LA PATRIA DI CALAMANDREI

per Carlo Pontorieri
Autore originale del testo: Carlo Pontorieri

La recente affermazione di Giorgia Meloni, nel comizio conclusivo di Atreju, sulla necessità che sia eletto al Quirinale un “patriota” ha inevitabilmente innescato un dibattito sulle parole “patria” e “patriota”. Dibattito a cui ha partecipato pure un editoriale sul Corriere della sera del 14 dicembre scorso, firmato da Ernesto Galli Della Loggia.

È interessante, per questo profilo, che l’autore, che aveva ripreso qualche anno fa l’espressione “morte della Patria” da Salvatore Satta (La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza 2015), oggi invece citi una pagina del diario di Calamandrei (devo l’immediato riconoscimento del brano in questione a Silvia Calamandrei, nel Gruppo Facebook “Amici del pensiero e dell’azione di Piero Calamandrei”): in entrambi i casi si tratta di processualcivilisti, si potrebbe celiare, peraltro anche amici tra loro, come mostra la recente pubblicazione dell’epistolario tra i due. Tuttavia, quello che Galli Della Loggia non riporta è l’atmosfera e il sentimento che nutre la nozione di “patria ritrovata” calamandreiana.

In quel suo diario durante la guerra, infatti, la nozione di “patria” nella scrittura di Piero sembra liberarsi dalle prudenze e cautele del passato, quando in chiusura dell’Inventario della casa di campagna, la patria sembrava restringersi alla dimensione naturale, familiare e affettiva del panorama toscano – ma in Calamandrei la Toscana “dolce Patria nostra” rimandava anche a quell’umanesimo che dai padri arrivava fino a Carducci e alla cultura risorgimentale-democratica – ma ora lega quella storia finalmente al presente politico. La “Patria ritrovata” dei Diari di Calamandrei è infatti la Patria finalmente libera, libera dal fascismo e dalle sue mitologie nazionaliste pacchiane e autoritarie.

Qualcosa del genere si ritrova anche all’altezza del rapporto tra Calamandrei e Roma. Se infatti il raffinato giurista non mancò mai, anche in polemica con la tendenza germanofila del regime e di correnti della stessa scienza giuridica, di rimarcare nei suoi scritti teorici l’ascendenza della tradizione giuridica italiana dal diritto di Roma e dai suoi giuristi, spesso persino da quell’Ulpiano che dai nazisti era considerato “ebreo”; nei Diari invece annota quanto il “mito di Roma” nella sua declinazione propagandistica fascista lo abbia portato a detestare qualunque cosa rimandi ad esso, persino le antiche vestigia e i reperti archeologici.

Una condizione esistenziale comprensibile, ed anche abbastanza comune a quell’epoca.

D’altro canto, forse non è inutile ricordare che questo sentimento di “Patria ritrovata” si ritrova in altri contesti dell’antifascismo dell’epoca, fino alla stessa onomastica dei gruppi della Resistenza, a partire dai Gruppi di Azione Patriottica, formati dalle Brigate Garibaldi per le azioni di lotta armata all’interno delle città: nei GAP romani, come si sa, militò il figlio di Piero, Franco Calamandrei.

“Patria ritrovata” fu dunque la felice formulazione da parte di Calamandrei di un sentimento di sollievo personale e collettivo, di fronte al possibile riscatto politico dell’Italia in quegli anni difficili. Un sollievo che apriva la mente alla speranza, nel ricordo di una dimensione storica meno miserabile del più recente passato.

Per questo profilo, Galli Della Loggia, se pure tace sulle circostanze dell’espressione calamandreiana, come detto, non può non riconoscere d’altro canto che la Patria, come Patria di tutti, non può che essere aperta e democratica, non rimpicciolita nel monopolio di una singola forza politica: un argomento certo anche di Calamandrei, soprattutto quando declinato sul problema della “legittimità della legge”.

Tuttavia, il tema non si restringe solo a una sorta di filologia calamandreiana, ma evidentemente si apre sulla domanda: può essere questa la Patria a cui fa riferimento Giorgia Meloni?

Temo di no.

Come ha ben mostrato Emanuele Felice su “Il Domani”, nel suo articolo dedicato all’autobiografia della leader di Fratelli d’Italia L’estremismo mascherato di Giorgia Meloni, in realtà il Meloni-pensiero si muove spesso all’interno dell’antinomia patrioti / traditori della Patria: un’antinomia che mostra non solo ascendenze ben riconoscibili – dalla dannunziana “vittoria mutilata” fino alle varie suggestioni del neofascismo più recente – ma che si estende fino a un sovranismo che, tingendosi di antieuropeismo, porta a considerare fuori dalla dimensione del patriottismo anche ciò che coincide col processo di integrazione europea.

Il patriottismo, in buona sostanza, sembra coincidere col sovranismo, mentre ogni cessione di sovranità diventa, se non un tradimento della Patria, quanto meno qualcosa di poco patriottico.

Ecco perché, a costo di apparire poco rispettosa dell’attuale e dei passati inquilini del Quirinale, la leader di FdI auspica che sia eletto ora “un patriota” al Colle: perché dal suo punto di vista il patriottismo si restringe all’idea ossessiva di un mondo esterno dominato da un sentimento ostile verso l’Italia; un mondo esterno al quale tuttavia avrebbero collaborato e collaborano tanti italiani, tradendo l’interesse nazionale: il Patto di Londra ieri, come quelli dell’Unione europea oggi.

Non a caso anche questa particolare visione della storia italiana fu riportata da Umberto Eco come caratteristica dell’Ur-Fascismus (Il fascismo eterno, ult. ed. it. La Nave di Teseo, 2018).

Insomma, quello rappresentato dalla Meloni non è qualcosa di facilmente emendabile con un po’ di spirito di mondo, come sembra pensare Galli Della Loggia; piuttosto è il contrario logico della Patria democratica del Risorgimento e della Resistenza. Ed è anche agli antipodi del pensiero di Piero Calamandrei sulla “Patria ritrovata”, dopo gli scempi e i lutti provocati dal nazionalismo fascista.

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