La nave è in secca, le mappe sono sbagliate, la ciurma è disorientata

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 19 aprile 2018

Ripeto. Ho letto un fiume di analisi politiche. Sembra di essere in un dopopartita: ognuno ha una sua visione della sconfitta, e la rivendica come vera. Ho stima e quasi tenerezza per il compagno comune (come me) che dice la sua, tenta di capire, si fa forza. Capisco il baratro davanti a cui siamo affacciati, e ho perfetta consapevolezza che serve sangue freddo e persino una folle lucidità per affrontare i tempi che verranno. Sono un nessuno, e come tale mi comporto, cercando di capire quali possano essere anche le mie, di responsabilità. Detto questo, tuttavia, c’è una cosa che proprio non sopporto, ed è chi oggi ci spiega che siamo all’anno zero, non abbiamo capito nulla di nulla, abbiamo sbagliato tutto. E lo dice con una determinatezza e un rigore affilati come l’acciaio, suddividendo colpe attorno a sé, non dicendo mai ‘noi’, ma usando sempre l’impersonale o il riflessivo, se non direttamente il ‘voi’. Un impersonale che sembra il famoso ‘si’ heideggeriano, quello che nutre la chiacchiera, quello che uniforma e appiattisce, quello che rende tutte le vacche nere. Anzi, nerissime. Una pece.

Se è vero, come si sostiene da più parti, che questa stagione è figlia del distacco crescente tra élite e popolo, che il distacco delle élite è una delle ragioni dello stato pietoso in cui versa la nostra democrazia, se è vero questo e se il solo che deve essere salvato da questo generale sisma epocale è il popolo, sacro e santo su tutti, se è vero tutto ciò (ma io non sono d’accordo), con che faccia le élite ci vengono oggi a dire che serve una sinistra anti-sistema? Che serve una sinistra di popolo? È un modo per salvare la faccia, oppure è ancora ‘nebbia che offusca il sole’ come canterebbe De Gregori? Me lo chiedo perché ho letto il post di Carlo Galli sul suo blog e ne sono rimasto impietrito. È una requisitoria, è l’invocazione di un baratro e di un anno zero come poche volte ho sentito da un intellettuale avveduto, sofisticato, tutto meno che un barricadero. Vi si dice esplicitamente che la sinistra non ha più chiavi di lettura, che la sinistra politica oggi è inutile, che la vecchia Ditta ha visto solo post festum le mucche, quando già erano nel corridoio, che si deve essere sinistra di popolo non di governo, e che serve “politica radicale, non palliativi. Credibilità, non menzogne. Azioni, non parole”. Letterale.

Non sto nemmeno a ribattere a questo inedito ‘populismo intellettuale’, che davvero mi mancava. Dico solo, per restare nello stile populistico: ma Carlo Galli dov’era sino al 4 marzo? Dov’erano le élite intellettuali che oggi predicano l’anno zero? E perché mai solo la sinistra politica dovrebbe fare autocritica radicale, e non pure quella intellettuale, compresi i tanti professori che hanno fatto i parlamentari, che hanno scritto sui giornali, che ci hanno dispensato di analisi e visioni alla bisogna, e che hanno parlato dalle cattedre mentre noi poveracci siamo stati sotto, a occhi in su, ad ascoltare per decenni? Applicare lo stile populista (nel senso di Diamanti e Lazar) è lecito solo quando si pongono sul banco degli imputati i ‘politici’ che da tre anni parlano di mucche sul corridoio? Ma allora perché non applicarlo in termini ancor più integrali, mettendo alla gogna anche gli intellettuali e i professori che stilano analisi e vorrebbero solo giudicare, e mai essere giudicati. E poi? Azioni e non parole? Detto da un intellettuale di prim’ordine! E che siamo al salto nel cerchio di fuoco? Al ‘Fatto!” di Berlusconi? Alla politica del ‘fare’ di Renzi? Oppure all’azionismo spicciolo? I chierici dovrebbero capire che noi pendiamo dalle loro parole, che noi lettori cerchiamo nei loro testi delle strade da percorrere, degli elementi di analisi, non invettive omologate allo spirito dei tempi, e che è stata proprio questa ‘omologazione’ (alla destra, all’establishment) una delle tragedie più grandi della sinistra.

Mi spiace che pensiate che io ce l’abbia con Carlo Galli, che stimo e di cui leggo tutto da lustri. Ce l’ho con questo maldestro uso che si fa delle categorie populiste, anche da parte di chi dovrebbe metterci invece originalità, coraggio, potenza di analisi, andando oltre il mainstream che ha ammazzato persino l’idea stessa di sinistra nella coscienza politica degli italiani. Ce l’ho con chi parla dalla cattedra e vorrebbe farci credere che i colpevoli siano sempre gli altri. Ce l’ho con chi usa l’impersonale del ‘si’, o il ‘voi’, e mai lo senti pronunciare un ‘noi’ di appartenenza, di prossimità, di comune condivisione del destino, nel bene e nel male, tanto più nel male. Ce l’ho con ‘io l’avevo detto’, con i detentori della verità sempre, con chi pensa che i libri siano tutto, che la cultura abbia sempre ragione, con chi è pronto a individuare chiavi di lettura a una velocità imbarazzante quando noi arranchiamo faticosamente. Non è invidia, semmai incapacità di comprendere tanta risolutezza, tanta ‘brillantezza in salita’ (si diceva per il Giro d’Italia). Ce l’ho con chi cavalca lo stile del momento, con chi usa un lessico attuale, trendy, cool, di moda, per sopperire al proprio spaesamento, questo sì reale. Ce l’ho con chi pensa che la colpa si sia sempre dei dirigenti (che hanno le loro colpe ma non tutte). Ce l’ho con chi, magari, fa il consigliere del principe e poi il principe lo affonda al suo primo sbandamento.

Ho letto per anni tutto e tutti. Potrei citare una sfilza di teorici e intellettuali presso i quali ho cercato chiavi di accesso al mondo, e strumenti per fare politica secondo un’idea di giustizia, sempre dalla parte di chi lavora e di chi è ultimo e senza diritti. Oggi posso dire, con la serenità di chi intravede ormai la vecchiaia, che il disastro vero della sinistra è nelle mappe che ci hanno disegnato per decenni, e che abbiamo seguito quasi religiosamente. Mappe sfocate, mappe incomplete, mappe a cui mancavano lembi di terra o bracci di mare. Mappe accademiche, mai militanti. Adesso, dopo il naufragio, con la nave che prende acqua ma non è ancor affondata, gli stimatissimi geografi vengono a dirci che il capitano ha sbagliato rotta! Che la ciurma doveva ammutinarsi! Che bisognava prendere la lancia di salvataggio e andarsene quando ancora il mare era libero, prevedendo l’imminente tempesta! Questo è davvero post festum.

Si badi, non rivendico la necessità di mappe perfette. So bene quanto sia complicato, e non ne faccio una colpa agli intellettuali che parlano e scrivono molto anche per professione. La colpa è nello scansarsi quando l’iceberg è a due passi, la colpa è gettare tutto indosso a chi comandava la nave. Se c’è un difetto, uno solo, nella bellissima canzone di De Gregori è tutto nella incompletezza dei suoi protagonisti. Ci sono il capitano e il mozzo di bordo. Ci vorrebbe anche il cartografo, quello che avrebbe dovuto indicare la direzione di rotta appropriata e prevedere se possibile anche l’iceberg. Troppo facile e troppo irritante, adesso, dire che serve una ‘sinistra di popolo’, una sinistra anti-sistema persino, che ci vogliono azioni e non parole come se fossimo una destra qualsiasi. Ma che vuol dire, se non seguire piattamente e impersonalmente la chiacchiera populista o quella tecnica, anche per camuffarsi un po’ e lateralizzare così anche le proprie responsabilità? È questa, in fondo, la vera pece da cui oggi dobbiamo districarci, cara ciurma alle prese con il mare in tempesta, cari spaesati cartografi, cari capitani senza mappe affidabili e con la vecchia nave tragicamente in secca.

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