La retata

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Adriano Sofri
La retata
Avrei voglia di essere cinico, per adeguarmi. C’è quell’aneddoto famoso sul novembre del 1947, la destituzione del prefetto di Milano Troilo, che era stato un comandante partigiano, e la ribellione della città. Manifestanti e partigiani occuparono la Prefettura, e da lì Giancarlo Pajetta telefonò a Roma. “Compagno Togliatti – disse fieramente – abbiamo occupato la Prefettura!” “Bravo, e adesso che ve ne fate?” Mercoledì mattina un’operazione congiunta di polizie e intelligence francesi e italiane – una retata, in ora antelucana, come da regolamento – ha portato all’arresto di “7 ex terroristi” a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate?
Vediamo. Si trattava di riacciuffare finalmente persone dichiarate colpevoli da tribunali italiani di reati commessi fra i 50 e i 40 anni fa. Naturalmente, la justice est lente, elle est lente mais elle vient!, è lenta ma arriva, come dice la canzone della Comune di Parigi, che aspetta ancora. Accantonando per qualche riga il mio intimo legame con uno dei catturati, ho un paio di osservazioni generali, suscitate dal battage dei giorni precedenti il “blitz”.
La prima, sul numero dei ricercati: 11 (undici), ridotti nel giro di pochi giorni a 10 (dieci) forse perché per uno di loro era intervenuta la prescrizione, imminente anche per altri. Ora, gli italiani riparati in Francia durante o dopo gli anni cosiddetti di piombo erano stati alcune centinaia. Dove sono andati a finire? Non sono abbastanza al corrente della questione. A occhio direi che uno (1), Paolo Persichetti, fu estradato con un vero colpo di mano delle polizie francese e italiana: è oggi libero, trovate in rete adeguate ricostruzioni della sua vicenda. Alcuni, pochi, vennero spontaneamente a consegnarsi in Italia, come Toni Negri. E la moltitudine restante? Molti sono stati prescritti, alcuni sono morti di vecchiaia o di malattia, uno si è ucciso poco fa buttandosi giù da una finestra. La sporca decina che oggi fa i titoli di testa è il fondo del barile.
A questa constatazione si lega la prossima, la più clamorosa. Nei decennii trascorsi dopo il rifugio in Francia, non uno – se non sbaglio – non uno dei condannati ha commesso un solo reato. Questa era del resto una condizione alla loro accoglienza, ma non è la spiegazione. La spiegazione sta in un radicale passaggio di pensieri, linguaggi, sentimenti e stati d’animo, come avviene dopo ogni guerra, anche le guerre più immaginate. Come avviene “la mattina dopo”.
Che nessuna e nessuno di quelle centinaia abbia più aperto conti con la giustizia penale è l’inesorabile dimostrazione che le loro azioni appartenevano a una temperie politica, comunque distorta, e non le sarebbero sopravvissute. Di recente un commentatore, uno dei migliori, aveva scritto sul suo quotidiano, col benigno proposito di negare ogni legame fra il “Sessantotto” e gli adepti della “lotta armata”: “Io non credo che appartengano, neri e rossi, alla storia della politica, se non come sfondo scenografico e come alibi, ma alla storia della criminologia…”. Non è vero: una vocazione al crimine per il crimine si sarebbe trovata un’intera gamma di alibi per continuare. Al contrario, la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che è stata in realtà la pratica di Mitterrand, di Chirac, di Sarkozy, di Hollande e, fino a ieri, di Macron, ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente.
Del resto, ricordate che cosa era successo fra le persone che, con una esperienza affine a quella dei rifugiati in Francia, erano state incarcerate in Italia. Una loro gran parte aveva dato vita al patto che andò sotto il nome di “dissociazione”, e permise un ripudio della lotta armata e della violenza che non dovesse sottoporsi alla denuncia di altri, non motivata dalla necessità di sventare minacce attuali. L’obbligo della delazione è infatti il più infernale ostacolo al pentimento. Quel processo ebbe una importante incubazione nell’interlocuzione di detenuti “politici” con il cardinale arcivescovo milanese Martini, e il simbolico (manzoniano) compimento con la consegna delle armi nel suo vescovado.
E’ curioso, diciamo così, che la spettacolosa svolta della retata di pensionati d’oltralpe abbia seguito da vicino il pronunciamento della Corte Costituzionale sull’incostituzionalità dell’ergastolo cosiddetto ostativo. Suggerisco al ministero una variazione lessicale, per i nuovi arrivi eventuali: l’ergastolo ottativo. Il treno dei desideri. Li avete presi: e ora che ve ne fate?
E veniamo al mio interesse personale. A Giorgio Pietrostefani, “Pietro”, già condannato a 22 anni come mandante dell’omicidio Calabresi. Non farò torto alle altre e gli altri della retata osservando che è lui il piatto forte. I titoli ne sono così inebriati da dimenticare ancora una volta che i giudici del nostro processo, pur temerari, rinunciarono a invocare nei nostri confronti l’aggravante del terrorismo. Nell’intervallo fra la loro tentazione di farlo e la precipitosa rinuncia fu assassinato Mauro Rostagno. Ciò non ha impedito, ancora ieri, che giornali e telegiornali fregiassero Pietrostefani del titolo di “ex-terrorista”, e non di rado di quello cumulativo di “brigatista”. Sono distratti. Non hanno artigli, ma unghie lunghissime sì, da esibire brindando.
Non mi preme distinguere fra le persone della retata, come sono oggi; al contrario, sono solidale. (Con le loro vittime, da sempre). Però non conosco le altre, e conosco Pietro. Lavorava in Francia prima d’esser condannato, venne spontaneamente in galera quando fu il momento, decise molto a malincuore di non tornarci dopo la revisione mancata della nostra condanna: aveva ragioni famigliari stringenti che prevalsero sul suo orgoglio. In Francia ha sempre lavorato, avuto residenza regolare, pagato le tasse, condotto vita discreta di vecchio uomo e di nonno. Il suo indirizzo era noto a chiunque volesse trovarlo. La Francia che gli ha dato ospitalità gli ha dato anche un fegato di ricambio, salvandogli la vita con un trapianto in un’età che in Italia non lo avrebbe consentito. La sua condizione sanitaria è cronicamente arrischiata, e il suo avvocato provvederà, o avrà già provveduto, a documentarla al giudice. Pietro vive di lunghi ricoveri regolari e di improvvisi ricoveri d’urgenza, oltre che di quotidiani farmaci vitali. Ha in programma di qui a poco un ennesimo intervento di riparazione nel suo ospedale parigino.
Tutto ciò non deve intenerire nessuno, né i privati né, tantomeno, il cuore dello Stato. Da quando ho ricevuto la notizia del suo arresto sono combattuto fra due sentimenti opposti, quasi cinici: la paura che muoia nelle unghie distratte di questa fiera autorità bicipite transalpina e cisalpina, e un agitato desiderio che torni in Italia. Un desiderio da vecchio amico, e anche lui è vecchio, forse ce l’ha anche lui un desiderio simile.
Ho una postilla. Poiché ho sempre saputo che la dedizione, l’esaltazione, il fanatismo, che segnano certe stagioni di passione politica, e hanno e si trovano radici forti e profonde, sono pronte a cadere la mattina dopo, mi posi presto e fervidamente il problema di un’uscita dagli anni dei terrori. Mi stava a cuore la socievolezza, Lotta Continua si era sciolta nel ‘76, vivevo altrove e senza alcun interesse personale. Il 9 ottobre del 1979 pubblicai su LC, sopravvissuto come giornale quotidiano, tre fitte pagine sul problema, dopo averne discusso accanitamente con Sandro Pertini presidente, col quale avevo rapporti molto amichevoli. Si intitolavano “Amnistia generale. Firmato: Togliatti”. Sapete, l’amnistia del ’46, delle “sevizie particolarmente efferate”. Scrivevo che “nell’atteggiamento attuale del Pci sul terrorismo, qualche discorso di maniera sulla natura sociale del problema, sul mancato rinnovamento dello stato e così via, si riduce alla fine a un’analisi che privilegia il complotto, e a una prognosi che prescrive solo sopraddosi di polizia… Tuttavia il buonsenso induce a ritenere che passerà più o meno tempo, ma delle galere piene di terroristi veri o presunti, e di una condizione carceraria ricacciata nell’isolamento e nella violenza, lo stato e i suoi uomini saranno costretti a occuparsi”.
Pertini era stato un avversario strenuo dell’amnistia di Togliatti guardasigilli. Aveva denunciato in parlamento che erano stati scarcerati “i più sporchi propagandisti fascisti insieme a molte canaglie repubblichine”. Le mie pagine del ’79 finivano così: “Dei protagonisti di quella discussione del ’46, uno, Pertini, conserva un’intransigenza dalla quale si può anche radicalmente dissentire (com’è successo per noi rispetto alla sorte di Moro) ma che non si può sospettare d’incoerenza né di insincerità. Altri, i continuatori di Togliatti, sembrano tenerne ferma la lezione di spregiudicatezza strumentale… Ieri ne è venuta fuori un’amnistia indiscriminata, oggi si esclude perfino la possibilità di discutere apertamente il problema di una nuova misura politica. Fino a quando?”
Ecco, fino a quando. Mai.
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