LA POLVERE CHE SI ACCUMULA SULL’ANIMA
La serata era cominciata con un presagio. Mi recavo a cena a Milano con la 93, e scambiai quattro parole con l’autista, scoprendo dall’accento che era di origini campane come me. Mi intrattenne raccontandomi della sua vita al Nord, orgoglioso delle origini comuni al punto di arricchire la conversazione con parole in vernacolo, inneggiando in un crescendo di entusiasmo alle radici borboniche imperiture. Nei brevi minuti in attesa della mia fermata, mi raccontò di soprusi, saccheggi, deportazioni che i libri di storia non raccontano, di quel Regno che aveva avuto la prima ferrovia, il primo osservatorio astronomico, e non so quanti ospedali pubblici. Mi esortò vivamente a conservare l’uso della lingua napoletana, che non disattesi rivolgendomi col voi e una frase augurale* quando ero già sul marciapiedi. La coppia che ci ospitava quella sera era un felice binomio tra una signora di origini settentrionali e il marito campano, entrambi professionisti. L’aneddoto che fu riferito a tavola, e che motiva queste riflessioni, riguardava il nome che lei avrebbe voluto dare alla sua seconda bambina. Il nome desiderato era Teresa. Ma fu rimproverata aspramente dai familiari napoletani, e finì per cedere senza opporre maggiori resistenze, decidendo per uno più consono come Lucia, decisamente in sintonia con Napoli. Rientrata al Nord, scoprì poi che il pregiudizio con il nome Teresa vigeva, eccome, anche al di là della linea gotica. La signora riferì inoltre un detto, decisamente volgare e in dialetto napoletano, riguardo il nome Teresa che l’aveva scoraggiata ulteriormente. E qui mi vengono alla memoria le sagge osservazioni di Raffaele La Capria ** riguardo il dialetto napoletano, tra chi lo ha visto innalzarsi corrompendosi mentre si ingentiliva, e chi lo ha visto scendere depravandosi. La decapitata borghesia sopravvissuta alla restaurazione del ’99 intravide nel dialetto il vero problema da superare, e d’istinto lo interpretò, lo rese amabile, compiacente, accattivante, lo dotò di buoni sentimenti, lo cantò nelle canzoni e ne fece parlata. Secondo La Capria, la temuta plebe finì per adottarlo mitigando in parte i suoi impulsi, mentre la lingua parlata abbandonava quelle asperità e acquistava una dolcezza, ancora oggi rintracciabile nei rampolli della borghesia colta, i quali, pur parlando italiano normalmente, sanno intercalare al momento opportuno qualche espressione locale, che ne rende identificabile l’origine per uditi attenti.
Ricordo a questo proposito le Poesie di Raffaele Viviani, ed erano queste una lettura riservata e sconvolgente, fatta di passioni sincere in cui risuonava il dialetto” tosto” al declamarlo, che parlava della condizione umana sulla strada, senza abbellimenti, quei mestieri tra povertà e illegalità. Era la lingua napoletana nuda e vibrante, quella che era rimasta intatta nonostante gli abbellimenti e le integrazioni, e imparavo a leggerla scritta nero su bianco. Canti di malavita, della strada, del lavoro, morali, di festa, di guerra e di pace. Erano mondi che scoprivo, tutti inflessibilmente espressi nella lingua scritta, e per me erano suoni da pronunciare più e più volte per afferrarne il significato e dominarne l’intonazione.
Stamattina a colazione la mia compagna, che è dotta e educata, mi faceva però notare che non solo il nome Teresa è bandito in certe classi sociali come nome di battesimo, che ti resta appiccicato tutta la vita, ma anche Nunzia, Pasquale, Concetta, Assunta, Salvatore, Carmela, Filomena, Immacolata, Gennaro, Rosario; nomi solo ammissibili per le classi popolari, meno abbienti, che invece appaiono riprovevoli nella borghesia. Le uniche contate eccezioni riguardano quei casi in cui si vuole ricordare qualche parente o avo, ma sono appunto eccezioni. E qui ho avuto una rivelazione mentre ascoltavo. Ma sì, quelli citati erano tutti nomi associati alla mia famiglia!! D’improvviso, si è tolto un velo che ancora avevo davanti agli occhi. Edgar Allan Poe ne parla magistralmente quando, nella Lettera rubata, un giocatore chiede all’altro di trovare una parola, un nome di città, di fiume, di stato o impero, insomma una parola qualunque tra quelle collocate nell’eterogenea e variegata mappa. Un novellino di solito cerca di mettere in difficoltà i suoi avversari scegliendo una parola scritta in caratteri minuti; l’esperto, invece, sceglie le parole a caratteri enormi che si estendono da un lato all’altro della mappa. Queste, come le insegne troppo grandi e i manifesti enormi, sfuggono all’attenzione perché risultano troppo evidenti; e qui la distrazione fisica è proprio identica alla disinvoltura morale con cui l’intelletto sorvola su quelle considerazioni troppo vistose ed eccessivamente palpabili. Aggiungo io: su quelle lacerazioni dolorose per ribadire differenze e distinzioni che non vogliamo vedere. La polvere che si accumula sull’anima.
Ecco, la fulminea rivelazione di ciò che era davanti ai miei occhi, le etichette ancora molto in vigore nel secolo passato. E poi i nomi doppi, tripli, quadrupli dei discendenti di famiglie benestanti da generazioni, anche di questo aspetto simmetrico mi era sfuggita la valenza. Forse oggi questa separazione tra i nomi da assegnare a una creatura è stata mitigata dall’avvento di nomi non strettamente legati al calendario religioso, ma non azzardo ipotesi sulle cause che studi accademici avranno da tempo messo in evidenza. Sta il fatto che, ora che ci penso nuovamente, vedo ribadite a chiare lettere le origini di classe impresse nella mia storia famigliare.
Ho avuto comunque la fortuna di trascorrere una parte della mia vita in un mondo dove vigevano altre regole per assegnare i nomi propri. Nel Venezuela ha regnato sempre una libertà assoluta nella scelta dei nomi al momento della registrazione civile della creatura appena nata. Non ho indagato mai se fosse ciò dovuto alla minore penetrazione dei santi cattolici nelle tradizioni, certo è lì che si festeggia esclusivamente il compleanno. Ho avuto nei primi tempi certa difficoltà nel ricordare o semplicemente ripetere nomi di misteriosa origine e etimologia, spesso ispirati al momento della nascita. Il nome Gesù è piuttosto frequente, Maria pure, ma spesso composto come Maria Amparo, Maria Auxiliadora e variazioni, altri sono oriundi da famiglie europee. La maggior parte dei nomi sono invece sonori e originali, come Zoraida, Omaira, Neria, Luzmarina, Maricruz, Zulma, Tibisay, Azucena, Coromoto, Dinorah, Johnharly, Yamilé, Caridad, Edgary, Nayllivis, Belkis, Rusquely, Greikel, Eddison, Eveready, Juan Arepa, Edymary, Guillisbeth. E poi nomi di origene indigena tra cui Mapire, Caupolican, Tirso, Manaure, Arichuna, Amaloa. Rileggendoli, fa una impressione ricordare quei primi anni. Le regole del gioco in Venezuela si mostrarono a poco a poco, mentre conquistavo lentamente la lingua castigliana parlata nel Venezuela, dotata di una musicalità e un lessico proprio ricco di espressioni locali che da sole identificavano l’origine e gli studi eventuali dell’interlocutore. Col passare del tempo cominciai a percepire il nomadismo spontaneo degli abitanti che si rivelava al parlare. La informalità innata delle persone alleggeriva un poco i compiti e le contingenze che ogni giorno si presentavano. Compresi presto l’aver lasciato indietro in Europa abitudini rigide e riti di esecuzione precisa, perché ora mi riceveva un mondo flessibile, spontaneo, e i nomi ne erano un segno quasi tangibile. Ritornai dopo trenta anni a Napoli nella prospettiva di rimanerci, dovetti rinnovare con la Città un discorso interrotto dalla distanza e dal tempo, una specie di resa di conti, un bilancio. Certo, le prime camminate ascoltando voci antiche, osservando la generosa Natura e quella umanità così singolare, già mi fornivano elementi per aggiornarmi, mettermi al corrente di quello che si svolgeva davanti ai miei occhi. Passati gli anni, ora c’erano nuovi volti e si affollavano altre lingue, c’era Internet e le sue propaggini, nuove mode, cellulari. Mi accolse benevolmente il dialetto, mentre la lingua italiana dovetti apprenderla di nuovo dopo averla lasciata indietro per fare spazio al castigliano. Quando vado a Napoli, al tassista mi rivolgo strettamente col voi in dialetto, e la tariffa risulta più onesta.
FILOTEO NICOLINI
*“ Stateve bbuono!”
** L’Armonia Perduta, Arnoldo Mondadori Editore, 1986
Immagine: Mario Cortiello, Paesaggio