La neolingua del Jobs Act

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Domenico Tambasco
Fonte: Micromega
Url fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/

di Domenico Tambasco 11 marzo 2015

Il neoliberismo utilizza gli stessi mezzi di manipolazione delle masse propri del secolo trascorso. La “neolingua del Jobs Act” è uno di questi.

 Nonostante ci si affanni a sostenere che le ideologie sono morte con la fine del “secolo breve”, la realtà odierna ci mostra, con sempre maggiore chiarezza, come nel presente si sia imposto, incontrastato, il dominio di una “nuova” ideologia: quella neoliberista, che nonostante un’ostentata modernità, utilizza gli stessi mezzi di manipolazione delle masse propri del secolo trascorso. La “neolingua del Jobs Act” è uno di questi.

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 “Jobs Act”, “jobs property”, “flexicurity”, “tutele crescenti”, “semplificazione”, “mutamento di mansioni”, “moderazione salariale”, “crescita”, “competitività”: da alcuni mesi a questa parte, in coincidenza con “l’epocale” riforma del lavoro, l’opinione pubblica è costantemente bombardata da una pioggia di anglicismi e termini tecnici ripetuti ormai all’infinito. Sono le parole d’ordine dell’Italia del nuovo millennio che, come argutamente osservato da qualcuno, si è trasformata tutto d’un tratto in un popolo di giuslavoristi.

Potremmo riprendere le parole del morettiano protagonista di “Palombella rossa” che, nel disperarsi contro il “trend negativo” evocato da una giovane giornalista, scolpiva una pietra miliare del cinema affermando, contro la corruzione del linguaggio, che “chi parla male pensa male, e vive male”.

Ed allora, per comprendere davvero la “natura” dei profondi cambiamenti che stanno sconvolgendo la nostra esistenza, è opportuno volgere lo sguardo alla lingua utilizzata, alla lingua nostra aetatis[1]: linguaggio che è sia “la manifestazione autentica, non solo l’espressione artificiale, di ciò che è colui che parla”[2] sia “strumento espressivo che da dentro va fuori e mira a colpire chi lo riceve; è dunque anche un mezzo per plasmare le menti del pubblico ascoltatore”[3].

La ripetizione ossessiva, continua e stereotipata dei medesimi termini e la loro applicazione a situazioni che, nella realtà, si rivelano diametralmente opposte rispetto al senso apparentemente veicolato dalle parole stesse, conduce non solo all’alterazione “genetica” del valore delle parole ma anche – aspetto ancor più grave – al controllo delle coscienze individuali che abdicano al vaglio della coscienza critica, accettando passivamente ed inconsciamente una lingua che “non solo pensa per tutti, ma fa anche pensare collettivamente”[4].

Siamo nel cuore della “neolingua”, ovverosia di una forma comunicativa che non necessariamente crea nuove parole, ma utilizza parole correnti con intenzioni nuove, o traspone in nuovi contesti parole correnti[5]: è il primo strumento dell’ideologia, che si avvale della lingua per paralizzare il pensiero e l’azione delle persone, incantate da orizzonti utopici che spesso, dietro la facciata di cartapesta del linguaggio, celano incubi distopici.

“La Guerra è Pace. La Libertà è Schiavitù. L’Ignoranza è forza” o “La privacy è un furto. I segreti sono bugie”: George Orwell[6] e Dave Eggers[7], nelle loro visionarie – e fortunatamente romanzesche – distopie, hanno colto l’intima essenza del neolinguaggio. “Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità”: Joseph Goebbels ci ha dato una tragica dimostrazione della forza del “neolinguaggio”.

Reagire dunque all’uso distorto della lingua, svelarne le mistificazioni e opporsi al suo uso oppressivo significa già, in nuce, rivendicare con fermezza la libertà della coscienza: “libertà di lingua equivale a libertà tout court. Pronunciare parole impronunciabili, come il grido del bimbo della fiaba di Hans Christian Andersen: «il re è nudo», mentre i cortigiani gli reggono una coda inesistente, puo’ infatti essere un atto di ribellione non meno efficace di una pietra scagliata in un regal corteo”[8].

Un’unica volontà di potenza si staglia oggi, solitaria, nel panorama storico-mondiale: l’ideologia del neoliberismo[9], le cui “parole d’ordine” hanno occupato l’intero registro comunicativo dell’economia, della politica, del diritto e della società. Un vero e proprio apparato ideologico – di cui il linguaggio è uno degli assi portanti – che ha condotto l’ideale neoliberista a raggiungere il traguardo della gramsciana “egemonia culturale”: ovverosia governare con il consenso delle persone, costruito “in vitro” attraverso una lungimirante strutturazione ideologica, piuttosto che con la forza[10]. La neolingua del Jobs Act, come vedremo, è una delle più raffinate espressioni – per ciò che riguarda lo snodo cruciale del lavoro – di questa egemonia. Esaminiamone i contorni.

Ciò che rifulge con immediatezza è l’apparente “modernità” del linguaggio, conferita da una patina di vernice anglosassone: Jobs Act, flexicurity, job property sono le etichette che accompagnano da tempo le moderne “riforme” del lavoro, il cui riferimento anglofono ispira, nell’immaginario collettivo, il legame ai modelli economico-sociali comunemente ritenuti “vincenti”, quelli statunitensi e britannici. Un immediato richiamo, dunque, ad un’asserita modernità evolutiva che, al contempo, evoca le radici storiche dell’ideologia neoliberista, rappresentate dalla Scuola di Chicago degli anni ’50 e dalle politiche thatcheriane e reganiane degli anni ’80[11].

Dall’alto della loro oscura superiorità, queste parole instillano nell’uditore un senso di ineluttabile infallibilità a favore di chiunque le pronunci: ipse dixit.

È tuttavia il contrasto tra lo “sfavillante” significato delle parole e la sconfortante realtà lavorativa che giustifica, con tutta evidenza, l’orwelliano appellativo di “neolingua”.

Prendiamo infatti il pilastro dell’ideologia lavorativa neoliberista, ovverosia la flexicurity: è un termine ibrido (traducibile nell’italiano “flessicurezza”), utilizzato sempre più frequentemente per individuare il minimo comune denominatore delle politiche del lavoro a livello europeo, che all’istanza di marcata flessibilità numerica (che si traduce in licenziamenti più facili e in contratti a tempo determinato più diffusi), funzionale (con la possibilità di mutare unilateralmente la qualifica professionale) e salariale della forza-lavoro (estrinsecantesi nella cosiddetta “moderazione salariale”) affianca l’esigenza di un moderno sistema di protezione sociale, costituito dalla costante garanzia reddituale e da politiche del lavoro attive nel corso dei numerosi e frequenti periodi di “stacco” tra un’esperienza lavorativa ed un’altra. Politiche, queste, che in concreto si sostanziano nell’indennità di disoccupazione per periodi prolungati, nel reddito minimo garantito universalmente riconosciuto per un periodo di tempo tendenzialmente illimitato e condizionato alla ricerca di un’occupazione, nella centralità di uffici per l’impiego che si fanno effettivi promotori della formazione, dell’istruzione dei lavoratori, favorendo una concreta ed efficace ricerca di opportunità lavorative.

In che cosa si concretizza la flexicurity all'”italiana”? È presto detto: in un guscio vuoto.

A forme di ormai estrema e parossistica flessibilità lavorativa, che collocano il nostro Paese tra i primi nella speciale classifica dei lavori “liquidi” (si pensi, oltre alla molteplicità di lavori atipici, alla recente riforma del contratto a tempo determinato introdotta dal “Decreto Poletti”[12], che ha totalmente liberalizzato il contratto a termine fino a 3 anni di durata) si uniscono forme di sicurezza sociale inadeguate ed insufficienti: sussidi di disoccupazione ridotti e categoriali (solo parzialmente migliorati dal recente decreto sui cosiddetti “ammortizzatori sociali”[13]), assenza totale di forme di reddito minimo garantito (la famosa “anomalia italiana” riconosciuta a livello europeo), inefficienza dei centri per l’impiego in ragione della cronica scarsità delle risorse stanziate, tanto da condurre qualcuno a coniare, per la realtà italiana, l’opposto termine di “flessinsicurezza”. Nella cruda realtà dei fatti, l’alternativa tra una vita di lavori precari ed instabili e l’assenza di lavoro e di sostegno reddituale; fra trappola della precarietà e trappola della povertà.

Risuona, in tutta la sua discrasia semantica, il dittico flexicurity-flexinsecurity.

“Job property”, invece, è l’etichetta affibbiata alla normativa garantistica contenuta nello Statuto dei Lavoratori dai cantori delle “riforme”, che ne fanno una volgare parodia, richiamando l’immagine del lavoratore “proprietario” del posto di lavoro, del cosiddetto “posto fisso”, quasi il lavoro fosse una merce, un bene oggetto di appropriazione[14]. Qui la mistificazione è massima, essendo vero proprio il contrario. L’ormai superata disciplina garantistica del diritto del lavoro ha infatti avuto, quale sua ragion d’essere, la demercificazione del lavoro, considerato un valore profondamente connesso alla persona ed alla sua professionalità; al contrario, è anche con le nuove riforme, ed in particolare con l’esasperazione della “flessibilità” che il lavoro viene ridotto alla stregua di un bene di consumo, a prodotto liberamente scambiabile sul mercato, indipendentemente dal valore del soggetto che lo presta[15]. Alla job property fa da controcanto, in questo caso, l’art. 1 della Convenzione Ilo di Filadelfia: “il lavoro non è una merce”[16].

L’orizzonte sembrerebbe tuttavia cambiare, irradiato dalla luce delle “tutele crescenti”[17].

L’inerme interlocutore, ignaro di tutto, si rasserena pensando finalmente che potrà rifuggire dalla “trappola della precarietà”, con un contratto a tempo indeterminato le cui tutele sembrerebbero crescere con l’anzianità di servizio. Qualcun altro, addirittura, potrebbe pensare ad una retribuzione crescente con il tempo[18].

La realtà è spietata. Nessuna tutela crescente ma solo, di fatto, l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti: più che di crescita è d’obbligo parlare di “amputazione” della tutela reintegratoria in materia di licenziamento, sostituita quasi integralmente da un modesto indennizzo monetario, “crescente” con l’anzianità di servizio. Nessuna crescita, ma solo il definitivo ingresso della precarietà anche nell’area che, fino a qualche giorno prima, era ancora tutelata dalla garanzia della reintegra.

Le “tutele crescenti” dunque, si traducono nella “decrescita delle tutele”.

Modernità significa, anche e soprattutto, semplificazione: ecco necessaria, dunque, la “semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine”, disposta dall’art. 1 del D.L. 34/2014 (cd “decreto Poletti”). Semplificazione che si traduce nella più grande deregolamentazione dei rapporti di lavoro a termine mai attuata in Italia, con l’indiscriminata possibilità di stipulare contratti “a scadenza”, senza la benché minima giustificazione causale, fino ad un massimo di tre anni: è l’apoteosi della precarietà.

La “semplificazione”, in questo caso, si traduce nella “demolizione” degli ultimi argini al lavoro precario.

Un lettore scrupoloso, tuttavia, potrebbe opporre il solenne principio contenuto nel comma 01 (modernità numerica…) dell’art. 1 del dlgs. 368/2001: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”[19]. Si tratta proprio dello stesso articolo che, nei commi immediatamente successivi, è stato “semplificato” dal decreto Poletti[20].

Pare quasi un’abile strategia di “marketing” normativo, in cui tuttavia allo slogan del lavoro quale prodotto stabile e di lunga durata segue – come abbiamo poc’anzi visto – la realtà “commerciale” del lavoro quale merce ormai “deperibile”, a scadenza continua e ripetuta.

Non desterebbe preoccupazioni, del resto, neanche il “mutamento di mansioni”[21], se non fosse per il fatto che, dietro tale formula apparentemente neutra, si cela la considerazione dei lavoratori quale “carne da macello”, ormai alla mercè di datori di lavoro che, a norma di legge, possono liberamente ridurne la professionalità dall’oggi al domani ed adibirli a nuove, differenti ed inferiori mansioni senza la dovuta formazione, dunque a rischio e pericolo dei lavoratori stessi. Il “mutamento di mansioni” cela dunque il demansionamento, suo radicale opposto semantico.

Il trionfo del “politically correct” tuttavia si raggiunge con la “moderazione salariale”[22], pudico termine che cerca di nascondere l’ormai evidente realtà del “lavoro povero”, del lavoro i cui redditi sono, negli ultimi decenni, drasticamente crollati, tanto da condurre alle soglie della scissione del lavoro dal reddito[23]. E’ il raggiungimento di uno dei principali traguardi dell’ideologia neoliberista, la riduzione del costo del lavoro e la massimizzazione dei profitti, che si traduce nel fenomeno del trasferimento della ricchezza dal lavoro al capitale[24]. L’ossimoro del lavoro povero, che colpisce drammaticamente l’odierna generazione di lavoratori, costituisce lo sfregio più grave e palese al solenne principio dell’art. 36 Cost. ed al diritto ad una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: e in sottofondo si ode il fragoroso contrasto tra la “moderazione salariale” e l’impoverimento lavorativo.

La soluzione, potrebbero proporre i teorici del neoliberismo, risiede soltanto nel recupero della “competitività” in una prospettiva di “crescita”. Laddove, per “crescita”, le statistiche degli ultimi vent’anni indicano solo quella dei profitti e delle rendite a scapito dei redditi da lavoro[25] e, per “competitività”, l’esperienza concreta del mercato del lavoro mostra la nascita, in nome proprio della concorrenza globalizzata, di fenomeni patologici quali il “crowdworking” (moderna forma di cottimo digitale che colpisce le qualifiche professionali più elevate) o l'”uberizzazione” del lavoro (felice neologismo coniato da Carlo Formenti per indicare il lavoratore scisso in una pluralità di differenti lavori svolti contemporaneamente nella stessa giornata lavorativa[26]).

Abbiamo sfogliato alcune pagine del vocabolario della neolingua del Jobs Act del secolo XXI. Certamente altre parole ci saranno sfuggite ma, in definitiva, ciò che abbiamo appena visto sembra sufficiente ad illuminare alcuni punti decisivi.

Nell’opinione comune il “secolo breve” sembrerebbe essersi concluso con la fine delle ideologie e, conseguentemente, con la fine della lotta di classe; idea così radicata e dirompente da condurre qualcuno, addirittura, a parlare di “fine della storia”[27].

Al contrario – e la manipolazione del linguaggio ne è la testimonianza quotidiana più evidente – il nuovo secolo pare essersi aperto, in continuità con la fine del precedente, nell’incontrastato dominio dell’unica ideologia dominante, che sembra condurre con determinazione una rinnovata lotta di classe “al contrario”, dall’alto verso il basso, così come evidenziato con felice espressione da Luciano Gallino.

E’ un preciso progetto politico-economico che, riducendo il valore economico e sociale del lavoro[28] e trasformando i lavoratori in una liquida massa di manovra nel nome di una competitività a senso unico, realizza l’obbiettivo di questa nuova lotta di classe, rappresentato dall’accrescimento dei privilegi e delle rendite per le èlite dominanti, a scapito delle altre classi ormai unite nella loro subalternità (parliamo della classe media e della classe operaia/lavoratrice)[29]: la società a due strati, quella dei vinti e quella dei vincitori, ne è il suo naturale e conclusivo esito.

Qualcuno è andato oltre, e ha individuato un preciso modello antropologico alla base di questa ideologia, rappresentato dall’“uomo di Davos”, individuo mosso dagli spiriti animali del capitalismo, ed al contempo flessibile, adattabile ad ogni cambiamento: “La capacità di abbandonare il proprio passato e la fiducia in se stessi necessaria ad accettare la frammentazione: questi sono due tratti di carattere evidenti negli individui di Davos che nel nuovo capitalismo si sentono a casa propria”[30].

Davos, dunque, come Atene e Roma un tempo, simbolo di un nuovo mondo e di un uomo nuovo: non è forse solo una curiosa coincidenza cronologica se il cammino delle “riforme” che abbiamo appena visto si è per ora concluso, significativamente, proprio a Davos[31].

NOTE

[1] G. Zagrebelski, Sul tempo della lingua presente, Torino, Einaudi, 2010, pag. 10.

[2] G. Zagrebelski, cit., p. 3.

[3] G. Zagrebelski, cit., p. 4.

[4] G. Zagrebelski, cit., pp. 5-6.

[5] G. Zagrebelski, cit., p. 5.

[6] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1950.

[7] D. Eggers, Il cerchio, Milano, Mondadori, 2014.

[8] G. Zagrebelski, cit., p. 9.

[9] Per una puntuale analisi dell’affermazione dell’ideologia neoliberista negli ultimi trent’anni, si rimanda al saggio intervista di L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, a cura di P. Borgna, Roma-Bari, Laterza, 2012; si veda anche, in chiave di analisi storico-economica, Marco Panara, La malattia dell’Occidente – perché il lavoro non vale piu’, Roma-Bari, 2013, 2^ ed.

[10] L. Gallino, cit., p. 96.

[11] L. Gallino, cit., p. 56; M. Panara, cit., pp. 20 e ss.

[12] D.L. 34 del 20 marzo 2014 convertito in Legge n. 78/2014. Si rimanda all’ampio commento di Santoro Passarelli, Jobs Act e contratto a tempo determinato, Torino, Giappichelli, 2014.

[13] Dlgs. 4 marzo 2015, n. 22, recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, entrato in vigore il 7 marzo 2015.

[14] Si rimanda a P. Ichino, Inchiesta sul lavoro, Milano, Mondadori, 2011, pp. 113 e ss.

[15] L. Gallino, cit., p. 154: “Mercificare il lavoro significa che esso puo’ e deve essere comprato, venduto, scambiato, affittato al pari di un qualsiasi arredo, una macchina, un utensile”.

[16] Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obbiettivi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, adottata nella Conferenza Internazionale del Lavoro di Filadelfia il 10 maggio 1944, art. 1 lett. a).

[17] Dlgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, entrato in vigore il 7 marzo 2015.

[18] Si rimanda all’articolo di Matteo Pucciarelli e Silvia Valenti, Il mutuo resta una chimera anche con il Jobs Act, pubblicato su La Repubblica del 5 marzo 2015, in cui si dà conto di un direttore di banca che, con riferimento al contratto a tutele crescenti, crede che comporti il meccanismo della retribuzione crescente.

[19] Questa previsione normativa è ricompresa, con identico tenore testuale, anche nell’art. 1 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, ancora in attesa del parere delle competenti commissioni parlamentari e della successiva approvazione definitiva da parte del Governo.

[20] Ovvero dal già citato art. 1 del D.L. 34/2014.

[21] Così è rubricato l’art. 55 del citato “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, che stravolge integralmente il testo dell’art. 2103 c.c..

[22] L. Gallino, cit., pp. 190-193.

[23] A. Gorz, La metamorfosi del lavoro, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 222.

[24] M. Panara, cit., pp. 8 e ss.

[25] M. Panara, cit., p. 12 e ss.

[26] Carlo Formenti, Se il lavoro si uberizza, blog Micromega.

[27] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992 (ed. 2003).

[28] M. Panara, cit., p. 47 e ss.

[29] L. Gallino, cit., p. 104 e ss.; un nuovo soggetto sociale, la classe del precariato, viene individuato da Guy Standing in Diventare cittadini – Un Manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, quale futuro soggetto attivo di un possibile “contromovimento sociale”.

[30] R. Sennet, L’uomo flessibile – Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, pp. 60-62. [31] E’ notizia tratta dagli organi di stampa il fatto che il 21 febbraio 2015, vale a dire il giorno dopo l’approvazione in Consiglio dei Ministri dei primi due decreti attuativi del cd Jobs Act (tra cui il decreto sul contratto “a tutele crescenti”), il Presidente del Consiglio dei Ministri abbia aperto il Word Economic Forum di Davos, ostentando il periodo di riforme come “trasformazione dei rischi in opportunità”, e riprendendo in chiave tutta personale il “carpe diem” oraziano.

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1 commento

Anto 13 Marzo 2015 - 21:41

Bellissimo articolo con solo un piccolissimo neo: manca un riferimento bibliografico, quell’articolo col quale Ignacio Ramonet coniò su Le monde diplomatique (nei primi anni ’90, se non ricordo male) il termine “pensiero unico” e nel quale anticipava con grandissima lucidità temi sviluppati in questo lavoro e in altri pubblicati nel frattempo (di Gallino, etc.)

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