Fonte: Limes
LA GUERRA PRESENTA IL CONTO
Più si combatte, più crescono gli oneri di una ricostruzione che già eccede di molto il pil ucraino anteguerra. L’inventario, provvisorio, dei danni. Le implicazioni per Usa e Ue. Il dilemma delle riserve e il nodo della corruzione. Il ‘piano del grano’ è un bluff.
La contabilità della guerra è sempre esercizio deprimente. Ma necessario. I conflitti armati, al pari dei disastri naturali, non sono solo immani tragedie umane. Fanno anche danni tremendi, specie se i combattimenti assumono veste industriale – negli obiettivi e nei mezzi – e il fronte si stabilizza dando luogo alla forma più distruttiva di guerra, quella d’attrito. Quasi mai a pagare il prezzo più alto della ricostruzione è l’aggressore, ma è sulla ricostruzione che si giocano, in Ucraina come in ogni altro conflitto, le chance di vincere la pace. Di dare cioè carattere passabilmente sicuro, stabile e duraturo all’assetto postbellico.
Il costo oggi…
Tra gli argomenti che tengono banco nelle cronache belliche c’è il problema del munizionamento: l’Occidente euroamericano non produce abbastanza armi, soprattutto munizioni, per rifornire gli ucraini che in media ne usano fino a 6-7 mila al giorno, soprattutto proiettili da 155 mm 1. Armare gli ucraini ha ovviamente un costo, che si somma a quello del soccorrerli sotto il profilo economico e umanitario. Di quanto parliamo?
Nel primo anno di guerra (al febbraio 2023) Europa e Stati Uniti hanno stanziato oltre 100 miliardi di dollari per l’Ucraina 2. La cifra si riferisce ai fondi pubblici, escludendo quindi contributi privati e donazioni individuali. Questi soldi sono stati erogati soprattutto per via bilaterale dai singoli governi allo Stato ucraino e in larga parte (quasi 82 miliardi) sotto forma di crediti a lungo termine, la cui esigibilità è piuttosto aleatoria. Sin qui l’aiuto militare ha fatto premio su quello umanitario, posto però che quest’ultimo annovera anche l’accoglienza dei rifugiati ucraini (oltre otto milioni) da parte di svariati paesi europei, su tutti Polonia, Germania e Repubblica Ceca. La parte del leone nell’armare Kiev l’hanno fatta gli Stati Uniti, che su 48 miliardi di dollari stanziati ne hanno destinati quasi trenta agli armamenti; seguono a distanza i paesi della Ue (poco meno di 4 miliardi di euro) e il Regno Unito (2,3 miliardi di sterline).
Se gli Usa sono il principale donatore singolo, nel complesso è però l’Europa ad aver fin qui sostenuto, anche se di poco, l’esborso maggiore. Istituzioni comunitarie e singoli Stati membri – soprattutto Germania, Polonia e Francia in valore assoluto; ancora Polonia e poi Baltici in rapporto al pil – avevano sborsato quasi 50 miliardi di euro al febbraio 2023, gran parte dei quali (30 miliardi circa) in finanziamenti diretti, il resto in aiuti militari e umanitari. Inoltre, il Consiglio europeo ha temporaneamente sospeso dazi e altre barriere commerciali all’export (soprattutto alimentare) ucraino. Per il 2023 l’Ue ha già stanziato 18 miliardi di euro, cui si aggiunge l’aiuto bilaterale (umanitario e militare) dei singoli Stati membri.
I medesimi paesi usano anche altri canali per convogliare l’aiuto. Fondo monetario internazionale (circa 20 miliardi di dollari al febbraio 2023), Banca mondiale (circa 16 miliardi) e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (circa 2 miliardi) insieme hanno fornito il grosso dell’aiuto multilaterale. Tale nella forma, perché nella sostanza è sempre aiuto statale sotto diversa specie, di norma in ragione della quota nazionale nel capitale delle suddette istituzioni.
… e cosa ci aspetta
Prima della guerra l’Ucraina era una piccola economia altamente dipendente dal commercio estero, che alla vigilia dell’invasione generava l’83% del suo prodotto interno lordo 3. Stante il blocco del Mar Nero – con parziale eccezione per i flussi di cereali e altre granaglie rientranti nell’«accordo del grano» – l’interscambio con l’estero è diminuito in media di circa un terzo (-35% l’export, -24% l’import 4) e quello con l’Europa è passato dal 40% a oltre il 70% del totale 5, in quanto Ue e Moldova sono al momento gli unici partner commerciali direttamente accessibili.
I danni materiali finora arrecati dal conflitto alle infrastrutture fisiche del paese sono stimati in almeno 135 miliardi di dollari 6, il grosso relativo ad abitazioni (38%), reti di trasporto (26%), impianti di generazione e distribuzione energetica (8%), impianti industriali e commerciali (8%), agricoltura (6%). Stante il carattere relativamente statico assunto dallo scontro dopo il primo, fallimentare tentativo russo d’invasione su vasta scala, i danni si concentrano soprattutto nelle oblast’ dove più si combatte: Donec’k, Kharkiv, Kherson, Zaporižžja, Luhans’k e Kiev (dove la presenza della capitale fa lievitare i danni prodotti dai raid russi). Di questi territori, sono i primi quattro ad aver concentrato il grosso degli scontri e dei danni, il che sinora ha quantomeno concorso a limitare l’estensione territoriale degli stessi.
Il capitale infrastrutturale perso è però solo un aspetto del danno bellico, pertanto il suo ammontare ne è una frazione. Sulla ricostruzione – le cui stime includono l’intero territorio ucraino, essendo le annessioni effettuate da Mosca nel settembre 2022 considerate illegali e dunque non riconosciute – pesano infatti altri, enormi oneri: la rimozione delle macerie, lo sminamento e la bonifica dei terreni, l’attesa inflazione da materie prime, l’aumento dei premi assicurativi, il pregiudizio economico da mancato guadagno e quello sociale connesso ai danni psicofisici sofferti dalla popolazione. Questo al netto di oneri più difficilmente quantificabili ma non marginali, come quello demografico (decessi in e per la guerra, mancato ritorno di una quota della cospicua emigrazione), o quello derivante dalla scarsa permeabilità per merci e persone dei confini orientale (Russia) e settentrionale (Bielorussia) dopo la fine delle ostilità.
Tutto considerato, a febbraio 2023 la Banca mondiale quantificava in oltre 410 miliardi di dollari su dieci anni il costo (in crescita, perdurando il conflitto) della ricostruzione 7. Una montagna di denaro, pari a 2,6 volte il pil dell’Ucraina anteguerra. Il grosso dell’esborso è previsto per trasporti (22%), abitazioni (17%), infrastrutture energetiche (11%), Stato sociale (10%), sminamento e gestione di altri materiali bellici pericolosi (9%), ripristino dell’agricoltura (suoli, impianti, macchinari: 7%). I soli costi di demolizione e rimozione macerie superano oggi i 5 miliardi di dollari. Donec’k, Kharkiv, Kherson e Luhans’k le oblast’ dove al momento, se i combattimenti cessassero domani, si concentrerebbe verosimilmente il grosso degli interventi.
Benvenuto, Mister Marshall
Il primo schema di ricostruzione è stato reso pubblico nel settembre 2022 dal German Marshall Fund statunitense, con l’evocativo titolo: Designing Ukraine’s Recovery in the Spirit of the Marshall Plan. Sottotitolo: «Può il Piano Marshall, tra le iniziative di maggior successo della politica estera statunitense nel XX secolo, essere replicato nel XXI per l’Ucraina? La risposta lapidaria è: sì».
La nostra ipotesi, altrettanto ferma, è: no. Non per disfattismo, ma perché nei 78 anni intercorsi tra il 1945 e ora il mondo è profondamente cambiato. Quella che dispiega il Piano Marshall era un’America retrospettivamente all’apice della sua potenza. Europa, Russia, Giappone e Cina erano in macerie, l’economia statunitense faceva da sola circa metà del pil mondiale. Washington non solo poteva, ma voleva sobbarcarsi la ricostruzione del «mondo libero» perché la riteneva funzionale al proprio interesse nazionale nell’ambito dell’incipiente guerra fredda. Il piano d’assistenza che ne scaturisce vede molti beneficiari a fronte di un unico donatore, tanto da passare informalmente alla storia con il nome del generale incaricato di sovrintenderlo. I vantaggi di queste circostanze in termini di risorse disponibili, propensione a usarle e dunque unitarietà di visione, coerenza strategica e rapidità attuativa sono formidabili, specie se confrontati alla situazione attuale.
La ricostruzione dell’Ucraina, qualunque forma e intensità assuma, dovrà essere uno sforzo concertato da parte di un Occidente (Stati Uniti in primis) molto più indebitato, scettico, diviso ed economicamente multicentrico di prima. Un Occidente alle prese con gli oneri della reindustrializzazione (alias decoupling, o de-risking nella versione europea) ma anche dei cambiamenti climatici, che impongono notevoli costi diretti (danni dei fenomeni metereologici estremi) e indiretti (opere di mitigazione e adattamento). Tutto in un mondo dove la ricchezza è sempre meno in mani occidentali e molto meno in mani pubbliche, dunque dove il concorso del capitale privato – che va convinto, perché comandarlo per fiat governativo ci renderebbe cinesi con gli occhi tondi – è determinante.
È inoltre, questo, un mondo molto più popolato e industrializzato nei suoi modi di produrre, distribuire e consumare beni e servizi. Dunque molto più infrastrutturato, antropizzato e dipendente dai prodotti dell’economia di massa. In un mondo siffatto la guerra, devastando economie a medio-alta intensità di capitale, fa danni molto più onerosi da ripagare. Prima della guerra l’Ucraina era un paese relativamente povero e agricolo, ma come può esserlo una moderna società del XXI secolo in cui il lascito industriale dello stalinismo e il diseguale, ma tangibile sviluppo post-1991 improntava le attività agricole – aventi, appunto, scala industriale – non meno degli ambienti urbani.
Ricostruire un tale paese, grande oltre due volte l’Italia, non implica – come nel Piano Marshall – il salto dal mondo agricolo a quello industriale, ma da un’industrializzazione mediamente arretrata (con notevoli eccezioni, come il settore informatico) a una di punta. Malgrado le economie di scala e i vantaggi del ricominciare da zero, si tratta di un investimento colossale in condizioni di accresciuta competizione internazionale per molte materie prime. Nel 1949 gli Stati Uniti investirono 13,3 miliardi di dollari nella ricostruzione dell’Europa occidentale, pari a circa 160 miliardi odierni. Considerando l’effetto moltiplicatore degli investimenti, in condizioni di pace e sicurezza accettabili la ricostruzione ucraina – innescata da una somma già quasi tripla rispetto a quella, attualizzata, del 1949 – finirà secondo alcune stime per assorbire oltre mille miliardi di dollari 8.
Di dollari? Il Piano Marshall fu erogato da Washington nella propria valuta, contribuendo ad alimentare l’esorbitante privilegio che per decenni ha sostenuto il primato americano. In quale divisa verranno erogati gli aiuti all’Ucraina? Con quali effetti sui tassi di cambio? E sull’indebitamento dei donatori, posto che nessuno di essi ha liquidità sufficiente a finanziare l’Ucraina a debito zero? Quasi nessuno: la Cina dei margini li ha. Ma ogni chilometro di autostrada, ferrovia, pista di aeroporto o banchina portuale costruito da Pechino recherebbe impresso, a occhi occidentali, lo stigma delle nuove vie della seta (Bri, Belt and Road Initiative), che la guerra ucraina ha gravemente menomato nella sua componente terrestre. L’America lo accetterebbe?
Queste considerazioni trovano nella Conferenza dei donatori di Lugano, in Svizzera (il cui primo incontro si è svolto nel luglio 2022), una cartina di tornasole. Tra i sette princìpi che, secondo l’omonima dichiarazione, dovranno guidare la ricostruzione, figurano il «partenariato» – il processo dev’essere guidato dall’Ucraina di concerto con «i partner internazionali», volutamente non specificati – e il «multi-stakeholder engagement», appello in diplomatese ai privati (esplicitamente richiamati più avanti), ucraini e non, perché si sobbarchino parte degli oneri cui i governi, da soli, difficilmente possono (e vogliono) far fronte. Seguono le firme di Albania, Australia, Austria, Belgio, Canada, Cipro, Corea del Sud, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria, nonché quelle dei rappresentanti di Consiglio d’Europa, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, Commissione europea, Banca europea per gli investimenti, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). L’ordine alfabetico dissimula appena la salienza geopolitica, ma è difficile figurarsi Mister Marshall che nel 1953 accetti di condividere con una folla di comprimari gli onori a Villar del Rio.
Qualche riserva sulle riserve
Il Piano di ripresa e sviluppo dell’Ucraina presentato a Lugano dal governo di Kiev prevede che a cofinanziare la ricostruzione siano le riserve della Banca centrale russa sequestrate all’inizio della guerra, il cui ammontare si aggira sui 300 miliardi di dollari. In via di principio la Russia ha un enorme obbligo morale verso il paese che ha invaso e semidistrutto, obbligo che peraltro va crescendo di pari passo con il proseguire e l’intensificarsi della guerra d’aggressione. Sicché appare eticamente fondato trasformare questo debito morale in obbligazione giuridico-economica. Farlo, tuttavia, aprirebbe un vaso di Pandora.
Il grosso dei regimi sanzionatori, passati e presenti, si limitano a requisire asset (beni mobili e immobili, società, denaro) del sanzionato in modo temporaneo, ovvero per la durata del comportamento che causa la sanzione. Facile controbattere che l’uso dello strumento sanzionatorio, specie da parte statunitense, è spesso geopoliticamente motivato e semipermanente: si vedano i casi di Cuba, Corea del Nord, Iran. Questa evidenza non cancella però una realtà di fondo: anche nella pratica di una potenza grande e tendenzialmente bellicosa come l’America, la forma è sostanza. Perché ha implicazioni generali che vanno oltre il rapporto sanzionatore-sanzionato.
Gli Stati Uniti sono sempre più intenti a contrastare un revisionismo che, con metodi e fini variegati, ne mette in discussione l’egemonia. Questa, nella veste in cui si è andata dispiegando dopo la duplice vittoria statunitense del 1945-1989, ha un punto di forza nella (reale o percepita) convenienza della supremazia americana, tanto per l’America quanto per i suoi clientes. Da qui una serie di corollari, tra cui l’importanza dei legami commerciali, l’accento sulle libertà individuali (il «fronte delle democrazie») e il connesso primato dello Stato di diritto a immagine e somiglianza del prototipo a stelle e strisce. Ne scaturisce un «ordine internazionale basato sul diritto», formula che sottende l’esercizio di un’egemonia complessivamente benevola e noncurante (benign neglect) codificata nel canone giuridico, economico e culturale del primus, la cui fuorviante universalità dia agli altri la sensazione di essere pares. In sintesi, il soft power.
Tra gli assiomi dello Stato di diritto che distinguono le democrazie liberali dalla restante e più sfortunata umanità spicca l’intangibilità della proprietà, che consente la certa ascrizione dei mezzi di produzione e della ricchezza che generano. Senza di cui non vi è capitalismo, dunque classe media, dunque democrazia liberale. Siccome il capitalismo, in quanto tale e ancor più nella sua tarda declinazione statunitense, presuppone il commercio internazionale, la certezza della proprietà deve valere anche nelle transazioni estere. In caso contrario, viene meno l’«ordine fondato sul diritto», perché viene meno il diritto. E con esso, cade il presupposto e un potente mezzo del ruolo internazionale dell’America.
L’illuminante trasposizione giuridica di tutto ciò, su cui al momento si arrovellano gli esperti statunitensi ed europei, è la dottrina delle contromisure (countermeasures), parte delle consuetudini internazionali in materia di responsabilità statale per atti considerati ingiusti (wrongful acts) passibili di produrre conseguenze sul perpetrante. Le contromisure sono tra le poche circostanze universalmente ammesse come limite alle conseguenze degli atti «ingiusti». Sono cioè un (tentativo di) argine all’arbitrarietà e sproporzione della rappresaglia. Rivelatore che tra i requisiti delle contromisure adottabili dalla parte lesa e/o da chi la difende vi siano proporzionalità e temporaneità (limitazione della rappresaglia alla durata dell’«ingiustizia») 9. Criteri laschi, ma non del tutto abrogabili senza minare i presupposti del modus imperandi americano.
Tale circostanza si scontra però con le esigenze della deterrenza. Nell’ottica statunitense, consentire alla Russia di farla (relativamente) franca dopo una violazione così palese, prolungata e distruttiva della sovranità territoriale di un paese variamente associato all’Occidente euroamericano, specie dopo il 2014 (annessione russa della Crimea), è parimenti lesivo dell’altro pilastro su cui poggia la potenza americana: la credibilità del suo hard power. Da qui ipotesi fantasiose e vagamente contorte come quella di mantenere requisite le riserve russe dopo la fine delle ostilità a garanzia che Mosca sovvenzioni parte della ricostruzione. Una sorta di fido bancario, che però nel non remoto caso di inadempienza russa riproporrebbero il dilemma originario.
Altra soluzione è contemplata dall’Ue, i cui Stati membri già temono i costi astronomici della ricostruzione ucraina e non paiono granché ansiosi di sostenerli. Si tratterebbe di impegnare per l’Ucraina non già le riserve sanzionate (requisite), bensì i cospicui interessi finanziari che generano 10. Esproprio forse più gentile, ma non scevro dei suddetti caveat.
Quel che i soldi comprano (quasi tutto)
Nella scena iniziale di Servo del popolo, la serie tv del 2015 cui l’ex attore Volodymyr Zelens’kyj deve in non piccola misura il successivo trionfo elettorale, tre oligarchi si spartivano il controllo dell’Ucraina bevendo champagne in un grattacielo di Kiev.
Come noto, dopo il collasso dell’Urss l’Ucraina ha seguito una traiettoria non dissimile da quella russa. Privatizzazioni selvagge e accaparramento di beni pubblici da parte di soggetti che con un misto di scaltrezza, intimidazione e connessioni politiche si trasformano in «oligarchi» ammassando ricchezze spropositate; corruzione endemica; pervasività del crimine organizzato; pesante condizionamento di ministeri, tribunali, finanza, industria, media, servizi di sicurezza e corpi di polizia da parte del nuovo potere politico-economico. Ancora nel 2017 l’Fmi definiva «eccezionalmente alto il livello di corruzione in Ucraina. (…) Ridurlo è essenziale per accelerare il processo di convergenza economica con il resto d’Europa» 11. Una quantificazione di «eccezionalmente alto»: tra il 2014 e il 2015 quasi metà delle 180 banche commerciali del paese, pari a circa un terzo degli asset bancari nazionali, risultava insolvente per 15 miliardi di dollari a causa di pratiche illegali come il falso in bilancio. Valerija Gontareva, governatrice della Banca centrale ucraina tra il 2014 e il 2017, sovrintese una riforma bancaria che portò alla chiusura di 103 istituti. Eppure, alla vigilia del conflitto il 74% del superstite portafoglio bancario restava «non performing» 12.
Sempre prima della guerra risultavano in alto mare le riforme giudiziaria e fiscale, nonché la digitalizzazione delle procedure governative per favorire la trasparenza. Nel gennaio 2023 Zelens’kyj ha lanciato una vivida campagna anticorruzione che ha coinvolto, tra gli altri, figure di spicco come il ministro della Difesa e un suo vice, il capo di Stato maggiore e un viceprocuratore generale. La polizia ha perquisito la casa del miliardario Ihor Kolomojs’kyj, tra i grandi finanziatori elettorali di Zelens’kyj giudicato finora intoccabile, anche se sotto sanzioni statunitensi dal 2021 perché associato a «pratiche significative di corruzione». La stretta rientra nel percorso intrapreso dal paese per ottemperare, almeno sulla carta, alle prescrizioni anticorruzione cui i donatori subordinano l’erogazione degli aiuti presenti, ma soprattutto futuri. Tuttavia è difficile che in piena guerra Kiev faccia ciò che non ha voluto e potuto fare nei vent’anni precedenti (volendo escludere, a titolo di attenuante storica, il decennio nero dei Novanta).
Il problema non è solo di principio, ma pratico. Complice l’inevitabile concentrazione nel governo, già dal 2014, di molte competenze e funzioni a causa delle esigenze belliche – nel 2018-21 la quota di pil in mano pubblica era passata al 6,5%, dal 4,4% del 2010-13 – l’enorme flusso di denaro della ricostruzione sarebbe giocoforza incamerato e gestito dalle autorità centrali. Con quali procedure, controlli, esiti? Difficile dirlo. La non peregrina ipotesi di massicce malversazioni finirebbe per vanificare il proposito geoeconomico della ricostruzione – stabilizzare l’Ucraina e ancorarla all’Europa americana. Inoltre, amplificherebbe le distorsioni insite nell’iniezione di capitali esteri su vasta scala, che al netto di illegalità rischia paradossalmente di obliterare settori dell’industria nazionale poco efficienti già prima della guerra.
Il nodo energetico
Prima della guerra, l’energia nucleare generava circa il 50% dell’elettricità usata in Ucraina. Le rinnovabili nel 2020 avevano superato di poco il 10% della generazione elettrica, mentre il gas generava solo il 7% del fabbisogno elettrico ma pesava per oltre l’80% sui bisogni domestici e di riscaldamento. Il greggio era in buona misura raffinato da impianti interni mentre ora il paese importa la totalità del suo fabbisogno di benzine, essendo le raffinerie distrutte. Con 38,5 trilioni (migliaia di miliardi) di metri cubi di gas, a fine 2020 l’Ucraina aveva riserve accertate tra le maggiori al mondo. Negli ultimi anni, il gas nazionale soddisfaceva circa il 70% della domanda interna, ma i giacimenti sono concentrati per quattro quinti nell’est della oblast’ di Donec’k (il restante 20% del gas è ubicato soprattutto nell’area carpatica e nel Mar Nero), sicché è attualmente indisponibile a Kiev perché in mano russa 13. Pregiudicata dai bombardamenti è anche la rete interna di gasdotti – oltre 38 mila chilometri, una delle più estese al mondo – che dai giacimenti innerva il paese, sicché oggi l’Ucraina dipende paradossalmente dalle forniture di Ungheria, Slovacchia e Polonia. Nel 2022 ha importato da lì un terzo (circa 10 miliardi di metri cubi) del fabbisogno, coprendo il resto con gas proprio. Esistono margini ulteriori, perché la capacità d’importazione ucraina da quei tre paesi è di quasi 20 miliardi di metri cubi l’anno. In prospettiva, ulteriore gas potrebbe essere importato in forma liquefatta dalla Lituania e dalla stessa Polonia.
Ma quale gas? Soprattutto mediterraneo (croato, greco, egiziano e cipriota quando l’offshore dell’East-Med sarà a regime), azerbaigiano o altrui. Non sarà tuttavia un gas economico, perché conteso con un’Europa alle prese con l’ammanco russo. Amara ironia: potrebbe essere anche gas russo se, cessate le ostilità e attenuate le sanzioni – che per parte europea, malgrado gli accesi dibattiti, ad oggi non coinvolgono il gas – la Turchia dovesse prendere a rivendere la molecola di Gazprom agli europei. L’Ucraina finirebbe in tal caso per dipendere dal gas russo – parte del quale magari espropriatole con la guerra – pagandolo di più e senza compensarlo con i diritti di transito, dato che tra il 2005 e il 2020 i transiti di gas russo sul territorio ucraino sono crollati da 136 a 42 miliardi di metri cubi l’anno. Miracolo del tubo baltico Nord Stream, fuori uso dopo il sabotaggio del settembre 2022. Ma se, come appare verosimile, l’import europeo di gas russo via tubo non tornerà ai livelli pre-guerra, i flussi trans-ucraini ne uscirebbero quasi azzerati in modo strutturale. Nel dicembre 2019, una guerra fa, Mosca e Kiev avevano rinnovato l’accordo di transito per 40 miliardi di metri cubi l’anno, ma nel 2022 i volumi sono stati meno della metà.
Hai detto Ue?
Non è chiaro, al momento, se e come l’Ucraina entrerà formalmente nella Nato. Nei fatti per molti versi vi è già ed è una crudele ironia che il valore della deterrenza americana sia messo alla prova in un paese de iure esterno all’Alleanza Atlantica. Ma fin qui, l’ovvio: la difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa implica equipaggiarla con armi e tecniche di standard occidentale, ovvero statunitense. Tanto più dopo che i paesi dell’Europa centro-orientale hanno esaurito gli arsenali di epoca sovietica.
Meno controverso, paradossalmente, appare l’esito dell’ulteriore aspirazione ucraina: l’ingresso nell’Unione Europea. Altra faccia – per Kiev come già per i paesi d’oltrecortina entrati negli anni Duemila – della sfera di sicurezza statunitense, di cui l’Ue è il braccio economico-infrastrutturale. Il 28 febbraio 2022, quattro giorni dopo l’invasione, il governo ucraino presentava formale richiesta d’ingresso. Il primo marzo il Consiglio europeo raccomandava di estendere all’Ucraina lo status formale di paese candidato e il 17 giugno, su richiesta dello stesso Consiglio, la Commissione dava parere positivo. Una settimana dopo, il Parlamento europeo faceva altrettanto e il giorno stesso il Consiglio dava corso alla decisione, concedendo a Kiev l’agognato status. La guerra ha fortemente accelerato una dinamica che preesiste e in buona parte motiva la presa russa della Crimea nel 2014, sulla scia della rivolta di Jevromajdan del novembre 2013 suscitata dalla decisione del governo filorusso di Viktor Janukovyč di sospendere, su pressione di Mosca, le trattative per l’accordo di associazione Ucraina-Ue.
Non occorre scomodare i turchi, il cui iter d’adesione dura dal 1987, per comprendere che la celerità con cui Bruxelles ha prospettato agli ucraini il sol di un’avvenire comunitario è pari solo all’entità della relativa ipocrisia. Un’ipocrisia che rischiamo tutti, ucraini per primi, di pagare cara stante il carico aggiuntivo che mette sul già compromesso equilibrio euroasiatico. La ragione, con buona pace della martoriata Ucraina, sta nei numeri. Come dimostra la crescente insofferenza di Polonia, Slovacchia, Romania (tre dei principali sostenitori dell’Ucraina), Bulgaria e Ungheria verso l’economico grano ucraino che ne ha inondato i mercati per effetto delle misure di sostegno europee, le quali hanno abbattuto i dazi all’export di Kiev nell’Unione.
Nominalmente, quel cibo sarebbe destinato all’Africa in base all’accordo mediato dalla Turchia e volto a scongiurare crisi alimentari indotte dall’ammanco di cereali e fertilizzanti di provenienza ucraina, che insieme agli equivalenti russi sfamano diversi paesi a medio-basso reddito. Di fatto, ha invece beneficiato soprattutto aziende europee. Nel 2022 solo il 17% dell’export ucraino di granaglie è finito in Africa. Il 36% è stato assorbito dall’Ue, il 47% da Turchia e Asia. Le principali destinazioni sono state (in ordine decrescente) Spagna, Cina, Turchia, Italia e Olanda e il grosso di tale export (44%) non è stato grano bensì mais, acquistato in precedenza e destinato in gran parte all’alimentazione animale e alla produzione di biocarburanti 14. Dunque l’«accordo del grano» non ha riguardato principalmente il grano e non è servito a sfamare Corno d’Africa o Maghreb, ma a stabilizzare un mercato europeo stretto dall’inflazione.
Il copione si ripete: delle circa 25 milioni di tonnellate di granaglie esportate nei primi mesi del 2023 dall’Ucraina in base all’accordo (appositamente rinnovato), meno di mezzo milione ha preso la via di Etiopia, Yemen, Gibuti, Somalia o Afghanistan. Il grosso se l’è accaparrato l’Europa. Oltre allo scandalo morale e all’autolesionismo strategico – un’Europa che concorre ad affamare l’Africa con spregiudicate pratiche commerciali difficilmente può poi chiederle di riprendersi i migranti «economici», meno ancora di evitare che partano – la circostanza mette a nudo il cuore della questione.
L’Ucraina era – e auspicabilmente tornerà – una potenza agricola con terre tra le più fertili al mondo. Una volta nella Ue, sarebbe anche il paese più povero e tra i più popolosi (ipotizzando un rientro dei rifugiati che, al netto delle vittime per ora non quantificate, riporti il paese vicino ai 43 milioni di abitanti anteguerra). La Pac (Politica agricola comune) resta il cuore del bilancio europeo, assorbendone da sola circa un terzo. Una Ue che lucra sulle commodities ucraine in piena emergenza e che contempla un parziale, ma clamoroso uso degli asset russi per attenuare il conto della ricostruzione, sborserebbe in permanenza i miliardi necessari a sostenere sine die l’agricoltura di Kiev?
Tutto questo non vuol dire che l’Ucraina non sarà riscostruita. C’è da sperare che lo sia e anche in tempi non biblici, per scongiurarne un’instabilità foriera di altri disastri. Affinché la decantata e propagandata rinascita del martoriato paese non resti però un illeggibile libro dei sogni, occorre anzitutto che la situazione territoriale si stabilizzi, dato che nessuno (governi, privati) è pronto a investire in un teatro di guerra. Poi serve parlar chiaro a chi dovrà, in ultima istanza, mettere mano al portafogli. Cioè a noi tutti, cittadini e contribuenti.
Note:
1. S. Pfeifer, P. Nilsson, «Ammunition supply chain crisis: Ukraine war tests Europe in race to rearm», Financial Times, 7/2/2023.
2. M. Szczerba, «Towards the reconstruction of Ukraine», Rapporto preliminare, Nato – Assemblea parlamentare, Commissione economia e sicurezza, Sottocommissione transizione e sviluppo, 14/3/2023.
3. «Ukraine Trade to GDP Ratio 1989-2023», Macrotrends (su dati Banca mondiale).
4. S. Matuszak, «A year of war in Ukraine’s foreign trade», Osw Commentary, n. 487, 8/2/2023.
5. Y. Gorodnichenko, I. Sologoub, B. Weder di Mauro (a cura di), «Rebuilding Ukraine: Principles and policies», Centre for Economic Policy Research, Paris Report 1, dicembre 2022.
6. «Ukraine – Rapid Damage and Needs Assessment: February 2022-February 2023», Banca mondiale, marzo 2023.
7. Ibidem.
8. «Towards the reconstruction of Ukraine», cit; «Ukraine – Rapid Damage and Needs Assessment», cit.
9. C. Mills, P. Brien, P. Butchard, «Post-conflict reconstruction assistance to Ukraine», House of Commons Library, Research Briefing n. 9728, 16/2/2023.
10. L. Dubois, «EU discusses plan to send profits from €196.6bn of frozen Russian assets to Ukraine», Financial Times, 24/3/2023.
11. D. Sandri, D. Amaglobeli, P. Madrid, I. Luís de Oliveira Lima, «Ukraine», Fmi, Selected Issues, Country Report n. 17/84, aprile 2017.
12. M. Champion, D. Krasnolutska, «Ukraine has decimated its oligarchs but now fears new ones», Bloomberg, 6/4/2023.
13. B. Cahill, L. Palti-Guzman, «The Role of Gas in Ukraine’s Energy Future», Csis (Center for Strategic and International Studies), 13/1/2023.
14. B. Aris, «The EU is not ready for Ukraine», Intellinews, Kyiv Blog, 21/4/2023.