Fonte: Le Monde
La reazione di Marine Le Pen dopo essere stata condannata a due anni di prigione e cinque anni di ineleggibilità e la replica Partito Socialista: “rispetto per l’indipendenza della giustizia e dello Stato di diritto”
Dopo l’abolizione dei privilegi nel 1789, nessuno in Francia può più affermare di beneficiare di un regime eccezionale, e ancor meno gli eletti rispetto agli altri cittadini, ricorda il magistrato Vincent Sizaire in una rubrica su “Le Monde”.
Prolungando il clamore suscitato dalle requisizioni della Procura nel novembre 2024, la condanna di diversi dirigenti del Front National, divenuto Rassemblement National (RN), tra cui Marine Le Pen, a pene di ineleggibilità da parte della Corte penale di Parigi per appropriazione indebita di fondi pubblici, ha rilanciato il processo contro il “governo dei giudici” che una simile decisione avrebbe svelato. Ripresa in coro da gran parte della classe politica e mediatica, l’accusa tuttavia difficilmente regge all’analisi.
Resa popolare nel 1921 dal grande giurista Edouard Lambert [1866-1947] , l’espressione si riferisce all’intervento della magistratura nella conduzione delle politiche pubbliche e, in particolare, nel processo di adozione di leggi e regolamenti. Un intervento che non è illegittimo di per sé, ma che può diventarlo se i poteri del giudice non sono sufficientemente regolamentati, inducendolo a censurare l’operato di chi detiene il potere oltre quanto necessario per garantire i diritti fondamentali dei cittadini.
Una tendenza che si osserva regolarmente nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, sia nell’era Lambert – quando essa si batteva attivamente contro la timida consacrazione di una legislazione a tutela dei lavoratori – sia oggi, quando la maggior parte dei suoi membri manifesta senza vergogna la propria volontà di porre fine alle conquiste del movimento per i diritti civili .
Impunità relativa
Ma niente di tutto questo viene proposto da coloro che oggi gridano a gran voce un colpo di stato giudiziario. Lungi dal costituire atti compiuti nell’esercizio ufficiale e normale delle loro funzioni, i fatti per i quali sono stati condannati i dirigenti politici in questione sono reati penali che, anche se provati, non potrebbero ovviamente essere considerati come parte del mandato loro affidato dal popolo.
Occorre ricordare che il principio rivoluzionario proclamato nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1789 fu quello della piena e completa uguaglianza davanti alla legge, che portò alla correlativa scomparsa di tutte le leggi speciali – i “privilegi”, nel senso giuridico del termine – di cui beneficiavano le classi superiori, e in particolare la nobiltà e l’alto clero. Il codice penale del 1791 chiarisce il concetto: non solo i governanti possono essere ritenuti responsabili davanti agli stessi tribunali degli altri cittadini, ma devono anche affrontare pene più severe per determinati reati, in particolare in caso di attacco all’integrità.

L’ordinamento giuridico repubblicano che allora si affermò non potrebbe essere più chiaro: in una società democratica, in cui ogni persona ha il diritto di esigere non solo il pieno godimento dei propri diritti, ma, in generale, lo stato di diritto, nessuno può affermare di beneficiare di un regime eccezionale, e ancor meno gli eletti rispetto agli altri. È perché abbiamo la certezza che le loro illegalità saranno punite in modo efficace, allo stesso modo di quanto avviene per gli altri cittadini e senza attendere una molto ipotetica sanzione elettorale, che possono davvero definirsi nostri rappresentanti.
Per lungo tempo, tuttavia, il requisito dell’uguaglianza giuridica è stato applicato solo in modo relativo. Fino all’ultimo quarto del XX secolo, essa si scontrò in particolare con un singolare privilegio di “notabilità” che, salvo situazioni eccezionali o fatti particolarmente gravi e pubblicizzati, garantiva una relativa impunità ai membri delle classi dirigenti la cui responsabilità penale era messa in discussione.
Controffensiva reazionaria
La situazione cambiò solo con il grande slancio umanista della Liberazione, che portò, tra l’altro, alla creazione di un corpo di magistrati reclutati tramite concorso, che beneficiarono, dal 1958, di uno statuto relativamente protetto e di una specifica scuola di formazione professionale. Un organismo che, inoltre, si è progressivamente dotato di un codice etico esigente, favorito in particolare dal riconoscimento del sindacalismo giudiziario nel 1972.
È proprio contro questa evoluzione che oggi si mobilita la retorica del “governo dei giudici” , in seguito alla denuncia dei presunti “giudici rossi” . Una retorica che mira meno a difendere la sovranità del popolo che a difendere la sovranità aristocratica dei governanti. Di fronte a questa controffensiva veramente reazionaria, portare a termine il processo storico di emancipazione dal potere giudiziario al servizio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge costituisce un imperativo categorico della ragione democratica.