di Alfredo Morganti – 16 novembre 2015
Si dice che la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi. Ma è come dire che tra guerra e politica ci sia un confine preciso, distinguibile, non nettissimo magari, ma un confine. Ma è così? C’è ancora? Difficile dirlo. Per esempio, siamo in guerra con Isis oppure no? Si tratta solo di terrorismo o di altro? Certo, potremmo sempre definirla una guerra ‘asimmetrica’ (terrorismo contro bombardamenti), ma questo scenario non ricorda affatto gli scenari classici delle guerre, quelli con le dichiarazioni ufficiali, gli eserciti schierati, le divise, i fronti in movimento, le avanzate e le ritirate. Insomma oggi non c’è nessuna ‘topografia’ della guerra (perché dobbiamo ricordare che la guerra, come la politica, è soprattutto spazio). No, questo scenario appare sempre più inadeguato a descrivere quel che sta accadendo. Anzi, è proprio il confine a essere sempre più marginale come concetto bellico-politico.
Sul piano politico, il tam tam incessante dice che destra e sinistra non sono più categorie spendibili, che il destino è al centro, nell’ammucchiata delle grandi intese, che anzi la tecnocrazia è la vera sovrana, che la tecnica (la risoluzione neutra, unitaria ed efficace dei problemi) è la panacea, e la democrazia solo una zavorra. Il neocentrismo e la tecnica ‘accentrano’ tutto in uno spazio che non è più né geometrico né culturale, ed è ‘centro’ solo per convenzione, in mera contrapposizione formale alla destra e alla sinistra. Uno spazio talmente ‘centrato’, puntiforme che si annienta da sé, al punto che ‘la’ categoria centrale della politica oggi diventa il tempo. Il linguaggio è una spia di tutto ciò. La parola ‘cambiamento’ (Change), per dire, indica proprio lo spostamento dell’attenzione politica sul futuro (da cambiare anch’esso come ha detto Bonaccini), ma un futuro presentificato, spiantato, schiacciato sull’ ‘Adesso!’. Non un istante piegato alla trasformazione delle cose. Ma un istante fermo alla rappresentazione attuale, massimamente evidente, di un Capo e di un Popolo legati tra loro indissolubilmente.
Anche sul piano bellico c’è la fine di un fronte netto, l’assenza di una demarcazione precisa, di un confine. Ci sono scene di ‘guerra’ che si stagliano sul piano globale, focolai che si accendono ovunque, senza più uno spazio predefinito o plausibile. E quindi, fronte interno ed esterno che si mischiano. Combattenti che si scatenano nelle retrovie urbane come se fossero il fronte. Terrorismo e scontro classico che si avvicendano e si sovrappongono. Anche qui, nella guerra vera e propria, lo spazio topografico e la cartografia del potere sembrano scomparire, si diluiscomo globalmente, sostituiti dal tempo istantaneo della comunicazione mediale che fotografa altrettanti istanti bellici e li diffonde in sincronia agli eventi reali. La guerra in diretta prende il posto dei movimenti delle truppe, della casematte da conquistare, dei fronti che si spostano. Tutto in diretta, tv e social, senza confini. Tutto, la politica e la guerra. E nulla è più la prosecuzione di nulla. Perché la sovrapposizione è completa. Larghe intese di qua, guerra diffusa dall’altra. Governabilità da una parte e scontro globale dall’altra. E in mezzo, ammassati, concentrati nell’attuale ‘informe’ della politica e della guerra, ci sono miliardi di persone destinate solo a consumare o a morire.