Fonte: Politicaprima
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di Giangiuseppe Gattuso – 18 maggio 2017
Senza soldi non si fa Politica, un’affermazione che è una quasi verità. Un’evidenza che sembrerebbe confermata dagli avvenimenti nostrani e dal sentimento di larga parte dell’opinione pubblica nei confronti della politica e dei politici.
Ernesto Galli della Loggia, Ordinario di Storia dei partiti e movimenti politici dal 1987, e dal 1993 editorialista di primo livello del Corriere della sera, non è uno che scrive così tanto per dire. E qualche giorno fa, il 15 maggio 2017, dalle pagine del Corriere ha dettato una sua riflessione sullo scottante tema del rapporto tra la Politica e i soldi. L’occasione, la clamorosa elezione, lo scorso 7 maggio, di Emmanuel Macron contro Marine Le Pen.
L’editorialista prende spunto dall’analisi che il quotidiano Libération nel numero del 12 maggio è riuscito a fare sulle risorse finanziarie utilizzate dal neo Presidente francese per la sua riuscita. Ponendo così una rilevante questione per i sistemi democratici moderni: la quantità di risorse di cui un candidato deve poter disporre per affrontare una importante competizione elettorale.
E infatti la cifra che il movimento “En Marche!” ha potuto disporre e spendere in un anno si aggira intorno ai 15 milioni di euro. Non pochi considerato che Macron non aveva alcun partito strutturato a sostegno. Hanno iniziato una trentina di familiari con una donazione di 7.500 euro a testa, limite massimo di legge. Per poi organizzare, con la precisa regia di un ex alto dirigente bancario, una infinità di incontri con altri donatori in cene e momenti del genere. Gli ambiti dei sostenitori, manco a dirlo, importanti banche d’investimento francesi e internazionali, società di gestione di capitali, aziende industriali. “Gli incontri per la raccolta dei fondi si fanno a casa dei donatori: 15 minuti di saluti, venti minuti per il discorso, e altrettanto per domande e risposte, e poi l’incasso”.
A questo punto l’autore pone una importante questione. Se non esistono i partiti organizzati come una volta, venuto meno il finanziamento pubblico e l’apporto di altre organizzazioni sociali, vuol dire che il sistema politico-elettorale “non può che essere fatalmente dominato dalla ricchezza privata”. La politica, quindi, nelle mani dei ricchi, delle banche e dei grandi interessi finanziari. E, continuando, “non è lecito dedurne sic et simpliciter che allora la politica sarà al servizio dei «ricchi». Ma certo è arduo pensare che stando così le cose essa possa mai prendere decisioni che gli dispiacciano. O che possano arrivare al governo persone che non abbiano il loro consenso di massima”.
Il ragionamento a questo punto si concentra sull’essenza del sistema democratico nel quale i cittadini, nella maggior parte dei casi, si troveranno a votare quei soggetti che per la loro ricchezza sono in grado di imporre candidature e determinare fortemente il risultato. La democrazia, dice l’autore, è così “nella condizione fisiologica di tensione tra la politica e la ricchezza”. Per cui gli elettori, in maggioranza certamente non ricchi, per le decisioni a loro favore, come per esempio una redistribuzione della ricchezza, dovranno avere l’approvazione di chi da ricchi hanno in mano le leve del potere. E allora convincendosi che “di fatto sono loro i «padroni» della politica, per i regimi democratici si apre la prospettiva di una catastrofica crisi di consenso”.
Una situazione a dir poco da mettersi le mani nei capelli.
In buona sostanza la politica ha e deve avere un costo. E in Italia, continua Galli della Loggia, per sopperire al finanziamento pubblico si sono ipocritamente inventate le “fondazioni”. Un modo per attingere a finanziamenti delle solite banche e imprese private per fare politica facendo finta di svolgere attività culturali.
La soluzione individuata “capace di ridurre in quantità significativa i costi della politica (e dunque il bisogno di denaro)” è tutta intrinsecamente legata a “un sistema elettorale fondato sul collegio uninominale maggioritario”. Che, però, non ha “la minima probabilità di essere adottato”.
Cosa c’è che non va nel ragionamento di Ernesto Galli della Loggia.
Intanto il fatto, dato per scontato, che la “politica” ha e deve avere un costo, rilevante. E che quindi l’attività che ne consegue, per le ragioni esposte prima, deve avere per forza di cose dei ricchi finanziatori. Dall’altro lato l’unica ipotesi per “ridurre” i costi deriverebbe da un diverso sistema elettorale incentrato sul collegio uninominale maggioritario. Un’opinione come un’altra.
Devo ammettere che comprendo lo spirito e la riflessione di Galli della Loggia e, per certi versi, la ritengo quasi ovvia perché immaginata da un personaggio come lui. Niente di personale, anzi. Ho sempre apprezzato i suoi editoriali, talvolta di altissimo livello. Ma, molto sommessamente, ritengo la sua sincera analisi frutto di un’esperienza lunghissima e di schemi mentali ancorati a sistemi partitocratici (forse) ormai superati.
Non si tratta di età, e nemmeno di posizionamenti politici. Credo, invece, ad una superficiale sua percezione delle dinamiche che, da qualche anno, continuano a modificare sensibilmente la nostra società. I rapporti tra cittadini, la capacità di interlocuzione, lo scambio di informazioni, la possibilità di conoscenza e di approfondimento prima impensabili. E con una velocità pressoché in tempo reale. Tutto questo, se da un lato può spingere a cambiamenti troppo veloci, dall’altro ha consentito a milioni di cittadini, in prevalenza giovani ma non solo, di acquisire una sempre maggiore consapevolezza delle loro potenzialità.
Non si spiegherebbe altrimenti come sia stato possibile la nascita di un movimento che, dal 2013, nonostante tutto e tutti, senza potentati e gruppi finanziari e industriali a sostegno, continua a rappresentare, in crescita, una larga fetta dell’elettorato italiano.
Il professore Galli della Loggia, da illustre studioso e fine osservatore delle dinamiche sociali e politiche, non può minimizzare, fino a ridicolizzarla, con il banale esempio dei click, una tale evidente realtà politica. Che, proprio delle criticità evidenziate riguardo al rapporto perverso tra la politica medesima e la ricchezza ha ampiamente dimostrato da che parte può stare la verità. E come sia realmente possibile, per uomini e donne comuni, potere entrare nelle istituzioni per svolgere il fondamentale ruolo di “cittadino politico” senza quelle sovrastrutture che l’autore, e non solo lui, ritengono ancora fortemente necessarie.