LA ‘GUERRA AI MIGRANTI’ GENERA MOSTRI. IL CASO DEL NIGER

per Gian Franco Ferraris
Fonte: Limes

LA ‘GUERRA AI MIGRANTI’ GENERA MOSTRI. IL CASO DEL NIGER

1. Da quando la cosiddetta «crisi migratoria» ha cominciato a irretire le opinioni pubbliche e i governi del Vecchio Continente in una paranoia identitaria e securitaria, Bruxelles è alla disperata ricerca di una strategia per contenere i flussi di migranti e richiedenti asilo diretti in Europa. Sul fronte orientale l’accordo fra Unione Europea e Turchia siglato lo scorso anno ci ha messo una pezza provvisoria, sebbene l’Ue sia stata costretta a pagare un costo altissimo in termini finanziari, diplomatici, legali e umanitari.

Sul fronte meridionale, tuttavia, è più arduo identificare un partner affidabile a cui subappaltare il compito di contenere i flussi migratori. L’instabilità della Libia, insanabile nei tempi serrati delle scadenze elettorali europee, ha costretto i leader europei a spostare lo sguardo ancora più a sud, risalendo nella rotta dei migranti fino al cuore del deserto del Sahara, in Niger, considerato oggi lo snodo delle rotte migratorie che collegano l’Africa occidentale al Mediterraneo. A partire dal summit della Valletta, a fine 2015, l’Europa ha deciso quindi di puntare tutto sul Niger, e di farne la propria Turchia in Africa. Ambizione alquanto problematica, se si considera che la Turchia è una potenza emergente sotto ogni profilo, mentre il Niger rimane uno degli Stati più poveri e fragili al mondo, ultimo nelle classifiche Onu di sviluppo umano. Ma secondo il calcolo di Bruxelles, proprio la debolezza di Niamey ha rappresentato l’asset su cui investire: le autorità locali non avrebbero potuto disdegnare – si pensava – la pioggia di miliardi che gli europei sono disposti a sborsare pur di mantenere i migranti lontani dagli occhi e dal cuore, e si sarebbero mostrate compiacenti nell’implementare una politica migratoria repressiva per conto terzi. Win-win solution.


carta di Laura Canali

carta di Laura Canali


 

Eppure, gli effetti distorsivi di questo accordo non hanno tardato a manifestarsi. Proprio come in Turchia, il governo del Niger si è reso conto rapidamente dei vantaggi assicurati da una rendita di posizione che lo rende insostituibile agli occhi dei partner europei. Ed è passato all’incasso, chiedendo e ottenendo più soldi, più armamenti, e meno interferenza nella qualità del suo modo di governare. Ne è conseguita una svolta autoritaria di Niamey, a cui l’Europa ha dovuto volente o nolente adeguarsi, cercando di darvi il minor risalto possibile. Questo articolo prova a renderne conto.


2. L’attuale presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, è stato eletto per il secondo mandato quinquennale nel marzo 2016 con oltre il 90% delle preferenze, mentre il candidato dell’opposizione, accusato – abbastanza inverosimilmente – di partecipare a un traffico di minori, era confinato in una prigione nel deserto del Sahara. Critiche si sono levate anche in merito alla trasparenza del processo elettorale. Mentre gli osservatori internazionali europei si sono dichiarati complessivamente soddisfatti, l’opinione pubblica interna ha denunciato brogli, alcuni membri della commissione elettorale indipendente si sono dimessi e l’opposizione ha finito per boicottare le elezioni. Temendo un rovesciamento del verdetto delle urne, in un paese come il Niger avvezzo ai golpe, Issoufou ha cercato di cooptare le opposizioni nell’apparato di governo. L’accesso privilegiato a portafogli chiave ha così permesso di celare dietro un apparente consenso una gestione del potere fondamentalmente clientelare. E a chi ha rifiutato la carota della cooptazione, il bastone della repressione ha distribuito in maniera sempre più generosa provvedimenti disciplinari, avvisi di garanzia e detenzioni preventive.

Per blindare il proprio potere, nel giugno 2016 Issoufou ha nominato un suo protégé alla presidenza della Alta Corte di Giustizia, l’unico organo costituzionalmente deputato a giudicare il presidente della Repubblica: Karidjo Mamadou è stato infatti ministro della Difesa durante il precedente mandato di Issoufou, in una fase in cui l’instabilità regionale ha permesso di convogliare ingenti aiuti internazionali a vantaggio del debole esercito nigerino. Mentre il budget della Difesa si moltiplicava per 15, tuttavia, solo una minima parte degli aiuti internazionali raggiungeva i destinatari impegnati sul campo nella lotta contro al-Qāida nel Maghreb islamico e Boko Haram, entrambi presenti in Niger. Secondo numerosi rapporti, una cospicua fetta degli aiuti sarebbe finita nelle tasche degli alti graduati dell’esercito e del ministero, con la tacita autorizzazione di Issoufou che sperava in tal modo di assicurarsi la fedeltà dei militari. Alla testa del ministero, il patrimonio personale di Karidjo Mamadou è in effetti esploso, anche in virtù di processi di sovrafatturazione di armamenti in cui sarebbe coinvolto, e consta oggi di numerosissime proprietà immobiliari a Niamey.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Al posto di Karidjo Mamadou, Issoufou ha nominato al ministero della Difesa un altro suo fedelissimo, Hassoumi Massaoudou, cofondatore del partito al governo. La sua influenza a Niamey è tale che si dice sia stato proprio Massaoudou, nel luglio 2015, a chiedere e ottenere, con una mossa che ribalta i rapporti di potere postcoloniali, la rimozione dell’ambasciatore francese a Niamey, troppo critico delle derive autoritarie del regime. Da quel momento in avanti, le numerose manifestazioni di protesta della società civile nigerina, che denunciavano la corruzione e il malgoverno di Niamey, rimarranno prive di impatto locale e di eco internazionale. La delicata situazione regionale del Niger, stretto fra le guerre civili ai suoi confini in Libia, Mali e Nigeria, e periodicamente colpito da attentati terroristici nelle regioni periferiche, ha fornito un valido pretesto al governo di Niamey per abusare impunemente di una legislazione antiterrorismo, esplicitamente richiesta da Parigi nel 2011, particolarmente repressiva. Gli spazi di agibilità dell’opposizione politica si sono sempre più rarefatti, le associazioni locali e internazionali di difesa dei diritti umani hanno denunciato violazioni sempre più sistematiche della libertà di espressione e associazione, e nel 2017 si è arrivati al blocco totale delle autorizzazioni a manifestare «per ragioni di sicurezza».

Negli ultimi mesi, tuttavia, uno scandalo di particolare entità ha colpito le autorità di Niamey, e in particolare il ministro Massaoudou, portando a livelli esplosivi la tensione fra governo e opposizione civile. Nel febbraio 2017, un quotidiano locale ha pubblicato le prime indiscrezioni relative al cosiddetto Uranium Gate. Cuore dell’affaire è il giro di vendite sospette, risalenti alla fine del 2011, di un medesimo stock di uranio, estratto in Niger dalla multinazionale francese Areva. Nell’arco di pochi giorni, 2.500 tonnellate di uranio partono virtualmente da Areva, vengono risucchiate in una spirale di fumosissime transazioni, attraversano una serie di scatole cinesi e tornano ad Areva, registrando nel percorso una perdita netta di 100 milioni di dollari per il gigante francese. In un primo passaggio, Areva avrebbe venduto l’uranio a una valutazione nettamente inferiore al prezzo di mercato corrente alla società russa Energo Alyans. Pur risultando completamente priva di esperienza nel settore, Energo Alyans rivende la partita di uranio a una cifra molto vantaggiosa a Optima Energy, filiale libanese di una società svizzera con conto a Dubai presieduta dal magnate francese Jean-Claude Meyer. Dopo aver intascato una plusvalenza di 82 milioni di dollari, Energo Alyans scompare nel nulla. Il giorno successivo, Optima Energy rivende la partita di uranio a un prezzo sovrafatturato di ulteriori 17,6 milioni di dollari alla compagnia nazionale nigerina Sopamin. L’operazione è convalidata da Massaoudou, che pure allora non ha alcun legame formale con la Sopamin. E infatti Sopamin rivende lo stesso uranio ad Areva e nella transazione intasca 850 mila dollari, che sono versati al tesoro pubblico.Ma poco dopo, su richiesta dello stesso Massaoudou, sono trasferiti alla presidenza della Repubblica del Niger, dove da pochi mesi siede Issoufou, di cui lo stesso Massaoudou ha curato la campagna elettorale.


carta di Laura Canali

carta di Laura Canali


 

La commissione d’inchiesta parlamentare nigerina, che viene istituita nelle settimane successive per fare chiarezza su questa partita di giro, non riscontra sorprendentemente alcuna irregolarità. Tuttavia, i deputati dell’opposizione coinvolti si rifiutano di firmare la ricostruzione finale della commissione. Alcuni membri della società civile decidono allora di adire le vie legali e chiedono alla magistratura di fare luce sul caso. Vari ostacoli procedurali vengono opposti all’apertura del dossier: prima si impone il pagamento di una cauzione preliminare di circa 30 mila euro, dopodiché il conto su cui questa cifra è depositata viene chiuso e bloccato, con l’accusa di riciclaggio di denaro sporco. Siamo ad aprile, e la situazione diventa incandescente. Il 3 aprile viene arrestato il giornalista e sindacalista Baba Alpha, da sempre voce critica del governo. L’8 aprile la polizia preleva all’alba uno dei firmatari della denuncia, Maikoul Zodi, leader dell’opposizione e noto rappresentante della rete di società civile Publish What You Pay, che promuove una campagna a favore della trasparenza finanziaria. Vale la pena ricordare che il governo aveva imposto all’ong Oxfam di ritirare l’appoggio a Publish What You Pay e di sostituire la rappresentanza locale con del personale più compiacente. Il 10 aprile, una manifestazione studentesca è repressa nel sangue. La sera si conteranno un morto e più di cento feriti, mentre i leader dei sindacati studenteschi saranno incarcerati. Il mese successivo, un giovane attivista di Agadez sarà arrestato per aver pubblicato su facebook un post in solidarietà agli studenti e agli attivisti di Publish What You Pay. Il 15 maggio, uno dei leader dell’opposizione al regime di Issoufou viene arrestato e condannato a tre mesi di detenzione con l’accusa di incitazione al complotto sovversivo. A fine maggio, un altro portavoce di Publish What You Pay è ripetutamente interpellato dalla polizia giudiziaria, che vuole sapere chi siano i suoi sponsor politici.


3. Nonostante il clima di intimidazione, le persecuzioni giudiziarie mirate e la paranoia securitaria contro ogni forma di opposizione interna, il regime di Issoufou rimane il campione su cui l’Europa ha deciso di scommettere per la lotta a favore della legalità, contro i nemici designati della migrazione irregolare, della criminalità organizzata e del terrorismo in Africa. Invitato d’onore al G7 di Taormina, e poco dopo all’incontro di Berlino in preparazione del G20, Issoufou sembra essere riuscito a persuadere i partner europei della sua buona volontà, o anche solo della sua imprescindibilità. In cambio, ha ottenuto importanti riconoscimenti diplomatici e assegni in bianco multimilionari, risorse cruciali che di fatto gli permettono di rinsaldare il proprio potere a prescindere dalla legittimità interna, e ancor più dagli standard di good governance e rispetto dei diritti umani che fino a ieri rappresentavano il vincolo per l’accesso agli aiuti europei.

Tuttavia, il sospetto che la collaborazione di Niamey nella lotta alla migrazione irregolare sia solo di facciata alimenta il rischio che la politica europea in Niger si traduca in un completo fallimento. Anche a prescindere dalla discutibilità dei fini, i mezzi messi in campo per conseguirli rischiano di rivelarsi inutili, se non controproducenti. Al di là delle dichiarazioni magniloquenti nelle sedi diplomatiche, i numeri dei migranti in arrivo sulle coste italiane nel 2017, anziché diminuire, sono aumentati quasi del 50% rispetto al primo semestre del 2016. Sebbene i flussi attraverso gli snodi più ovvii del traffico di migranti in Niger abbiano registrato una flessione nel corso degli ultimi mesi, numerosi indizi segnalano che le carovane di migranti sempre più frequentemente sperimentano nuove strade nella vastità incontrollabile degli spazi desertici del Sahara, sia in Niger, sia nei paesi vicini, come Ciad e Mali. In cambio, il ricorso obbligato a passaggi periferici su mezzi precari, attraverso aree pericolose, espone i migranti a rischi crescenti. Sicché, se non diminuisce il numero di migranti che attraversano il Sahara, di certo aumenta il numero di quelli che muoiono provandoci, il che per ora rappresenta l’unico risultato dimostrabile – e tutt’altro che imprevedibile – delle politiche migratorie repressive sponsorizzate dall’Unione Europea in Niger. Mentre la sorveglianza europea e la repressione locale si concentrano sulla città simbolo di Agadez, in una serie di episodi senza precedenti fra maggio e giugno sono stati ritrovati più di duecento migranti finiti en panne sui percorsi meno battuti del deserto, a nord di Arlit e a ovest di Dirkou, dove facilmente soccombono per sete.

Nel frattempo, i passeurs di Agadez si sono organizzati per esprimere alle autorità la loro frustrazione nei confronti di una repressione che colpisce un mestiere largamente ritenuto legittimo, senza offrire reali prospettive d’impiego alternative. L’agitazione dei disoccupati locali desta particolare preoccupazione, dal momento che proprio l’industria della migrazione aveva consentito di riassorbire nella vita civile – per quanto in maniera informale – numerosi ex ribelli tuareg e tebu, addestrati solo a combattere e guidare. La scoperta di ricchi giacimenti d’oro nel Nord del Niger nel 2014, dove alcuni ex combattenti ed ex conducenti sono andati a cercare fortuna, ha fornito una provvisoria quanto miracolosa attenuazione di tali tensioni. Ma il rapido esaurimento dei filoni e la chiusura decretata dal governo di Niamey espongono la precarietà di una situazione sociale esplosiva. Non ci sarebbe quindi da sorprendersi se, nei mesi a venire, Niamey decidesse sottobanco di allentare la stretta sul business della migrazione, per evitare di istigare tentazioni eversive presso le popolazioni del Nord. A settembre 2016, quando ancora la repressione di Niamey si concentrava in maniera selettiva sui soli trafficanti di origine tebu, la proclamazione da parte di questi ultimi di un fronte armato di autodifesa ha immediatamente fornito la misura degli interessi in gioco. Issoufou sa bene di non potersi permettere di scontentare in maniera analoga i tuareg, più numerosi ed organizzati, né tantomeno i ricchissimi trafficanti di origine araba, che finanziano generosamente il suo partito. Già in passato Issoufou è ricorso a un astuto dosaggio di fasi restrittive, per accontentare il finanziatore europeo, e di fasi permissive, destinate a placare il fronte interno.


4. Irretite dall’ossessione del «problema migratorio», le politiche europee non sembrano dunque all’altezza della situazione, giacché rivelano una limitata sensibilità al contesto politico-sociale del Niger. Contemporaneamente, la lista delle priorità finisce per relegare nel dimenticatoio ogni altra forma di traffici, che pure abbondano nel territorio nigerino, il cui potenziale destabilizzante appare ben più preoccupante e reale. Mentre le forze di polizia di Agadez, su ordine dall’asse Niamey-Bruxelles, dedicano le limitate risorse disponibili a ostacolare la migrazione verso la Libia, sotto i loro occhi ogni settimana partono da Agadez, indisturbati, almeno una decina di convogli di narcotrafficanti che trasportano in Libia cocaina e oppiacei, come riconosce lo stesso ministero dell’Interno. A inizio maggio, a sud di Agadez, delle milizie fedeli a Niamey hanno intercettato un convoglio di 11 veicoli carichi di cocaina, 10 dei quali sarebbero riusciti a sfuggire. Nella stessa area, in un paio di mesi la polizia ha intercettato decine di chili di sostanze stupefacenti, fra cui in particolare il Tramadol, per un valore di diversi milioni di dollari. E un fiorente traffico di medicinali falsi dalla Nigeria sta seriamente compromettendo gli sforzi per arginare l’epidemia di meningite che affligge il paese dall’inizio del 2017.

Sebbene sia comprovato che il riciclaggio dei profitti del narcotraffico possa infettare profondamente l’economia del paese, propagare la corruzione e alimentare focolai insurrezionali di varia natura, non risulta che i paesi europei abbiano profuso nella lotta al narcotraffico lo stesso impegno dedicato nella lotta contro la migrazione irregolare. D’altronde, proprio l’esempio della «guerra alla droga» dovrebbe suggerire a dei policy-makers avveduti che politiche puramente repressive rischiano di risultare poco incisive, nella migliore delle ipotesi, se non apertamente controproducenti. Eppure, le recenti conclusioni del Consiglio europeo esprimono una valutazione sorprendentemente positiva delle politiche migratorie adottate sul fronte africano, il che sottolinea la crescente distanza fra le intenzioni, la realtà dei fatti e la retorica. L’autocompiacimento di facciata di Bruxelles, destinato a placare le ansie delle opinioni pubbliche europee, potrà forse rivelarsi appagante nel breve termine delle scadenze elettorali, ma rischia di scaricare maggiori e più gravi problemi sul medio periodo. Ovvero, sul prossimo governo, e sulle prossime generazioni di europei e di africani sempre più disincantati. La «guerra alla migrazione irregolare» non ha ancora finito di generare i suoi mostri.

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