Fonte: la Repubblica
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di Tomaso Montanari, 15 febbraio 2017
Quando si ascoltano Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Virginia Raggi promettere che, sì, lo stadio della Roma si farà, viene da pensare che ci sia una maledetta linea d’ombra, nella vita pubblica italiana. Quella linea è l’elezione a una carica pubblica.Quando la varca, il cittadino subisce una mutazione radicale nel linguaggio, nell’etica, nella scala delle priorità. Perfino nella logica. Non è più un cittadino, ormai: diventa il pezzo di un potere immutabilmente uguale a se stesso, chiunque lo incarni.
La città (non solo Roma) si è disfatta, è diventata invivibile, a tratti mostruosa, perché si è smesso di pensarla e di disegnarla. Si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale: la prima ha cessato di immaginare e modellare la seconda. Il taglio delle finanze locali, l’ignoranza e la corruzione delle classi dirigenti hanno delegato a pochi grumi di interesse privato (palazzinari e banche, in sostanza) lo sviluppo delle città, secondo questa logica perversa: “io amministratore permetto a te speculatore di prenderti un pezzo di spazio pubblico, se in cambio mi fai quei servizi, quelle urbanizzazioni, quelle infrastrutture necessarie alla comunità che io non ho i soldi per fare, né la voglia di pensare”. È la fine dell’urbanistica, e dunque la fine della città pubblica. Questa abdicazione è stata compiuta indifferentemente da destra e da sinistra.
Un simbolo di questa continuità perfetta è stata la figura di Maurizio Lupi: assessore allo Sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano del Comune di Milano nella giunta di Gabriele Albertini e poi ministro delle Infrastrutture dei governi Letta e Renzi. La linea Lupi è quella della Legge Obiettivo di Berlusconi del 2001: che resuscita, peggiorata, nello Sblocca Italia di Renzi (e Lupi, appunto) nel 2014. Il motto delle due leggi era lo stesso: “padroni in casa propria”. Parole che volevano solleticare i cittadini, ma che di fatto descrivevano perfettamente le figure di amministratori che si sentono padroni del territorio solo per svenderlo ad interessi particolari. Un pensiero unico che tende ad inghiottire tutti: basti pensare ad Enrico Rossi, che mentre si candida a guidare il Pd e il Paese con idee socialiste, impone ai cittadini della Maremma un’autostrada che essi non vogliono.
Ora è il turno dei 5 Stelle. In campagna elettorale il loro slogan (sommario, ma efficace) era: riprendiamoci il governo della città. Non come 5 stelle, come cittadini. Ed è su questo che hanno avuto il voto di moltissimi romani di sinistra. La prima cosa che i vincitori avrebbero dovuto fare una volta entrati in Campidoglio era dunque ritirare la delibera 132/2014: quella con cui la giunta Marino aveva stabilito che il progetto dello stadio — un progetto della Roma (la società, non la città), che prevede un milione di metri cubi di cemento con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali — fosse “di pubblico interesse”.
Era una battaglia difficile, ovviamente: una battaglia che si poteva vincere solo spiegando molto chiaramente agli elettori la situazione, chiedendo pubblicamente l’appoggio dei romani contro chi minacciava — e minaccia — di mettere in ginocchio la città attraverso cause miliardarie. D’altra parte, tutti sappiamo che per invertire la rotta pluridecennale della privatizzazione delle città occorre una clamorosa rottura della continuità: una rottura che affermi il primato della politica e del bene comune sugli affari e sugli interessi privati. Ma è successo tutto il contrario: e ora ci si viene a dire che lo stadio si farà, vedremo con quante torri e quanta speculazione attorno.
I 5 Stelle vengono quotidianamente passati al microscopio da chi si aspetta (o magari si augura) di poterli dichiarare uguali a tutti gli altri nella corruzione. Ma quello che sta emergendo è qualcosa di diverso, forse di peggiore. E cioè che essi rischiano di essere uguali agli altri nella subalternità allo stato delle cose: in un difetto, e non già in un eccesso, di radicalità. Perché chiunque varca quella famosa linea d’ombra senza una visione, senza un progetto, senza sapere quale città e quale politica vuole, non riuscirà a cambiare niente. Anzi, ne sarà inesorabilmente cambiato.
1 commento
CITTA’ INVISIBILI
di Fausto Corsetti
CITTA’ INVISIBILI
di Fausto Corsetti
“Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici
o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le
città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le
mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o
riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”. Sull’onda di
alcuni scandali edilizi, del degrado politico, morale e culturale delle nostre
città, della confusione urbana della metropoli moderna, risuonano bene queste
parole accorte di Italo Calvino, tratte da “Le città invisibili”, un piccolo
libro forse poco celebrato, ma senz’altro anticipatore dei tempi. Le città del
desiderio, della memoria, dei segni, le città nascoste, le città che vorremmo
vivere ogni giorno e che, per pigrizia e cecità, non riusciamo a vivere,
diventano sempre più i luoghi del sogno, le città invisibili.
Bisogna riscoprirle queste nostre belle città. Perché le tentazioni della Città del
Rumore ci sono sempre e prendono le forme, oggi, di una comunicazione tra la
gente, rapida, al minuto, superefficiente e quindi superficiale, di una “realtà
virtuale” che ci avvinghia tutti in schermi e schermucci; e perché sarebbe meglio
pensare di più ad una Città del Silenzio, come luogo privilegiato della parola.
E’ quasi un paradosso: il silenzio come comunicazione vera. E quindi tornare a
parlarsi. Con il vicino di casa, il passante per strada, con il barbone e il
malato di mente.Tornare sì ad aprire i monumenti, i musei ed i centri storici, ma tornare a riscoprire lestrade della città, a starci con i suoi ritmi e i suoi colori, a frequentare i luoghi dove si beve del buon vino e dove si ascolta della buona musica, a fare teatro all’aperto, cinema all’aperto, a ripopolare le nostre strade di poeti, suonatori, scrittori, filosofi, pifferai, giocolieri, incantatori, maghi e
astrologi, venditori ambulanti e poveri, matti, mendicanti, come un grande
circo dove ognuno può danzare, parlare e stare in silenzio. In una babele di
uomini e culture, dove ci sia posto per tutti.
Forse è una città del sogno, una città, appunto, invisibile.
Ma la Città del Silenzio è anche il luogo della dimensione utopica, del ciò che non è
ancora e non sarà, come afferma lo storico Vittorio Emanuele Giuntella, in un
prezioso volumetto dal titolo “La città dell’illuminismo”: “La città, che è per
eccellenza il luogo della storia e il luogo della trascendenza, il segno di
contraddizione e quello dell’unità, è Gerusalemme, le pietre della Gerusalemme
distesa tra la valle del Cedron e quella di Ben-Hinnom, e l’altra Gerusalemme,
quella dell’Apocalisse e della Mishna, che non è ancora, ma che verrà”.
Una dimensione spirituale che però non ci toglie lo sguardo dalla dura realtà
urbana di ogni giorno. E’ lo stesso Calvino che ci indica una possibile strada
da seguire, per bocca del viaggiatore Marco Polo che racconta ad un desolato e
melanconico Gran Khan: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è
uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che
formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce
facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non
vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento
continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.