, l’andamento in sei regioni, di cui tre precocemente coinvolte nell’epidemia (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto) e tre coinvolte più tardivamente (Toscana, Campania, Sicilia) partendo da livelli inferiori di casi. Per questa analisi è stata usata la base-dati della Protezione Civile, che registra le date delle notifiche del soggetti positivi e non, come la base ISS, le più correttamente informative date della diagnosi e dell’inizio sintomi. A fine marzo la crescita dei nuovi casi giornalieri per 1000 abitanti (figura 1) aveva superato il massimo ed era in fase discendente nelle sei regioni esaminate; lo stesso fenomeno risultava osservabile in 87 delle 107 (~80%) provincie.

Figura 1

Il fatto che il massimo di crescita sia più basso nelle tre regioni in cui il distanziamento generalizzato è stato applicato a uno stadio più precoce (e partendo da livelli inferiori di casi) che nelle altre tre depone a favore del ruolo causale del distanziamento nella compressione dell’epidemia.

Questi risultati sono coerenti con quelli delle analisi dell’ISS e sono ulteriormente sostenuti dal più recente (16 aprile) aggiornamento della curva epidemica a livello nazionale prodotto dall’ISS (in www.epicentro.iss.it): la figura 2 ha un evidente andamento discendente. Infine, dal lunedì 24 marzo il numero medio di notifiche registrate nelle quattro settimane seguenti dalla Protezione Civile è progressivamente calato da 5509 a 4466 a 3916 e a 3230, mentre aumentava marcatamente il numero dei tamponi. Una stima anche rudimentale del tasso riproduttivo R(t) va chiaramente nello stesso senso: calcolata semplicemente come rapporto tra il numero di nuovi casi di un giorno e il numero del sesto-settimo giorno precedente (intervallo di tempo tra casi infetti successivi come stimato dell’ISS), mostra all’inizio dell’epidemia valori intorno a 3 per scendere sotto 1 dal 30 marzo, con un valore medio di 0.85 nei venti giorni seguenti (dei quali soli tre con un valore 1).

Figura 2

A mio giudizio questi risultati convergono nell’indicare che il distanziamento generalizzato ha operato e opera nel ridurre gradualmente la diffusione dell’epidemia. Le prossime due settimane ci diranno se la riduzione graduale continuerà con lo stesso passo o sarà frenata dalle catene di trasmissione del virus (intra-familiare e intra-lavorativa) poco controllate col distanziamento generalizzato, o da un rilassamento di questo. Se la riduzione prosegue, una cruda proiezione lineare delle notifiche settimanali dei nuovi casi indica nella metà-fine di maggio il tempo in cui i nuovi casi dovrebbero contarsi a due cifre, proiezione concordante con quella basata sul modello logistico di Sebastiani et al.

Aprire la fase 2

L’avvio graduale della fase 2 comporta una serie di difficili decisioni sulle misure da prendere, differenziate se necessario secondo le condizioni regionali purchè compatibili, se si vuole renderle efficaci per l’insieme del Paese, legalmente e operativamente a livello nazionale. Concorrono in queste decisioni, è banale dirlo, soprattutto la considerazione della salute della popolazione (tutta la popolazione) da un lato e dell’economia dall’altro. Non mi avventuro in questa discussione e suggerisco la lettura all’articolo di McKee e Stuckler9, due autori di primo piano nel campo degli effetti delle condizioni socio-economiche sulla salute. Lascio da parte anche l’argomento del ritorno, particolarmente in ambiente ospedaliero, a una situazione non di alta emergenza permanente (come quella degli ultimi mesi) che richiederebbe un’approfondita analisi da un lato delle condizioni oggettive e soggettive in cui si trova ora gran parte del personale sanitario sottoposto da settimane a iper-lavoro, spesso in situazioni drammatiche, e dall’altro di come e quando potrà essere adeguatamente trattato il cumulo di casi e problemi clinici messi in mora a causa dell’impegno pressoché esclusivo sulle patologie Covid-19.

Mi limito quindi a segnalare qui per la loro importanza tre ostacoli principali suscettibili di far deragliare la realizzazione della fase 2 da parte del servizio sanitario nazionale:

1. La scelta della exit strategy numero 3 (“Rintraccia-e-isola”) implica che il numero dei nuovi casi incidenti sia ridotto a fine fase 1 a qualche unità o decina giornaliera per regione (a livello nazionale siamo oggi ancora intorno a oltre di 3000): appare infatti problematico gestire, anche per una grande regione, il riconoscimento rapido di tutti i nuovi casi emergenti, il rintraccio dei contatti e la logistica della messa in isolamento se ogni giorno si aggiungono centinaia di casi . È il raggiungimento del numero di nuovi casi che una regione pianifica esplicitamente poter al massimo gestire con tutte le operazioni di rintraccia-e-isola che dovrebbe regolare la data dell’apertura della fase 2, non un 4 maggio o altra data prefissata.

Questo chiama immediatamente in causa la disponibilità nei Dipartimenti di Prevenzione (o loro equivalenti funzionali) di una forza numericamente adeguata di personale competente in questo tipo di operazioni, ciò che non va da sé. Recentemente Haines10 proponeva per uno altro scopo nel contesto dell’epidemia (assistenza a persone vulnerabili e senior in isolamento) il reclutamento e la formazione di qualche settimana di giovani (studenti, persone che a causa dell’epidemia si trovano senza lavoro etc.) : è una possibilità anche per una strategia “Rintraccia-e-isola” effettiva.

2. Il personale è l’elemento critico di ogni strategia e non è una app come ‘Immuni’ che può sostituirlo, per utile che possa essere quando ottimizzata non tanto dal punto di vista tecnico e informatico quanto da quello dei dati captabili rilevanti all’indagine epidemiologica e dell’utilizzo da parte del personale. E analogamente non sono i test sierologici, anche quando pienamente validati (oggi non è ancora il caso), che possono sostituirsi al riconoscimento dei casi infetti per mezzo dei tamponi e l’analisi qRT-PCR. Una fase 2 che si sostanziasse soprattutto in una campagna di distribuzione di app e test sierologici su vasta scala mancherebbe completamente l’obiettivo di contrastare e ridurre al minimo la circolazione del virus.

3. Il deficit di posti letto attrezzati in terapia intensiva e rianimazione ha costituito in questi mesi un pesante elemento aggravante degli esiti dell’epidemia. È stata al tempo stesso recepita, e in parte già realizzata, l’esigenza di aumentarne il numero e, meno agevole in tempi brevi, il relativo personale specializzato. Questi provvedimenti introducono una garanzia di disponibiltà di posti letto di fronte a ondate secondarie dell’epidemia, ma fare del livello massimo disponibile il criterio regolatore di quanti nuovi casi si possono lasciar emergere a monte significa puramente e semplicemente adottare una rinuncia programmata alla prevenzione. Questa mira e deve mirare al controllo della circolazione del virus e il criterio regolatore è la minimizzazione dell’incidenza di nuovi casi, non quello del numero massimo accettabile dei casi di estrema gravità che finiscono in rianimazione. È una questione tanto direttamente rilevante per l’epidemia di Covid-19 quanto per l’orientamento concreto, al di là dell’usuale retorica della prevenzione, di tutto il sistema sanitario.

Per un tempo misurabile in parecchi mesi la vita di ogni giorno non sarà come era prima dell’epidemia. La riuscita della fase 2 dipenderà simultaneamente da due componenti entrambe indispensabili: il superamento e neutralizzazione da parte del servizio sanitario dei tre ostacoli appena discussi e un’intelligente scelta, guida e applicazione graduale, man mano che la fase 1 viene dismessa, a livello individuale e collettivo di una serie di misure monitorate passo passo nelle loro conseguenze (gesti barriera, distanze e contatti tra persone, maschere etc.). Mancanze in queste due componenti comporterebbero un’intensa ripartenza dell’epidemia forzando un ricorso precipitoso e arduo da realizzare all’unico strumento di controllo mostratosi efficace, il distanziamento generalizzato della fase 1. Spero che questa eventualità non si concretizzi e che in Italia e in Europa sappiamo tutti mantenere l’impegno, diverso ma non meno severo e rigoroso nella fase 2 che nella fase 1, per sconfiggere il Covid-19.

Riferimenti bibliografici
1. Ferguson NM, Laydon D, Nedjati-Gilani G, Imai N, Ainslie K, Baguelin M et al. (2020) Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand. Imperial College COVID-19 Response Team, London, March, 16
2. Peto J et al.(25 co-autori), lettera inviata a The Lancet, 17 aprile 2020
3. World Health Organization. Covid-19 Strategy Update.14 April 2020. Consultato il 19/4/2020 in www.who.int
4. European Commission. Coronavirus: European roadmap shows path towards common lifting of containment measures. Consultato il 19/4/2020 in www.ec.europa.eu 
5. Saracci R. Incidenza e prevalenza della positività: come contare i nuovi contagiScienza in rete, 25 marzo 2020
6. Cislaghi C. Un cruscotto per monitorare l’evoluzione dell’epidemiaScienza in rete, 9 aprile 2020
7. Riccardo et al. Epidemiological characteristics of COVID-19 cases in Italy and estimates of the reproductive numbers one month into the epidemic. medRxiv preprint doi: https://doi.org/10.1101/2020.04.08.20056861
8. Sebastiani G, Massa M, Riboli E. Covid-19 epidemic in Italy: evolution and projections. First indications of the impact of government measures. European Journal of Epidemiology 42:4, in stampa
9. Haines H, de Barros EF, Berlin A, Heymann DL, Harris M. National UK programme of community health workers for COVID-19 response. The Lancet 2020; 395: 1173-1175
10. McKee M, Stuckler D. If the world fails to protect the economy, COVID-19 will damage health not just now but also in the future. Nat Med (2020), 9 aprile 2020. doi: https://doi.org/10.1038/s41591-020-y
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