Fonte: Il Manifesto
#Sinistra . Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo.
di Gianpasquale Santomassimo – 29 giugno 2018
Si ha l’impressione che, lasciati alle spalle i proponimenti iniziali, della sconfitta del 4 marzo si sia attenuata o smarrita l’eco a sinistra. E anche le rovinose sconfitte successive, non suscitano reazioni oltre la riaffermazione sostanziale della giustezza della propria linea. Non viene detto esplicitamente, ma è implicito nella riproposizione delle certezze del passato recente e nello stesso modo di valutare il successo degli avversari.
Se ci si convince di vivere in un paese fascista e razzista (inserito a sua volta in un continente ancor più razzista, se la questione dei migranti è la cartina di tornasole di tutto il resto) la cosa non potrà che risolversi nella proposizione di una sorta di «suprematismo morale» da parte di una minoranza che considera il resto del mondo «disumano», che crede di detenere in esclusiva intelligenza e umanità, che nega alla stragrande maggioranza del popolo italiano ed europeo.
Una minoranza che sembra aver smarrito perfino la curiosità intellettuale di studiare con serietà gli avversari e le loro motivazioni, di comprenderne natura e logica, che è o dovrebbe essere compito preliminare di ogni battaglia politica, accontentandosi di ripetere luoghi comuni stereotipati e consolatori.
Un facile alibi per questo atteggiamento è sicuramente rappresentato dall’onnipresenza mediatica dei proclami di Matteo Salvini, che è ormai invadente e pervasiva quanto quella che fu di Matteo Renzi.
CON UNA DIFFERENZA fondamentale, però: Renzi si rivolgeva a una Italia in gran parte immaginaria, fatta di «eccellenze», brevetti, «startup», benestanti felici coi figlioli all’Erasmus. Salvini invece si rivolge a un’Italia fin troppo reale, impoverita e incattivita, che esprime un bisogno di protezione e sicurezza. Sicurezza che è una dimensione globale e avvertita come tale dalla popolazione, che significa in primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela dell’ordine pubblico.
A mio avviso il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento.
È un fenomeno che rischia di assumere una dimensione epocale (non solo italiana) e di segnare una fase non breve della nostra storia. Non giunge per la verità inatteso, anzi si può considerare per qualche aspetto uno sbocco tardivo, venendo dopo un quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di prospettive credibili per le generazioni più giovani.
Temo che anche il mitico «nuovo centrosinistra», che viene spesso evocato con poca fantasia, sia ormai una prospettiva usurata, sia perché è stata una politica ormai rigettata dagli elettori, sia perché la nuova alleanza di governo è già, in termini sociali, una replica dell’alleanza tra classi e ceti, tra aree diverse della popolazione, tra interessi che possono convergere e che furono propri di quella esperienza.
OVVIAMENTE CON FORTI influenze della destra nel discorso pubblico e nel senso comune, perché questa è l’aria che si respira, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Ma senza un segno univoco di destra, con una compresenza di tematiche su cui si potrebbe convenire e di propositi inquietanti: in effetti revisione della legge Fornero, del Jobs act, della «Buona Scuola», reddito di cittadinanza, erano provvedimenti che «la sinistra» avrebbe dovuto assumere per riacquistare un minimo di credibilità presso quelli che in un tempo lontano furono i suoi serbatoi elettorali. E anche andare in Europa con la spina dorsale, senza essere succubi di mitologie illusorie, sarebbe stata cosa buona e giusta.
LE INDUBBIE VENATURE razziste che emergono nel discorso pubblico sono conseguenza abbastanza inevitabile dell’egemonia consegnata alle destre. Vanno rifiutate e combattute, possibilmente senza continuare a schierarsi col potere oppressivo di Bruxelles. Ma sarebbe anche lecito interrogarsi su quanto le questioni riconducibili al «razzismo» abbiano un peso effettivo nei comportamenti elettorali di una platea così vasta, e personalmente estenderei il dubbio anche alla questione dei migranti, forse non così cruciale nel motivare le scelte rispetto a quanto suggerirebbe la propaganda ossessiva di Salvini e di altri governanti in Europa.
In ogni caso, continuare a trattare Di Maio e Salvini da ignoranti o trogloditi è sbagliato e sterile.
Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche (Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.
Con buona pace di Umberto Eco, il fascismo non è una categoria dello spirito ma è un fenomeno storico dalle caratteristiche ampiamente studiate e discusse, e va evitato l’abuso di «false analogie» di cui un tempo eravamo abituati a diffidare.
Aggiungerei che ricondurre automaticamente ogni forma di razzismo al fascismo è un dispositivo mentale che semplifica e banalizza entrambi i termini in questione. Non tiene conto fra l’altro della lunga tradizione coloniale, e in essa del ruolo delle democrazie coloniali, le più radicali e risolute nella pratica della discriminazione e dell’apartheid.
Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato, la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo.
QUESTA NUOVA DESTRA si potrà combattere solo contendendole la capacità di parlare ai ceti popolari. Servirebbe un vero Partito del lavoro, collegato a sindacati, organizzazioni esistenti, corpi intermedi. Purtroppo è qualcosa a cui la sinistra nel suo complesso appare oggi del tutto inadeguata, tanto nel balbettio di una sinistra «riformista» artefice della situazione nella quale ci troviamo, quanto negli automatismi di una sinistra «radicale» che non riesce a dismettere l’abitudine di immaginarsi solo come assemblaggio di minoranze e monoculture, incapace di rivolgersi alla società italiana nel suo complesso.
Tutta la sinistra, moderata, radicale o antagonista, è stata percepita dalla maggioranza dei cittadini come estranea o nemica. Se non si parte da questa dolorosa consapevolezza sarà molto difficile proporsi di voltare pagina e ripensare tutto, con umiltà.
Presidiare il tre-quattro per cento, destinato a farsi sempre più precario, può risolversi alla fine in uno sforzo inutile e superfluo, perché le classi popolari troveranno comunque il modo di farsi rappresentare, con o senza una sinistra.