Fonte: bompiani
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LA MIA LOTTA PER LA LIBERTA’ – di YEONMI PARK – ed. BOMPIANI
“Sono estremamente grata per due cose: di essere nata in Corea del Nord e di essere fuggita dalla Corea del Nord. Entrambi gli eventi mi hanno formato, e non cambierei mai la mia vita con una pacifica e tranquilla. Ma c’è molto di più nella storia che mi ha portato a essere quella che sono oggi. […] Durante il mio viaggio ho visto gli orrori che gli esseri umani sono capaci di infliggersi a vicenda, ma sono stata anche testimone di atti di tenerezza, gentilezza e sacrificio nelle peggiori circostanze immaginabili. So che si può perdere parte della propria umanità per spirito di sopravvivenza. Ma so anche che la scintilla della dignità umana non si potrà mai davvero spegnere e che, grazie all’ossigeno della libertà e al potere dell’amore, potrà tornare a brillare. Quella è la storia delle scelte che ho fatto per riuscire a vivere.” Yeonmi Park racconta la sua storia incredibile: dall’infanzia sotto il regime di Kim Jong-il, alla fuga in Cina finita nelle mani dei trafficanti di esseri umani, alla ricerca senza esito della sorella Eunmi, alla traversata del gelido deserto di Gobi seguendo le stelle verso una nuova vita, il suo memoir è un inno senza retorica alla libertà e alla forza dello spirito umano.
PROLOGO
Nella gelida e scura notte del 31 marzo 2007, io e mia madre ci scapicollammo lungo l’argine ripido e roccioso del ghiacciato fume Yalu, che separa la Corea del Nord dalla Cina. Sia sopra sia sotto di noi c’erano agenti di pattugliamento, e a destra e sinistra dei posti di blocco ogni cento metri presidiati da soldati pronti a sparare contro chiunque avesse cercato di varcare il confne. Non avevamo nessuna idea di cosa ci aspettasse, desideravamo soltanto arrivare in Cina, dove speravamo di avere una possibilità di sopravvivenza.
Avevo tredici anni e non pesavo nemmeno trenta chili. Appena una settimana prima ero stata ricoverata allospedale di Hyesan, il mio paese di origine che si trova lungo il confne cinese, a causa di una pesante infezione intestinale, che i medici avevano erroneamente scambiato per appendicite. Sentivo ancora un dolore lancinante per via dell’incisione ed ero così debole che riuscivo a stento a camminare.
Il giovane traffcante nordcoreano che ci stava guidando oltre la frontiera aveva insistito perché fuggissimo quella notte. Aveva corrotto alcune guardie affnché chiudessero un occhio, ma non poteva corrompere tutti i soldati della zona, quindi occorreva essere estremamente prudenti. Io lo seguivo nell’oscurità, ma ero talmente instabile che dovetti scendere di sedere lungo l’argine, provocando delle piccole slavine. Lui si voltò verso di me rimproverandomi a bassa voce perché smettessi di fare tutto quel rumore. Ma era troppo tardi. Vedemmo la sagoma di un soldato nordcoreano che risaliva verso di noi.
Se era una delle guardie corrotte, non dava cenni di averci riconosciuto.
Andatevene! ci urlò. Via di qui!
La nostra guida balzò giù per andargli incontro, mentre noi restammo in ascolto del loro parlottare sommesso. Poi tornò da sola.
Forza, disse, sbrighiamoci!
Era l’inizio della primavera, le giornate cominciavano a farsi più tiepide e il ghiaccio del fume si andava sciogliendo a pezzi. Il punto in cui attraversammo era stretto e ripido, protetto dal sole durante il giorno, per cui il ghiaccio era ancora abbastanza solido da reggere il nostro peso o almeno così speravamo. La nostra guida chiamò qualcuno al cellulare, qualcuno che doveva trovarsi sulla sponda cinese e poi ci sussurrò: Corriamo!
La guida cominciò a correre, ma i miei piedi non si muovevano e mi avvinghiai a mia madre. Avevo così paura che ero completamente paralizzata. Lui tornò indietro, mi prese per mano e mi trascinò attraverso il ghiaccio. Quando approdammo sulla terraferma, cominciammo a correre senza tregua, fn quando fummo fuori dal campo visivo delle sentinelle di confne.
La riva del fume era scura, ma le luci di Changbai, in Cina, brillavano davanti ai nostri occhi. Mi voltai per lanciare una rapida occhiata al posto in cui ero nata. Come di consueto la rete elettrica era spenta e tutto ciò che potevo vedere era un orizzonte buio e privo di vita. Sentivo il cuore scoppiarmi in petto quando arrivammo a una piccola capanna sul limitare di una distesa piatta e deserta.
Non sognavo la libertà quando fuggii dalla Corea del Nord.
Non sapevo nemmeno cosa volesse dire essere liberi. Tutto ciò che mi era dato sapere era che se la mia famiglia fosse rimasta lì, probabilmente saremmo tutti morti di inedia, di malattia o per le condizioni disumane nei campi di lavoro forzato. La fame era diventata insostenibile, ero pronta a rischiare la mia vita per una scodella di riso.
Ma in questa fuga non cera in gioco soltanto la nostra sopravvivenza. Io e mia madre eravamo alla ricerca di mia sorella maggiore, Eunmi, che era scappata in Cina qualche giorno prima e della quale non avevamo più notizie. Speravamo che ci fosse lei ad aspettarci dall’altra parte del fume. Invece l’unica persona che ci venne incontro fu un signore cinese di mezzetà, calvo, un nativo nordcoreano come molti di quelli che abitano in questa zona di confne. L’uomo disse qualcosa a mia madre, poi la condusse sul lato dell’edifcio. Dalla mia posizione riuscii solo a udire lei che implorava:
Aniyo! Aniyo!
No! No!
Capii che le cose si stavano mettendo malissimo. Eravamo arrivate in un posto sbagliato, forse persino peggiore di quello da cui eravamo scappate.
Sono estremamente grata per due cose: di essere nata in Corea del Nord e di essere fuggita dalla Corea del Nord. Entrambi gli eventi mi hanno formato, e non cambierei mai la mia vita con una pacifca e tranquilla. Ma c’è molto di più nella storia che mi ha portato a essere quella che sono oggi.
Come decine di migliaia di nordcoreani, sono fuggita dalla mia terra e mi sono trasferita in Corea del Sud, dove veniamo ancora considerati dei cittadini, come se un confne blindato e quasi settant’anni di confitti e tensioni non ci avessero mai diviso. I nordcoreani e i sudcoreani hanno la stessa origine etnica e parlano la stessa lingua, se si esclude il fatto che in Corea del Nord non esistono alcune parole come centri commerciali, libertà e persino amore nel signifcato romantico, quello in cui lo considera il resto del mondo.