Fonte: facebook
di Lucrezia Ricchiuti – 7 ottobre 2014 in Senato
Signor Presidente e onorevoli colleghi, membri del Governo:
oggi affrontiamo un tornante decisivo della legislatura, un tratto di attività che segna il modo e la profondità di senso con cui questa compagine parlamentare sa parlare alle italiane e agli italiani.
Tra questi, Laura 32 anni laurea magistrale, esperienza decennale, single, lavora per 7 euro l’ora per una cooperativa presso alcuni comuni. Fa un lavoro delicatissimo, lavora da settembre a giugno, luglio ed agosto senza paga, niente tfr, niente malattia, niente ferie. Per sopravvivere deve integrare la miserabile paga facendo altri lavoretti, compreso il passare la notte in una comunità una volta la settimana. La sua situazione è la normalità per chi lavora per le cooperative.
Poi c’è Federico, 24 anni: un diploma, molti altri corsi di specializzazione per cercare un lavoro qualsiasi, accetta la posizione di apprendista, lavora 11 ore al giorno ma viene pagato per 8. Di fatto la formazione non la fa, è autonomo sul lavoro, ma piuttosto che stare a casa si adatterebbe a fare qualunque cosa. E poi se reclamasse i suoi diritti, il giorno dopo sarebbe senza lavoro. La sua situazione è la normalità.
Linda, Marco, Luisa lavorano come commessi nei negozi dei centri commerciali, tutti e tre laureati ma non lo hanno dichiarato nei curricula perché altrimenti non li avrebbero assunti. Lavorano su due turni sette giorni su sette; non possono fare ferie. Altrimenti:a casa.
L’edilizia oggi è in crisi e sono riapparsi i caporali, che raccolgono non gli extracomunitari, ma i muratori disoccupati italiani. Tutti in nero: basta fare dei controlli nei cantieri.
Giovanni, con altri, lavora in un supermercato dove lavorano 50 ore la settimana ma sono pagati per 40. Giovanni ha chiesto il pagamento degli straordinari: il giorno dopo era a casa.
Esistono le cooperative lavoro gestite dalla ‘ndrangheta che trattano i lavoratori come schiavi. Esistono gli schiavi in agricoltura, sia nel Mantovano, nell’Agro Pontino, nel Tavoliere e in Calabria. Per non parlare dei giovani che lavorano praticamente gratis.
Ecco a tutti questi lavoratori, giovani e meno giovani, noi rischiamo di togliere non solo sacrosanti diritti, ma anche dignità: loro saranno i futuri poveri, tanti con il master in tasca.
Mio padre era un operaio dell’Alfa Romeo e ha fatto centinaia di ore di sciopero negli anni ’60 per rivendicare i diritti dei lavoratori e per costruire una società più giusta per quelli come lui e per le future generazioni. Io mi ricordo perfettamente quei tempi: i soldi che mancavano nella sua busta paga non ci permettevano di tirare la fine del mese e questo non lo potrò mai dimenticare. Le sue lotte e quelle di migliaia di lavoratori come lui si concretizzarono con l’approvazione dello statuto dei lavoratori. Io non contribuirò a distruggere quello che è costato loro: sacrifici, lacrime e sangue.
Oggi la riforma del lavoro dovrebbe servire per eliminare il precariato e per estendere i diritti a tutti; quindi è indispensabile eliminare la maggior parte di questi contratti ‘vergogna’, le false partite Iva, compreso il contratto a temine del decreto Poletti. Uno dei nostri emendamenti va in questa direzione.
[…]
Nessuno nega che vi possano essere momenti di particolare tensione produttiva od organizzativa che impongano maggiore flessibilità; né che i processi di lavoro spesso oggi possano contemplare uno spettro di mansioni che spazi da operazioni meramente manuali a lavori di maggior contenuto concettuale e che questo spettro possa essere ricompreso tutto in una mansione.
Tuttavia, la materia del contenuto della prestazione di lavoro è oggetto della contrattazione e in quella sede in Italia si sono raggiunti già livelli di flessibilità molto significativi.
Quindi se si deve intervenire per legge sulla materia occorre ancorare la possibilità del cambio di mansioni in peggio solo a processi di riorganizzazione e ristrutturazione dovuti a comprovate difficoltà economiche dell’impresa.
E veniamo all’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
Qui – collega Sacconi – lei che sta in Parlamento dal 1979 e che ci fa la predica della modernità e del rinnovamento ma che dice le stesse cose di destra da 35 anni – bisogna stabilire la verità.
La reintegra è un rimedio per un fatto illecito. Prevede una sanzione se i contenuti della regolazione del lavoro sono violati.
È inutile stabilire delle regole se poi la garanzia ultima dovesse sparire. Il datore di lavoro avrà sempre l’arma del licenziamento, anche illegittimo, per mettere a tacere qualunque lavoratore dovesse far valere il proprio diritto.
Ripeto: l’art. 18 è un rimedio per la violazione di regole, quale che esse siano. La sua abolizione non ha senso logico né giuridico.
[…]
Poi ci sono quattro argomenti insopportabili:
1) quello per cui c’è disparità tra coloro che sono garantiti (perché si applica loro l’art. 18) e quelli che – in stragrande maggioranza – quella garanzia non l’hanno. La soluzione evidentemente è estendere le tutele a chi non le ha, non toglierle a che li ha;
2) per i fatti illeciti è sufficiente la tutela risarcitoria. Non è così: la reintegra sul posto di lavoro è la più efficace ed è la più coerente con l’art. 1 della Costituzione. La monetizzazione può essere scelta dal lavoratore ma non può essere imposta, anche perché l’esecuzione sui beni dell’impresa può rivelarsi infruttuosa se questa ha capitali all’estero, come spesso accade;
3) con la tutela universale per la disoccupazione involontaria – una sorta di indennizzo per la perdita del lavoro per tutti – il problema della reintegra sarebbe superato. NON È VERO PER NIENTE. UNA COSA SONO I CICLI ECONOMICI CHE PORTANO ALLA CRISI AZIENDALE E ALLA DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA; BEN ALTRA IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO!
4) L’art. 18 riguarderebbe solo lo 0,001 per cento dei lavoratori. Ma se così fosse, perché è cruciale abolirlo? Come fa una norma che riguarda così poche persone a essere un freno agli investimenti?
TRALASCIO POI CHE LA RIDUZIONE DELLE GARANZIE FINORA NON HA PORTATO ALCUN AUMENTO NELL’OCCUPAZIONE E CHE LA GRAN PARTE DEGLI IMPRENDITORI – tra cui Prada e General Electric – NON DICE CHE L’ART. 18 È IL LORO PRINCIPALE PROBLEMA.
Come è falso affermare che gli investimenti esteri non arrivano perché esiste l’art. 18. […] Gli investimenti esteri non arrivano perché la corruzione in Italia ha inquinato l’economia sana a favore di quella criminale in termini insopportabili e la libera concorrenza è alterata. Gli investimenti non arrivano perché il processo civile ha tempi assurdi. Non si investe in Italia o, meglio, in alcune zone dell’Italia perché le mafie hanno sostituito lo stato. Gli investimenti non arrivano perché in Italia chi falsifica i bilanci non è punito ma premiato e quindi non c’è la libera concorrenza.
E allora forse è il caso di approvare il falso in bilancio, quello vero non quello inserito nel disegno di legge di Orlando, approvare l’autoriciclaggio e approvare l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Un imprenditore ha bisogno di certezza del diritto, qualcosa di sconosciuto in Italia. L’art. 18 è solo un falso problema. Serve a mascherare la nostra incapacità di prendere le decisioni vere, quelle che il convitato di pietra, Silvio Berlusconi, non ci permetterà mai di prendere.
Il lavoro non è una merce di scambio qualsiasi. Stiamo parlando di persone che hanno disperati bisogni: soprattutto quello di potersi costruire un futuro e di affrancarsi da paghe da fame, quando ce l’hanno.
Non ci si faccia condizionare dalla destra, che ha fatto la crisi di questi anni, tramutando il fondamento del nostro Paese dal lavoro alla precarietà. A destra bisogna guardare per salutarla, dirle addio e starle lontani, non per abbracciarla.
Combattiamo i vincoli imposti dalle consorterie forti e non smantelliamo le tutele per i deboli. Si abbia il coraggio della realtà, delle storie vere, degli occhi dei nostri giovani, di chi si sente sempre più fuori e che vi è tenuto da chi è sempre più dentro.
Oggi Matteo Renzi ha ribadito che il dissenso può portare nel partito a un voto ma non può essere un veto. Il mio dissenso però è vero e la discussione non può essere priva di contenuti, vuota, deve esserci vita e per coglierne i termini non deve occorrere un vate. Questa riforma deve dare lavori ai disoccupati non solo valori alle multinazionali.
Sollecito quindi tutti i miei colleghi a votare con coerenza e non per cieca credenza. Contesto la decisione di porre la questione di fiducia su un emendamento del Governo. Taluni dicono che si tratta di un segno di debolezza: personalmente non so dire, ma avverto la mancanza di una discussione sui contenuti, sulle esperienze, sulle persone.
Il voto di fiducia sposta l’oggetto della votazione non solo in senso tecnico-procedurale ma – in questo caso come raramente in altri – lo sposta in chiave politica e devia l’attenzione dal merito dei problemi, riduce al silenzio i dissensi di questi giorni. Aspetterò di vedere il testo su cui la fiducia verrà posta e mi auguro di poter constatare che si sono fatti dei passi avanti di modo che io possa rinnovare la fiducia al Governo che sostengo.
Dico però sin d’ora che la mia opposizione alle norme sbagliate del Jobs Act non è a termine, cari colleghi. Il mio dissenso non dura 24 ore e poi scade, per svanire in un malinteso senso di responsabilità. Io devo responsabilità e credibilità ai precari, ai disoccupati, agli esodati, ai lavoratori discriminati e alle donne licenziate in gravidanza.
Staremo a vedere. Grazie.
1 commento
Ottima analisi