La laurea vale cinque anni di vita

per Gabriella
Fonte: pagina99
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Le statistiche Istat, dopo aver denunciato l’aumento di mortalità e la diminuzione delle nascite, hanno decretato anche un aumento dell’aspettativa di vita per i laureati. Gli uomini che hanno terminato l’università vivono fino a 80,1 anni, le donne fino a 84,7. L’editoriale tratto dal nuovo numero di pagina99 in edicola

Se non credete all’economia, fidatevi almeno della demografia. È quanto vien da dire guardando la raffica di avvisi che, mese dopo mese, ci stanno mandando le statistiche della popolazione. Apparentemente asettiche, spesso ignorate. Ma invece vere sentinelle, come gli uccellini nelle miniere per le fughe di grisou. Qualche mese fa, ci si è accorti che c’era stato un anomalo balzo in avanti della mortalità nel 2015: e la discussione fu se era da attribuire al clima meteorologico o ai tagli ai budget sanitari.

Parallelamente, si è dovuta registrare la prima ufficiale marcia all’indietro della popolazione italiana dal 1917: e qui non c’è molto da discutere, ma solo da prendere atto del fatto che l’arrivo degli immigrati e le nascite da donne straniere hanno smesso di compensare il declino demografico “autoctono” degli italiani. Tempo poche settimane, e arriva un’altra inversione di tendenza: le aspettative di vita media hanno smesso di crescere, vivremo – se tutto prosegue così – mediamente 80,1 anni se maschi, 84,7 se donne.

Due indizi non fanno una prova, ma qui c’è una carrellata di pistole fumanti. Cosa ci sta succedendo? È vero che per anni – ben prima che iniziasse la crisi economica – siamo stati pervasi dalla narrazione, e anche dalla retorica, del declino: ma ci si riferiva, appunto, all’economia e alla struttura produttiva, non alla carne viva, alla salute, ai reparti maternità e agli obitori.

Il fatto è che spesso ci fermiamo ai numeri che ci piacciono, o che confermano la nostra lamentazione passiva, e ignoriamo quelli che ci spingerebbero a muovere le acque, a cambiare qualcosa. L’aumento anomalo dei decessi, e lo stop all’allungamento della speranza di vita, ci dicono che qualcosa non funziona, in un sistema sanitario pensato e finanziato per una struttura di popolazione diversa da quella attuale.

Quantità e qualità della spesa andrebbero riviste in funzione delle prestazioni appropriate a una popolazione più anziana e fragile, e soprattutto alla prevenzione dei rischi che la caratterizzano. Tenendo conto che spesso i più svantaggiati sono poveri di informazioni, non solo (e non tanto) di soldi. D’altro canto, altri numeri importanti sono stati pubblicati e ignorati.

Ci dicono che c’è un rapporto tra quanto studi e quanto vivi. Che tra un laureato a uno con la licenza elementare c’è una differenza di speranza di vita di 5,2 anni. Si può dire che studiare allunga la vita, o meglio che chi studia di più è in quella fascia di popolazione che vive anche di più. E poiché questa differenza si riduce, quasi si dimezza, per le donne, si può anche aggiungere che il lavoro manuale – che caratterizza maggiormente gli uomini con titoli di studio bassi – ha il suo peso, nella speranza di vita. Tutto ciò rende più complesse le prospettive del nostro welfare, ma anche più urgenti le sue riforme.

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