Fonte: www.eticaeconomia.it
Url fonte: http://www.eticaeconomia.it/la-resistenza-antimicrobica-unemergenza-globale/
di Ersilia Vaudo Scarpetta e Giulia Morando
Settecentomila morti ogni anno nel mondo. Nove milioni e mezzo entro il 2050 e un rischio di perdita economica cumulata di oltre 1000 miliardi di dollari. Queste sono le cifre allarmanti che vengono fuori dal recente rapporto inglese sugli effetti della resistenza antimicrobica, commissionato nel 2015 dall’allora primo ministro Cameron, che ha fatto balzare il problema all’attenzione di esperti e di policy-maker di livello mondiale.
La reazione di Cameron ha fatto da detonatore: “in assenza di misure adeguate si tornerà presto al medioevo della medicina”. Il problema delle crescenti infezioni resistenti agli antibiotici è arrivato, infatti, sul tavolo del G7 a Kobe l’11 e il 12 settembre, per poi passare il 21 settembre all’attenzione, di un panel costituito ad hoc dall’Assemblea Generale dell’ONU a New York. Per la quarta volta nella storia, le Nazioni Unite, in questa sede, hanno affrontato un tema relativo alla sanità qualificandolo come “emergenza globale”.
L’esistenza di batteri resistenti agli antibiotici non è un fenomeno nuovo. Ma la dimensione che il problema ha assunto negli ultimi anni indubbiamente lo è. Malattie che il progresso scientifico aveva rese nei decenni scorsi curabili tornano oggi a essere una minaccia: polmonite, salmonella, tubercolosi, meningite. E non è tutto.In un quadro in cui le terapie antibiotiche diventano meno efficaci, anche le operazioni chirurgiche finiscono per comportare rischi di infezioni sempre più seri e preoccupanti. Lo stesso accade poi in tutti quei trattamenti che indeboliscono il sistema immunitario, chemioterapia in primis.
Certo, che i microbi potessero divenire resistenti alla stessa sostanza usata per debellarli lo aveva già fatto presente Alexander Fleming, scopritore della penicillina e premio Nobel nel 1945. In particolare, egli aveva ammonito che un uso sbagliato degli antibiotici potesse effettivamente rendere i batteri più forti e, quindi, le nostre difese più vulnerabili. Proprio l’errato utilizzo dei farmaci è appunto oggi la causa principale dell’aumento e della diffusione di patologie antibiotico-resistenti. Quante volte siamo stati tentati, dopo aver iniziato una terapia antibiotica, di sospenderla ai primi segni di miglioramento della malattia? E quante volte ancora abbiamo scelto di assumere qualche pillola per combattere l’influenza di stagione, notoriamente provocata da un virus e non da un batterio? Secondo l’ultimo report OCSE, che sta dedicando a questo tema una attenzione particolare, l’associazione tra consumo di antibiotici e sviluppo di microorganismi resistenti è chiara.
Ma il contributo dell’uomo alla selezione e all’aumento di agenti patogeni resistenti non si esaurisce qui. La maggior parte degli antibiotici non è infatti utilizzata dagli esseri umani, bensì data agli animali d’allevamento come medicinale e stimolante della crescita. L’incremento della domanda di proteine animali sta infatti esercitando una pressione sempre più forte sul settore agricolo, che troppo spesso si trova ad adottare tali soluzioni per favorire uno sviluppo più rapido del bestiame. Se si considera poi che i residui degli antibiotici possono facilmente inquinare falde acquifere, suolo, e raccolti, risulta chiaro come la resistenza antimicrobica non sia più solo un problema dei nostri sistemi sanitari.
Come se non bastasse, la ricerca di nuove terapie antibiotiche non avanza. La scoperta dell’ultima grande classe di antibiotici risale infatti ormai al 1987. Dal 2000, sono state messe in commercio solo cinque nuove categorie di prodotti, nessuna delle quali è però adatta a colpirei batteri maggiormente letali per l’uomo. Di fronte a un problema considerato oggi come il più grande e urgente rischio globale, viene allora da chiedersi come mai la ricerca di cure innovative continui ad arrancare. A che cosa è dovuto lo scarso interesse delle case farmaceutiche verso lo sviluppo di nuove terapie antibiotiche?
La spiegazione principale è squisitamente economica e risiede nelle particolari caratteristiche del mercato degli antibiotici che rendono poco attraenti gli investimenti finanziari in questo settore della medicina. Date le attuali condizioni di mercato, infatti, le compagnie farmaceutiche semplicemente non ricevono incentivi sufficienti per impiegare le loro risorse finanziarie in ricerca. I rendimenti attesi dagli enormi investimenti necessari per lo studio di nuove molecole antibiotiche sono troppo bassi e di gran lunga meno attraenti dei più alti margini di guadagno promessi dallo studio di altre categorie terapeutiche, quali i farmaci antitumorali. I prezzi degli antibiotici sono infatti piuttosto contenuti, così come sono ridotti i volumi di vendita. Inoltre, la resistenza antimicrobica condanna il farmaco ad avere una vita sul mercato comunque limitata, non sufficiente per recuperare i costi. Resta poi ancora da sottolineare quanto sia finanziariamente rischioso per una casa farmaceutica investire nello sviluppo di antimicrobici: di tutti i potenziali antibiotici allo studio, solo il 2,6% raggiunge infatti le ultime fasi di elaborazione ed è poi testato nel corso di sperimentazioni cliniche eseguite sull’uomo.
Lo scenario che abbiamo di fronte, dunque, appare inquietante. Interessi economici e cattive abitudini stanno contribuendo a renderci sempre più deboli nella lotta alle infezioni letali. A più di ottant’anni dalla scoperta della penicillina, il mondo si trova ad affrontare una nuova, urgente sfida. Che cosa deve essere fatto per evitare l’emergere di una futura, apocalittica era post-antibiotici?
L’Europa non sta a guardare e ha messo in atto da tempo misure di prevenzione. La resistenza agli antimicrobici costituisce infatti una priorità per la Commissione che, nel novembre 2011, ha lanciato un piano d’azione quinquennale destinato ad affrontare i crescenti rischi e a rafforzare la prevenzione e il controllo della resistenza antimicrobica nei settori umano, veterinario e alimentare .
Ma la richiesta che giunge a pochi giorni dall’High Level Meeting delle Nazioni Unite, e a gran voce, è inequivocabile: occorre un approccio coordinato e globale. Per la prima volta, tutti i 193 Stati dell’ONU hanno firmato una forte dichiarazione politica d’intenti per obbligarsi nella battaglia contro la resistenza antimicrobica. In particolare, i leader di tutti i Paesi presenti hanno ribadito il loro impegno nell’elaborazione di piani nazionali in grado di mobilitare il più ampio numero di attori in difesa della salute umana.Accrescere la consapevolezza nei medici e nei pazienti costituisce poi un altro elemento indispensabile della strategia d’azione. Riconosciutala necessità di un coinvolgimento multi settoriale, la comunità internazionale ha quindi confermato la propria volontà di agire insieme per affrontare con urgenza il problema.
E sul piano degli investimenti? Assicurare alle case farmaceutiche incentivi sufficienti a sviluppare nuove cure costituisce forse la sfida più difficile. Diverse soluzioni sono però già allo studio degli esperti. L’OCSE, per esempio, sta elaborando una serie di opzioni di policy che potrebbe effettivamente incoraggiare in maniera sostenibile la ricerca di nuovi farmaci: dai premi per l’innovazione biotecnologica ai finanziamenti per la ricerca, fino alla creazione di un fondo pubblico che possa ripagare gli investimenti a condizione che le compagnie farmaceutiche rinuncino ai brevetti.
Ancora una volta, tuttavia, la cooperazione a livello internazionale dovrà essere rafforzata. OMS, FAO e OIE, in collaborazione con la Banca Mondiale, hanno già offerto il loro supporto per disegnare e coordinare i piani d’azione nazionali prima della prossima riunione che si terrà a settembre 2018. Perché, come ha dichiarato Peter Thompson, Presidente della 71esima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York, “nessun Paese, settore od organizzazione potrà affrontare la questione della resistenza antimicrobica da solo”.