La miseria politica e la sottovalutata potenza delle parole

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 3 settembre 2018

Non sottovalutate i cambi di nome in politica. Non sono una sciocchezza da irridere, come fanno in molti. Non indicano superficialità o puro nominalismo. La lingua è una cosa serissima, i suoi significati si sedimentano, hanno un valore storico e un effetto performativo, non si limitano a registrare mutamenti avvenuti (anche questo, ovvio) ma ne producono di loro. Per dire, denominare un partito come ‘democratico’, ha voluto significare la scomparsa di fatto, in Italia, di una forza socialista. E poco ha valso pensare di ‘salvare’ questa tradizione in una sintesi delle culture riformiste. No: niente nome – niente fatto. Non è un caso, quindi, che nel momento più buio della politica italiana, si alzino voci che suggeriscano cambi di nome.

Ne parla il PD (ma a sinistra c’è una grande tradizione in materia), ma ne parla anche la Lega (e non solo perché le vicende giudiziarie spingerebbero in quella direzione). Oggi il nome di un partito è sostanzialmente un brand rivolto a utenti-consumatori della politica (altro che ‘popolo’!), ed è destinato a orientare i comportamenti, a fornire una immagine adeguata alla fase, a rilanciare in termini performativi e, soprattutto, di fatturato elettorale. Leggo su ‘Repubblica’ che la Lega potrebbe rinominarsi ‘Prima gli Italiani’, una specie di sintesi del programma politico salviniano, oppure ‘Popolo Italiano’, con ciò esibendo a tutto tondo il populismo che anima il neo-leghismo. Nomi-brand, nomi-civetta, nomi-slogan. Nomi usa-e-getta. Roba da mercato politico, insomma, e da marketing elettorale.

La sinistra non si salva da questo ‘mercatismo’ del voto e dei consensi. Lo sappiamo, l’abbiamo già visto. Ma perché è accaduto? Perché in Europa, in linea di massima, reggono le vecchie denominazioni e qui da noi è, invece, lo sfracello dei marchi? Io credo che tutto abbia avuto simbolicamente inizio alla Bolognina, che fu il nostro modo di rispondere al crollo del muro. Il partito divenne una ‘cosa’, meglio se ‘nuova’, il cui nome avrebbe dovuto registrare questo cambiamento e anzi, soprattutto, produrlo! Uno schema che si è ripetuto successivamente presso altre latitudini politiche italiane, anche a destra.

Nell’incapacità di indicare concretamente dove si volesse andare a parare (ossia che fare!) ci si è rifugiati sotto l’ombrello di un termine sciamanico (‘nuovo’), e si è delegato alla lingua (del marketing, della comunicazione politico-commerciale) il compito di ‘produrre’ d’emblée il cambiamento della sostanza politica. Un ribaltamento insomma. A dire il vero, dopo la Bolognina vi furono due anni di discussione intensa, persino commovente vista con gli occhi di oggi. Il meccanismo, per il quale cambiare nome era in surroga del dibattito politico (in ciò coadiuvati dalle primarie), non era ancora chiaro e preponderante. Ci pensò, poi, il veltronismo a diradare i dubbi. Ma quando i congressi apparvero a molti come una perdita di tempo, perché dilatavano i tempi del “fare presto e in fretta” che tutti chiedevano, ci si affidò mani e piedi al potere taumaturgico delle parole. I cambi di nome furono all’ordine del giorno, non solo a sinistra. Pensate a Berlusconi: Forza Italia, quindi Popolo delle Libertà, e poi di nuovo Forza Italia. La logica del marketing retroagì comicamente persino sul suo inventore in politica, l’ex Cavaliere. Oggi si cambia nome (o si pensa di farlo) così, come se fosse un bisogno fisiologico e con la stessa imbarazzante naturalezza.

Perché pensare, riflettere, discutere pubblicamente sulla crisi, sulle prospettive, sulle trasformazioni, quando basta cambiare il nome della propria organizzazione per ottenere un effetto di marketing persino più efficace, senza la fatica del dibattito e delle decisioni? Ecco il punto. Davanti a questo rovello oggi c’è di nuovo il PD. Dinanzi a questo dilemma ci sono anche i fondatori di associazioni apartitiche, che se la cavano mettendo in campo parole pesantissime con una incresciosa leggerezza. Dinanzi a questo spasmo c’è anche la destra: ‘Lega Nord’, anzi ‘Lega’ e basta, e poi ‘Noi con Salvini’, ma forse è meglio ‘Prima gli Italiani’. Perché fare un congresso, quindi? Meglio l’onomastica, i gazebo, l’uomo solo al comando che dissolve tutti i livelli di mediazione possibili. Si cancellano tradizioni ribattezzando la cosa, si fa strame dell’esistente a colpi di brand, si rinnova l’offerta politica solo denominando daccapo il partito, si fa una cosa nuova (per esempio una sinistra ‘nuova’ à la Veltroni) ripartendo rapidi rapidi dal linguaggio.

Si finisce, insomma, per evocare il potere produttivo della lingua, senza immaginarne la potenza effettiva. E così si maneggiano termini e nomi quasi incuranti delle conseguenze profonde che essi comunque producono. E si dimentica il carattere essenziale della politica, che è quello di essere impresa collettiva, progetto comune, partecipazione organizzata, soggettività ampia e articolata. Quindi mediazione. Un campo di iniziativa che deve coinvolgere e deve allargare la discussione, non restringerla nella stanza di un guru, dalle cui labbra pendono dirigenti totalmente de-politicizzati. Fare leva sui nomi è una forma di ‘neutralizzazione’ della politica e riduce il suo significato a zero. Ed è assieme la messa in campo di un ordigno linguistico potentissimo, per certi aspetti ingovernabile, che finisce per dettare le regole del gioco. La sinistra non è vittima di questa situazione, ne è stata nel tempo una protagonista. Per ricominciare dovremmo farne almeno pubblica ammenda. Ma non mi pare che si vada in questa direzione, anzi.

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