Fonte: Il Corriere della sera
di Lucrezia Reiclhin – 30 settembre 2018
La strategia del governo non sembra in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri
La manovra approvata dal governo costituisce un’aperta sfida all’Europa. I giallo-verdi spiegano che la loro responsabilità è innanzitutto nei confronti degli italiani, mettendo quindi in contrapposizione gli interessi di questi ultimi a quelli europei: una retorica martellante che ha prodotto la convinzione di molti secondo cui l’Europa sarebbe in realtà un nemico le cui regole sono state disegnate per sostenere gli interessi tedeschi, contro di noi. Immagino che il governo abbia quindi una strategia rispetto ai nostri partner europei diversa da quella del passato, che pur contestando aspetti delle regole comunitarie si basava sul negoziato e non sullo scontro. Una possibile interpretazione di questa strategia è la seguente. Provocando Bruxelles sul deficit, l’Italia dà un altro calcio al patto di stabilità, contando — a ragione — sul fatto che quest’ultimo abbia ormai perso di credibilità, data la complessità delle sue regole e i difetti di concezione. Facendolo unilateralmente — e non nell’ambito delle discussioni multilaterali di riforma del governo economico dell’euro — indebolisce ancor più la già fragile fiducia tra Stati membri.
In questo modo si bloccano le riforme in discussione. Prima di tutto il completamento dell’unione bancaria e così anche ogni proposta di bilancio comune europeo. Ma poco importa perché queste riforme sono oggi improbabili, data la fragilità politica di tutti i Paesi membri e la crescente avversità al «più Europa» che rende leader riformatori come Emmanuel Macron e Angela Merkel più prudenti che nel passato.
Quindi, diamo un bel calcio e andiamo per la nostra strada. Ai mercati questo piace poco ma non siamo nelle condizioni del 2011, in piena crisi finanziaria e con una minaccia imminente per la sopravvivenza della moneta unica. Il costo dello spread sarà sicuramente pesante, alzerà gli oneri finanziari, il costo di raccolta delle banche e quindi le condizioni di credito. Se la manovra porterà crescita e consenso si sopporterà anche questo, naturalmente contando sul fatto che la fuga degli investitori stranieri non sarà troppo rapida e massiccia.
Poiché immagino che i membri più avveduti della coalizione sappiano che è molto improbabile che una manovra così sbilanciata sulla spesa corrente sia adeguata a risolvere i problemi di crescita strutturale dell’Italia e che quindi anch’essi si aspettino che i miracoli preannunciati sul Pil non si vedranno, la strategia del governo mi sembra non sia in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri.
Questo comporterà misure che creino incentivi ai cittadini a comprare titoli di Stato, pressioni affinché le banche facciano altrettanto e rinunciando quindi a quei vantaggi di diversificazione dovuti all’integrazione finanziaria che sono una delle motivazioni fondamentali del mercato unico. Si potrebbe addirittura sostenere che una nuova regola per la comunità europea dovrebbe essere quella di dare completa libertà ai governi nazionali per le politiche di bilancio, se queste non comportano pericoli per gli altri e sono quindi finanziate interamente contraendo debito con i propri cittadini. Questo potrebbe proprio essere l’inizio dell’Europa a due velocità con l’Italia nelle mani degli italiani, «recintata» per evitare che crisi possibili del debito contagino gli altri Paesi. Noi italiani saremmo così letteralmente tutti in una stessa barca, con un rischio bancario eguale al rischio sovrano: fallisce lo Stato, falliscono le banche e viceversa. I cittadini rinuncerebbero in modo patriottico a usare i loro risparmi in modo più remunerativo mentre le banche sosterrebbero lo Stato invece che le imprese. Se il patriottismo non bastasse, si dovrebbe considerare l’introduzione di controlli sui movimenti di capitale.
È chiaro che questa prospettiva sovranista non potrebbe durare perché affosserebbe ancora di più la crescita e soprattutto essa è fondamentalmente incompatibile con la logica di un mercato integrato e con la moneta unica. Il passo seguente sarebbe quindi uscire dall’euro riconquistando libertà di cambio e di emissione di moneta propria. Ho già scritto dei limiti di questa scelta e dei costi che comporterebbe per gli italiani ma è lì che — in modo più o meno cosciente, e sicuramente poco trasparente — questo governo ci sta portando.