La Germania: il problema d’Europa?

per Gian Franco Ferraris

La Germania: il problema d’Europa? (nuova edizione)

di Gabriele Pastrello

1. Deutschland, as ever (come sempre).

Si parla molto del neo-mercantilismo tedesco, cioè dell’ossessione tedesca per un avanzo di bilancia commerciale. Peraltro, fase moderna della strategia enunciata da Friedrich List, economista tedesco di metà Ottocento che aveva propugnato la chiu­sura economica come mezzo di difesa dalla potenza espansiva inglese, e di costru­zione della potenza economica nazionale, previa a una successiva espansione sui mercati mondiali (strategia seguita puntualmente anche dal Giappone, come mostrato da un grande economista, Morishima).

In realtà è molto più di questo. Questa strategia commerciale è oggi solo un aspetto di una strategia economica, ma anche sociale e politica, nota come Sozialemarktwirts­chaft, Economia Sociale di Mercato. La cui formulazione risale al Ministro delle Fi­nanze Ludwig Ehrard, Ministro delle Finanze dal 1949 al 1963 e Cancelliere dal ’63 al ’66. È interessante questa coincidenza: la Germania veniva ricostruita sotto l’ege­monia liberale dal ’49 al ‘63, ma anche l’Italia sperimentava il suo miracolo economico dal 1948 al 1963 – la cui fase più ‘liberista’ impostata da Einaudi, Mini­stro delle Finanze, poi Governatore di Bankitalia e poi Presidente della Repubblica, dal 1947 al 1955 – coincise con la stagione politica del ‘centrismo’. Il 1963 fu un anno cruciale, finiscono fasi politico-economiche ‘liberali’ sia in Germania che in Italia: il centrosinistra incomincerà in Italia nel ’64, la Grosse Koalition in Germania nel ’66.

A sua volta la Sozialemarktwirtschaft origina dalla concezione detta ordoliberali­smus, elaborato da un gruppo di liberali sotto la guida dell’economista Walter Euc­ken, sotto il nazismo. È in quell’ambito che presumibilmente nasce la costruzione ideologica e autoassolutoria, tuttora sostenuta dai gruppi dirigenti tedeschi (Schäuble lo sostenne sul Financial Times ancora nel 2012), che fu l’iperinflazione del ’22-23 a essere all’origine dell’ascesa di Hitler.

La costruzione è autoassolutoria perché fu in realtà la disoccupazione di massa creata nel biennio ’31-32 dal Cancelliere Brüning, seguace della vera ossessioneliberale per la finanzasana, ad aprire le porte all’esplosione del partito nazista (fino al ’29 praticamente ininfluente). La costruzione è ideologica, perché una delle sue conse­guenze è un’attenzione spasmodica alla dinamica salariale (soggetta tuttora in Ger­mania al controllo di un Comitato di Saggi), come se questa fosse all’origine dell’ipe­r­in­flazione dei primi anni Venti. Non fu così: l’iperinflazione fu originata dal crollo dello Stato tedesco dopo la sconfitta del 1918, e dalla necessità di finanziarne il fun­zionamento praticamente senza entrate, come si dice: stampando moneta (una ec­cellente ricostruzione e interpretazione non ortodossa degli eventi la si trova ne La Riforma Monetaria di John Maynard Keynes).

Da cui una strategia complessiva di crescita che a buon diritto si può chiamare anti-keynesiana; tra i fattori della crescita tedesca non sono mai stati annoverati né il defi­cit del bilancio dello Stato (semmai, solo occasionale), né la crescita salariale, trainata dalla crescita e non trainante. La Germania, si può dire, è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali. Il mondo cresceva grazie a quelle, e così le esportazioni tedesche. Il modell Deutschland si basava su export e progresso tecnico. Il progresso tecnico, innanzitutto, grazie all’aumento di produttività (che rende più competitive le esportazioni) permetteva di controbilanciare l’apprezzamen­to del marco (dovuto agli avanzi commerciali), come capitò anche alla Gran Bretagna nell’Ottocento); apprezzamento che a sua volta rendeva più economiche le importazioni. All’interno, l’aumento di produtti­vità veniva distribuito anche grazie alla Mitbestimmung, il coinvolgimento dei sinda­cali a livello a­ziendale. L’export (e gli investimenti produttivi che ingenerava) era il principale motore della domanda. (Nei primi anni Ottanta, il G7 fu teatro di infinite e inconcludenti diatribe tra USA e Germania; dove i primi chiedevano inutilmente alla seconda di assumere un ruolo di locomotiva – cioè importare di più – per far uscire l’economia mondiale dalla recessione di quegli anni. Più o meno come certe discus­sioni di oggi).

Ovviamente, in Germania era visto come il fumo negli occhi la politica di svaluta­zione, innanzitutto italiana, ma anche francese o britannica. Indubbiamente, serpentemonetario prima e euro poi, oltre che modalità di avvicinamento all’unificazione europea, sono sempre state viste in Germania come strategie per impedire ai paesi concorrenti sva­lutazioni competitive. Mentre le regole di Maastricht avevano come obbiettivo di omogeneizzare le politiche fiscali, di modo che i differenziali di crescita derivassero principalmente da variabili reali: investimenti, produttività e export (costringendo a minimizzare il contributo dell’impulso fiscale). Il rispetto di que­sti obbiettivi ha imposto, non solo all’Italia, politiche di aggiustamento (tagli di spesa pubbliche e più tasse); tuttavia, una volta raggiunti i livelli prescritti, il loro rispetto fino al 2007 era esercitato con una certa flessibilità (anche perché pure la Germania era tra i peccatori). Non solo, ma la strategia monetaria dell’euro sembrava avere successo. I cosiddetti spread (le differenze tra l’interesse sui titoli tedeschi e su quelli degli altri paesi) dal 2000 al 2007 erano a livelli minimi, e i saldi TARGET2, cioè l’ammontare annuale di riserve che le banche centrali nazionali devono cedere alla (o ottengono dalla) BCE per via di squilibri annuali della bilancia di pagamenti (differenza tra esportazioni e importazioni annuali, più la differenza tra entrate e uscite di capitali del periodo), erano molto ridotti (l’Italia fino al 2011 aveva perfino avanzi positivi, nonostante il deficit commerciale).

Mi sono un po’ dilungato in questi aspetti ‘tecnici’, perché la crisi 2008-09 ha fatto saltare gli equilibri, ma soprattutto perché la risposta tedesca (radicata nella sua filo­sofia politico-economica di lungo periodo) ha cambiato drasticamente gli equilibri economici e politici in Europa. La svolta è avvenuta quando, nella primavera 2010, la Germania di fatto decretò il fallimento della Grecia, sorprendendo banche europee e mercati finanziari che non ci avevano creduto fino alla vigilia (sennò perché mai si sarebbero imbottiti di titoli greci?).

Non solo, ma tra il 2011 e il 2012 la Germania impose a livello europeo un’accelera­zione per il raggiungimento dell’obbiettivo del pareggio di bilancio che era rimasto non del tutto definito dopo Maastricht (da cui il fiscal compact, il six packs e il two-packs). L’occasione fu l’attacco dei mercati ai debiti pubblici (detti sovrani); la Germa­nia sostenne che la ragione dell’attacco era il disordine fiscale dei paesi in questione (soprattutto Spagna e Italia; la Grecia era ormai fuori gioco), e che quindi innanzi­tutto bisognava ‘metter ordine nei conti’ per rintuzzare l’attacco. Conti a posto, si so­steneva, necessari per poter ripartire. E inoltre, visto che la svalutazione era impossi­bile, si raccomandava ai paesi la ‘svalutazione interna’; espressione pudica per ‘ta­glio di salari’; taglio indiretto (in Grecia era stato diretto) sulle retribuzioni, via ri­forme del mercato del lavoro, o indiretto sul salario ‘reale’, via riduzione del welfare, come anche Draghi sosteneva che fosse necessario nel gennaio 2012 in un’in­tervista al Wall Street Journal.

La diagnosi si rivelò falsa e pretestuosa. Sotto attacco era l’euro in quanto tale, e l’attacco ai debitisovrani era solo la strada per divaricare l’area dell’euro e costrin­gere a una rottura della zona monetaria (peraltro tra il 2011 e il ’12 erano circolate tesi in Germania favorevoli alla rottura della zona; evidentemente i mercati ci conta­vano: infatti, fino a maggio 2012 i bookmaker di Londra davano per sicura l’uscita della Grecia dall’euro). Che la diagnosi fosse falsa lo si vide quando nel luglio 2012 Draghi mise fine alla speculazione con la famosa dichiarazione: “farò tutto quello che è necessario” per impedire la rottura dell’euro. Ma fino alla primavera 2012, Weid­mann e la Bundesbank avevano continuato a sostenere che l’austerità fiscale (peraltro gabellata come espansiva) era l’unica strategia da perseguire, arrivando a un passo dalla rottura dell’euro e del naufragio dell’Europa. Più si continuava nell’austerità, infatti, più le condizioni peggioravano e l’attacco ai debiti sovrani cresceva (fino a che Draghi non lo fermò passando a minacciare contro-mi­sure monetarie).

Peraltro, il momento scelto per il cosiddetto ‘consolidamento’ fiscale (cioè: tagli) non poteva essere peggiore. Già Keynes durante la Grande Depressione, e Krugman oggi, hanno sostenuto, inutilmente, che il tempo dei tagli è quello della ripresa, non quello della recessione. Perfino il FMI, ma solo dopo però, ha sostenuto che la tesi dell’«au­sterità espansiva», con cui vennero giustificate le misure, era una bufala. Ma il risul­tato furono ulteriori anni di recessione dopo quelli immediatamente la crisi. Il risultato fu una subordinazione dei paesi sotto attacco, in quanto bisognosi di ‘bene­volenza’ da parte delle istituzioni comunitarie, e quindi di Berlino, per avere sostegno finanziario, sia per le crisi bancarie (soprattutto la Spagna) che fiscali. Inoltre la ‘svalutazione interna’ che, perseguita esplicitamente o implicitamente, ebbe luogo, favoriva le catene del valore europee a cui capofila stavano le industrie tedesche, ren­dendole più competitive sui mercati mondiali.

Sembrava, prima delle elezioni, che anche negli ambienti della destra europea si fosse accettato che bisognava fare una svolta e chiudere la fase dell’austerità. Schulz aveva parlato di modifica degli accordi e di necessità di un nuovo approccio. Ma sia le vi­cende delle ultime fasi della campagna, che quelle subito dopo le elezioni indicavano che in realtà non c’era affatto consenso sull’entità delle misure, e che invece si stava affermando l’idea che sarebbe stata sufficiente una svolta minima sia nell’immagine, Juncker, e non Schulz, al posto di Barroso, ma anche come misure da adottare.

Come era da temere questo minimo sembra essere proprio solo il minimo. Nonostante le roboanti richieste di Renzi sia in fase pre- che post-elettorale: investimenti, allenta­mento del rigore e cose del genere. Richieste peraltro più di effetto, secondo lo stile dell’uomo che efficaci: basti pensare che Renzi ha menzionato 240 miliardi di euro di investimenti, quando l’entità dell’emissione di eurobonds, stimata dai proff. Prodi e Quadrio Curzio, necessaria per un rilancio effettivo dell’eurozona,ammontava a 2000-3000 miliardi di euro. Le recenti e ripetute dichiarazioni di Schäuble, e Weid­mann, indicano che per il momento l’unica misura correttiva dell’austerità ac­cettata è la politica monetaria espansiva di Draghi. Niente eurobonds, niente o po­chissima tolleranza fiscale, quantomeno per il momento; su investimenti qualcosa ci sarà, pen­so, ma non è ancora chiaro cosa e quanto. Immagino che prima si aspetterà di veder l’esito delle misure monetarie di Draghi.

D’altra parte, non credo ci si possa aspettare molta duttilità da un gruppo dirigente come quello tedesco che è stato capace di arrivare fino a un passo dal crollo dell’eu­ro, e di tutta l’Europa, pur di continuare a sostenere la propria linea di politica economica e di non recedere dalla propria filosofia ‘liberista’ sulla crisi: colpa della ‘prodigalità’ fiscale, così come negli anni Trenta Hayek sosteneva che la crisi del ’29 fosse dovuta a un eccesso di consumi. (Lo stesso Hayek, grande ispiratore, per quanto poco noto, degli assetti dell’euro; come dichiarato dall’economista tedesco, Otmar Is­sing, che aveva partecipato alla costruzione di quegli assetti).

2. Germania/Europa comePrussia/Germania?

Ma lo stimolo fiscale, si o no, non è l’unico tema sullo sfondo.

Dobbiamo tornare al biennio 2010-11, cioè al lancio dell’austerità espansiva e la sua imposizione a tutti i paesi con una serie di patti di cui il più noto è il fiscalcompact, e ci dobbiamo tornare per valutare soprattutto le sue conseguenze o meglio ancora certe sue implicazioni politiche.

Non era in ballo solo la dogmatica economica anti-keynesiana. Una delle conseguenze inevitabili dell’imposizione dell’austerità a paesi in difficoltà portava con se la cosiddetta ‘svalutazione interna’. Cioè, visto che l’appartenenza all’area euro impediva la svalutazione della moneta come mezzo per recuperare competitività, restava solo la riduzione dei salari, come misura compensativa di una perdita di competitività. Nel 1919 Keynes si pronunciò duramente contro il Trattato di Versailles perchè sosteneva che la Germania avrebbe dovuto sottoporsi a questa politica, che avrebbe provocato reazioni sociali e sconvolgimenti politici (che ci furono). Non fu ascoltato, anche se lui allora temeva soprattutto il contagio della rivoluzione russa. Solo Keynes parlò contro le Riparazioni, mentre molti politici, francesi e inglesi i davano di gomito come dicessero: certo che sono riparazioni impossibili, ma bisogna tenere la Germania sotto pressione; poi si sa che dovremo lasciare che le soddisfi.

Pare quasi che, per una specie di ironico contrappasso tedesco, le richieste del fiscal compact che chiede il raggiungimento del pareggio di bilancio ma soprattutto la riduzione del rapporto debito/PIL mediante accantonamenti annuali per i prossimi venti anni (che per l’Italia assomerebbero a circa il 70% del PIL) abbiano quasi le stesse caratteristiche che ebbero per la Germania le richieste del Trattato di Versailles: impossibili da attuare, ma utili per tenere i paesi ‘prodigali’ sotto pressione.

Nell’occasione dell’accelerazione del rispetto dei Trattati di Maastricht post-2010, la Germania emerse come la potenza guida. Da decenni la Germania era riconosciuta come la potenza economica dominante ma, si diceva, la leadership politica restava alla Francia, nell’asse franco-tedesco. In occasione della discussione e dell’imposizione del fiscalcompact ai paesi europei, fu la Germania invece a emergere come forza politica (anche se il campo restava formalmente economico). E molti si chiedevano quali erano gli interessi strategici della Germania in questa vicenda. La conclusione, abbastanza diffusa, fu che l’indeboli­mento delle economie dei paesi del Sud, fissava il ruolo di questi paesi come subfornitori (grazie alla ‘svalutazione interna’) nella linea del valore guidata dalle grandi imprese tedesche.

E questo poneva un’altra domanda sul significato delle oscillazioni tedesche circa i passi che da più parti si ritenevano necessari per avviarsi verso un assetto federale dell’Unione Europea. Molti sostengono che in qualche modo i debiti pubblici nazionali dovrebbero diventare europei (seguendo l’esempio americano post indipen­den­za), ma la Germania era ed è strenuamente contraria. Draghi ha delineato un progetto di unificazione bancaria, non dico svuotato, ma limitato severamente nella sua portata proprio dalla Germania. per non parlare della politica monetaria, che nella visione tedesca doveva avere ambiti molto circoscritti (solo la necessità di salvare l’euro permise a Draghi di andar oltre quei limiti).

Però, d’altra parte, al di là degli sgradevoli aspetti di dipendenza economica che facevano capolino (e anche di più), tutta la linea della politica fiscale in effetti andava nella direzione di un’unificazione fiscale, cioè verso un assetto federale (anche se la mancanza di trasferimenti fiscali alle aree deboli, come in tutti i paesi federali o meno, rende questa politica troppo rigida, come si è visto, e quindi le aree deboli troppo fragili). Al di là delle dichiarazioni della Merkel di tipo federalista, sorgeva la domanda se davvero la Germania voglia andare in quella direzione o, come pensano alcuni, preferisca restare nella comoda situazione di un’egemonia di fatto senza assumersene responsabilità esplicite.

Ma forse questa tesi non tiene conto dell’esperienza storica cruciale dell’unificazione tedesca nella seconda metà dell’Ottocento. Anche allora il processo andò avanti con lentezza, fu farraginoso, e basato quasi esclusivamente su processi di unificazione economica: l’unificazione doganale (lo Zollverein). Ma allora il processo accelerò quando la Prussia, dopo il 1870, fu in grado di imporre la propria egemonia senza che gli staterelli tedeschi (del Sud, guarda caso) potessero opporre alcuna resistenza.

Viene da chiedersi se la Germania forse non sia tanto contro uno stato federale europeo in quanto tale, ma piuttosto contro uno stato federale che non veda la sua egemonia. L’esperienza storica lo suggerisce (e anche le vicende dell’unione bancaria: la Germania non è contraria a un’unificazione bancaria, è contraria a che istituzioni non tedesche mettano il naso nel sistema bancario tedesco, profondamente intrecciato con quello politico. Un ostacolo rimuovibile, anche se non facilmente).

Non si può aver nulla contro l’egemonia tedesca in quanto tale. Se la Germania si comportasse come gli USA dopo la seconda guerra mondiale, che garantì condizioni di crescita per tutti, la questione dell’egemonia tedesca rientrerebbe in binari normali. La Germania è un grande paese, oltre che un paese grande. Grandissima cultura, grandi capacità tecniche. Aspira legittimamanete a un ruolo di guida. Poi lo conquisterà se ne sarà capace. Ma tutto ciò è normale. Se invece pensa di poter imporre la sua egemonia subordinando le economie di altri paesi, imponendo politiche che li impoveriscono, allora è tutt’altra questione.

Vediamo riemergere fantasmi del passato. Anche se per fortuna ci sono politici tedeschi che hanno messo in guardia contro queste tentazioni: Joschka Fischer e il vecchio Helmut Schmidt, ex-cancelliere socialdemocratico. Ma desideremmo che fossero più ascoltati.

3. L’austerità del post-austerità.

Pochi ricordano, o hanno notato, che la stessa austerità fu ‘venduta’ con una retorica di ‘crescita’. Lo slogan era l’austerità espansiva (come la castrazione fecondante). Partendo dalla constatazione dell’esplosione di forti deficit nei bilanci di Stati europei si diceva che per uscire dalla crisi innanziutto bisognava ‘fare i compiti’, mettere a posto i conti, premessa necessaria per una futura crescita (additando la Germania come il fulgido esempio da seguire). La crescita sarebbe seguita stabile e continua.

Nel febbraio 2010 la linea fu adottata dall’ECOFIN, chiamando l’autore della teoria, Alesina di Harvard, a esporla (teoria, poi, ma solo nel 2012, bollata come infondata dal FMI). Secondo la teoria i tagli avrebbero euforizzato i mercati finanziari, generando aspettative di riduzioni di tassi di interesse, togliendo l’impedimento all’espansione degli investimenti costituito dall’ampia spesa pubblica (ma questo può essere vero in pieno impiego – in tempo di guerra -, ma con il 20-25 % di capacità inutilizzata, come nel 2010, non c’e alcun bsogno di tagliare la spesa pubblica per aumentare qualsiasi cosa, o consumi o investimenti; questo era il nocciolo della critica di Keynes alle stesse politiche proposte dopo il 1929; le destre mondiali non perdono nè il pelo nè il vizio).

Solo nel 2012 il FMI e altri mostrarono che i cosiddetti effetti positivi erano ampiamente sopravvalutati e quelli negativi, recessivi, sottovalutati. e, infatti, in quattro anni abbiamo avuto un arco di recessioni da catastrofiche (Grecia) a ampie (Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda, e altre adesso più lievi, Olanda e Francia). la Germania ha evitato le conseguenze della recessione europea (dovute al calo delle esportazioni intraeuropee) accelerando le vendite in Estremo Oriente.

È vero che ha il bilancio dello Stato in pareggio, ma questo non ha nulla che vedere con i suoi risultati positivi (dovuti alla produttività dell’industria; peraltro, i suoi salari sono più alti dei nostri). Il bilancio in pareggio è una scelta di lungo periodo della Germania, che da tempo immemore basa la sua crescita sulle esportazioni (il neo-mercantilismo) tenendo frenata la domanda interna, e quindi dando poco impulso alle economie europee, oggi in crisi. Non si tratta di regalare soldi. Basterebbe comprare, spendere per sè. Ma i governi tedeschi non lo vogliono fare. Dopo anni di questi risultati negatìvi, dopo le critiche devastanti del Fondo, ma soprattutto dopo che dal 2012 ha cominciato a crescere politicamente il fenomeno degli euro-scettici, ulteriormente espanso nel 2013, fino ai risultati odierni, anche la dirigenza tedesca si è convinta che bisognava cambiare. ma quanto?

Qui bisogna partire dall’esistenza di un dogma, stabilito all’uscita della crisi delle politiche keynesiane alla fine degli anni Settanta. Mai più Keynes, mai più ruolo trainante alla spesa pubblica, mai più livelli d’occupazione trainati dalla spesa pubblica. Se proprio in tempi di catastrofe si deve fare un po’ di spesa pubblica (vedi Obama negli USA), la si deve smettere al più presto e incominciare a tagliare (questa è la linea europea, Obama è stato più cauto). E così fu fatto in Europa. Ma non si è verificata nessuna espansione. E allora qualcosa bisogna fare.

Ed infatti qualcosa è già stato predisposto, che possa dare un certo rilancio all’econo­mia europea, ma senza toccare il dogma di base. Già da mesi, infatti Draghi ha annunciato un intervento di QuantitativeEasing, come si dice. cioè di inondare il mercato di liquidità (comprando titoli). L’obbiettivo dichiarato è portare verso lo zero i tassi di interesse, e sostenere il finanziamento di piccole e medie imprese (magari con un po di moralsuasion verso i sistemi bancari). Poi c’è la conseguenza ovvia, anche se non dichiarata, della svalutazione dell’euro (anche se questa ritarda dopo le prime misure annunciate da Draghi). Il che’ rilancerebbe le esportazioni. quindi, una riconferma in realtà della linea neo-mercantilista tedesca. I paesi più indeboliti comunque non possono svalutare verso la Germania, restando nell’euro, ma la svalutazione verso l’esterno dovrebbe comunque aiutare tutti, o comunque quelli maggiormente in grado di approfttarne. E la Germania sicuramente lo è. E quindi si capisce come mai la Bundesbank, fiera avversaria delle politiche monetarie di Draghi, questa volta abbia dato il suo consenso preventivo.

Che questa misura sia pensata proprio per sostenere una ‘svolta’ nella politica della Commissione Europea lo conferma il fatto che pur essendo stata annunciata da mesi la sua messa in atto è prevista solo per i mesi a venire, con la nuova Commissione, anche se magari sarebbe stato meglio farlo già. Ormai da mesi il pendolo della retorica europea si è spostato verso: adesso crescita. Ma non si è mosso da: niente stimolo fiscale e niente emissione europea di titoli, gli Eurobond, per finanziare progetti europei in infrastrutture o anche progetti nazionali di rilancio. Il fatto è che molti paesi, a cominciare dalla Francia, ma anche l’Italia, avrebbero bisogno prima di tutto di un rilancio della domanda interna, che riparasse le situazioni più sofferenti, per poter essere in grado meglio di affrontare anche lo stimolo dato dalla svalutazione dell’euro. Ma di questo non si vede traccia.

Peraltro quando si parla di politiche dell’occupazione l’oriz­zonte non si discosta mai dall’ortodossia europea e mondiale che l’occupazione va stimolata aumentando la flessibilità del lavoro (il JobsAct è in questo alveo), e non stimolando la domanda. È un politica cugina stretta dell’austerità espansiva: maggior libertà di licenziare per assumere; questo è il mantra.

4. L’amico americano in visita (per sempre?)

Se questi sono problemi abbastanza visibili, si sta però preparando nel riserbo, per non dire quasi nel segreto, una svolta nei rapporti USA-Europa che può cambiare radicalmente il quadro non solo europeo, ma mondiale.

Ancora più sullo sfondo, infatti, si intravvede un oggetto misterioso: il Trattato Transatlantico di Cooperazione per gli Scambi e gli Investimenti (TTIP, TransatlanticTrade and investment Partnership). Se ne sa pochissimo. A occhio si direbbe che dovrebbe essere una cintura deterrente contro Cina e Russia (che infatti si stanno avvicinando). Già questo rende le cose poco chiare: la Germania ha da tempo sviluppato un’intensa di presenza e accordi economici con la Cina, e di cooperazione strategica sulle fonti energetiche con la Russia (NorthStream). E allora?

Ma a parte i corposi interessi tedeschi (e non solo) che potrebbero entrare in collisione con gli obbiettivi del patto, c’è un problema di fondo, che a me pare non venga preso in considerazione, che l’entrata in contatto di due aree storicamente così diverse come quella americana e quella europea, potrebbe avere effetti esplosivi.

Infatti, anche se è vero che dal punto di vista della dogmatica economica le élites europee non sono meno liberiste di quelle statunitensi, va detto che c’è tutto un ambito istituzionale che le divide, e che invece potrebbe essere estremamente rilevante anche per gli sviluppi economici futuri.

Infatti tutta la costruzione europea si basa sul principio che anche il mercato, per quanto libero nei suoi movimenti propri della sua area, si debba muovere all’interno di un quadro di ‘civiltà giuridica’ il cosiddetto acquiscommunitaire che viene richiesto a ogni paese di rispettare per poter entrare. Si tratta dell’idea che, a parte una serie di de-regolazioni, in linea di principio gli ambiti non strettamente di mercato debbano invece essere regolati per mantenere un’omogeneità europea intorno a certi ‘valori’.

Questa regolazione, tra l’altro, è stata vista nei decenni precedenti come un fattore potente di omogeneizzazione dell’area europea anche al di là delle volontà dei singoli Stati e popoli. La filosofia delle burocrazie europee è stata quella, in un certo senso, di costringerci a diventare ‘europei’ attraverso una regolazione minuziosa dei nostri ambiti di vita. Il risultato è stato quello di produrre anche una burocratizzazione invadente. Ma l’obbiettivo era ed è squisitamente politico, in senso federale: cioè farci diventare ‘europei’ insieme, anche a nostra insaputa, e perfino malvolentieri.

Cosa succederebbe se quest’area così regolata venisse in contatto con un mondo socialmente basato invece sulla filosofia della deregolazione e dell’intervento quanto più limitato possibile dell’autorità dello stato nell’ambito die rapporti sociali? D’altra parte se l’obbiettivo del Trattato è liberare il movimento economico tra le due sponde dell’Atlantico è impensabile che le richieste delle grandi multinazionali, che sicuramente orientano e guidano questo processo, non sia quello di adeguare le condizioni europee a quelle statunitensi, per quello che riguarda mercati finanziari, bancari, del lavoro etc.

Ad esempio, se infatti a prima vista stupisce l’insistenza di molti ambienti in Italia, compreso Confindustria e la Presidenza del Consiglio, sulla necessità di investimenti esteri per il rilancio economico dell’europa (tutti i grandi paesi europei sono decollati senza alcun bisogno di apporti esterni. Sono solo i grandi paesi ultimi arrivati, India Cina, Brasile che hanno basato il loro decollo su quell’afflusso), se si ampia la prospettiva a un futuro assetto economico di cooperazione transatlantica allora questa insistenza trova una motivazione: dare alle grandi multinazionali statunitensi un quadro istituzionale quanto più vicino alle loro condizioni di partenza per permettere loro di poter galoppare nello spazio europeo reso libero dalla moltitudine di vincoli. Con effetti globali che è difficile valutare, ma che comunque non potrà che essere di ridefinizione massiccia degli ambiti economici europei.

È possibile inoltre che, al di là delle complesse e lente trattative di tipo economico e giuridico, fatto tipico per le trattative intorno a questo tipo di patti, ci sia anche un’intenzione di qualche settore di élites, da questo e da quel lato dell’Atlantico, di produrre uno sconvolgimento che porti, finalmente, dopo secoli di percorsi paralleli, a aprire un processo di omologazione delle due aree. Non è da escludere.

Digressione: USA, Cina, Europa e progresso tecnologico.

Non è che per caso le multinazionali americane stanno meditando una ritirata ordinata (quantomeno parziale) dalla Cina? La testa marciante del progresso tecnico-scientifico l’hanno sempre tenuta in America. ma gli apparati che trasformano quei saperi in prodotti li hanno decentrati. Potrebbero ri-localizzarli? non è che per caso in trent’anni hanno danneggiato irreparabilmente la capacità dei lavoratori americani di produrre in condizioni tecnicologiche avanzate, o meglio, avanzatissime? e non è che la vecchia Europa avrebbe ancora, perfino negli ex-paesi socialisti, conservato quella capacità? Anche perchè i lavoratori americani non sono mai stati fulmini di guerra tecnicologici; la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti l’hanno vinta riversando quantità gigantesche di prodotti non eccezionali contro la limitatezza quantitativa degli eccellenti prodotti tecnologici tedeschi (un’enormità di navi modello Liberty, ad esempio, cassoni galleggianti, contro i perfezionatissimi sottomarini U-Boot tedeschi; non potevano tirarle giù tutte). In fondo, l’innovazione di questi ultimi decenni ha puntato alla separazione tra la testa e la mano: trasformando, o meglio approfondendo enormemente la trasformazione dei processi produttivi, già in atto nel fordismo, in una sequenza di attività estremamente semplificate, attuabili anche da forze lavoro entrate solo da pochi decenni nella produzione industriale. Ma cosa succederebbe se quelle attività, per quanto semplici, dovessero avere comunque come controparte impianti o moduli di impianti estremamente sofisticati dal punto di vista tecnologico? Il saper cosa fare e cosa sta facendo la macchina diventano fondamentali, anche se l’azione è ridotta ai minimi termini. La forza lavoro cinese può sostituirsi in questo a quella americana o europea in questo tipo di rapporto? Ho notizie di esperimenti fatte da industrie italiane che dicono di no, quantomeno per il momento. A certi livelli estremi di perfezione tecnologica (robotica e meccatronica) i lavoratori cinesi non reggono il confronto (per i livelli europei ci sono voluti secoli di disciplinamento e istruzione). Ma è noto che c’è un’ondata fortissima di acquisti di robot in Cina (le multinanzionali in Cina ne hanno comprati più del Giappone recentemente). e se fosse difficoltoso o economicamente rischioso in Cina un ampliamento a livelli di massa dell’uso dei robot? Oggi la Cina presenta un’analogia con la Russia sovietica: punte scientifico-tecnologiche di livello altissimo, ma capacità di massa minori rispetto a quei livelli, e difficoltà con il trasferimento a livelli intermedi di quei saperi (ad esempio, il fallimento del primo treno superveloce cinese).

E allora l’idea che tagliare sensibilmente i salari europei possa permettere di rendere competitive le industrie europee grazie a un enorme salto tecnologico che la forza lavoro europea sarebbe in grado di reggere (mentre è dubbio che lo reggerebbe quella cinese), è un’idea così balzana?

5.Il Trattato trans-atlantico: fine del secolo lungo della Socialdemocrazia tedesca?

Eric Hobsbawn ha parlato del secolo breve, segnata dalla nascita e caduta dell’URSS (1914-1991), ma forse adesso stiamo assistendo alla fine di un secololungo (1914-201..), segnato dalla presenza della Socialdemocrazia tedesca (massimo esponente della storia del movimento operaio europeo ancora collegabile al nome di Marx) al vertice dello Stato tedesco.

Con l’approvazione dei crediti di guerra nel 1914, la Socialdemocrazia tedesca (come quella francese, peraltro) fu cooptata tra le forze politiche dirigenti dello Stato. Non senza resistenze, come si vide dalla successiva feroce controffensiva nazista, cui i gruppi dirigenti liberali diedero campo libero; come in Italia con il fascismo, peraltro (seppure qualche decennio fa’ assolti – autoassolti – dalla tesi di Nolte; che il nazismo sia stato solo una ‘reazione’ al bolscevismo, e quindi in certo senso giustificato dalla ‘ferocia’ di quest’ultimo. Tesi demolita dall’affermazione di papa Wojtyła: il nazismo male assoluto; cioè contrassegnato da un eccesso negativo senza alcuna giustifica­zione possibile).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le esigenze della guerra fredda tennero la Social­democrazia ancora in quarantena; ma dopo l’abiura del marxismo a Bad Godesberg, e previa Grosse Koalition nei primi anni Sessanta, l’SPD ritornò a essere legittimata come forza di governo. Non solo, ma era funzionale, anche nella filosofia dell’ordoli­beralismus, per la gestione del lato ‘welfare’ (da sviluppare dopo la fase della ricostruzione post-bellica e connessi sacrifici) della strategia della Sozialemarktwirts­chaft, che pure lasciando al mercato completo campo libero sullaccumulazione, cioè su direzioni e livelli di occupazione (a questo equivale una politica che punti siste­maticamente al pareggio di bilancio; anche se talvolta sfori), puntava a frenare gli effetti socialmente dissolutori del capitalismo di tipo anglosas­sone (contrapponendo­gli il capitalismo renano, come lo si è chiamato).

Qui sta la fondamentale legittimità politica della Socialdemocrazia tedesca nel quadro di governo della Germania. Sono tre gli aspetti che, dall’inizio degli anni Novanta mettono in questione quella legittimità: l’unificazione tedesca, la globalizzazione e l’unificazione europea. E che forse oggi, con il Trattato trans-atlantico sta per rice­vere un colpo che pare rischiare di essere definitivo.

La rapidità con cui, l’assoluto bradipo della politica europea, Kohl, si è mosso tra Thatcher, Mitterrand e Gorbaciov per portare a casa l’unificazione tedesca dopo il 1989, suggerisce che i gruppi dirigenti tedeschi fossero molto più pronti a quell’eve­nienza di quanto si potesse pensare. Perché, come si è visto successiva­mente, la vera e propria annessione ha implicato una strategia di trasformazione su scala di un intero paese, di cui dovevano essere già pronte le linee portanti, per essere affrontata. Non solo, ma da come hanno agito implacabilmente per cancellare perfino le tracce della DDR hanno mostrato una volontà di continuità con il Reich pre-bellico (di cui erano già state rifunzionalizzate parti nella guerra fredda, come l’Organizzazione Gehlen) che inquieta (sono stati combattuti e ostracizzati infatti molto più i suoi – della DDR – ambienti intellettuali di ‘sinistra’, evidentemente sgra­dita memoria di contrasto con quel passato, che non le sue strutture di potere; come testimonia la cooptazione della stessa Merkel, l’ossie – cittadina dell’Est – adottata politicamente da Kohl).

Suggerisce inoltre che quell’unificazione sia stata molto meno la riparazione a una fe­rita del sentimento nazionale tedesco e molto più un’occasione da sfruttare in modo ‘egemonicamente’ espansivo; molto più di quanto ci si aspettasse (sia da Mitterrand che da Gorbaciov, pare; la Thatcher era più sospettosa, si dice). E suggerisce anche che que­sta essere-già-pronti sia stato in un certo senso ‘dissimulato’ a lungo ‘dietro’ politici di sicura fede democratica come ad esempio Brandt (peraltro bruciato a metà anni Settanta, quando nessuno poteva capire che eravamo alla vigilia dell’abbandono della Ostpolitik, archiviata anche dall’elezione di Wojtyła al Soglio). Genera preoccupazione che ‘solo’ il vecchio Cancelliere, del dopo-Brandt, Helmut Schmidt abbia avanzato ri­serve sulla strategia egemonica tedesca in Europa oggi.

Inoltre, anche dal lato economico l’irruzione della globalizzazione, aveva messo in tensione la strategia e la legittimità socialdemocratica.

Digressione. Il mito della stagnazione tedesca dei Novanta e l’Agenda 2010.

Con questo nome è noto il programma di governo 2002-2005 di Schröder, di ispirazione liberale, intorno a cui maturò, a fine anni Novanta, la rottura con Lafontaine. Il programma, come già detto, introdusse la precarietà nella ge­stione della forza lavoro tedesca e ridusse, anche se non di tanto, la copertura del welfare. All’introduzione di questo misure è stato attribuito il merito di aver risollevato la Germania da una stagnazione degli anni Novanta. È un vero coro dentro e fuori la Germania.

Peccato che a nessuno venga in mente che l’unificazione tedesca era avvenuta nel 1990, e che subito dopo, nel ‘91-92, c’era stata una recessione mondiale. Pare nessuno ricordi più che, in una notte, l’industria della Germania orientale fu messa fuori mercato da un cambio sopravvalutato marco occidentale-marco orientale: uno a uno (invece che almeno uno a cinque, per dire; cambio imposto da Kohl al Presidente della Bundesbank, Pohl), che al tempo stesso rendeva felici i cittadini dell’Est che finalmente potevano usare i loro risparmi per comprare le merci dell’Ovest, e rendeva invendibili i prodotti di quell’industria. Da quel momento la Germa­nia aveva il suo Mezzogiorno. Per quasi un decennio l’Est visse di sussidi e di ricostruzione edilizia. Pare ovvio, ma la smemoratezza impazza, che con una tale palla al piede la prestazione complessiva dell’eco­nomia tedesca ne sof­frisse, e il tasso globale di crescita non potesse essere che la media di quello delle due zone. Quindi la famosa stagnazione tedesca è stata in realtà poco più che un fatto statistico; la Germania Ovest, industriale, non era stagnante, sicu­ramente quantomeno né come il Giappone nei Novanta, né come l’Italia nei Duemila.

La soluzione non fu statistica, ma politica. Siccome a occidente i sindacati trattarono nelle grandi imprese sull’applicazione del Pacchetto Hartz, riducen­done gli effetti precarizzanti, chi invece ne sentì tutto il peso fu la zona orien­tale. Di fatto con quella misura il governo di Berlino creò il suo Est interno, nel senso di un’area, come Polonia, Bulgaria e Romania, dove delocalizzare. An­che perché era nota la riluttanza delle imprese dell’Ovest a investire all’Est per buona parte degli anni Novanta. Ecco l’origine della pseudo-stagnazione tede­sca, e della sua fine.

Inoltre un altro fattore di rilancio dell’economia tedesca in realtà fu la costru­zione massiccia sia di Centri di grande ricerca scientifica (i Planck Institute) sia un numero elevato di centri a metà strada tra ricerca scientifica e industria che hanno contribuito potentemente all’aumento di produttività dell’industria tede­sca, fatto che ha contribuito alla crescita industriale impetuosa degli anni Due­mila, e anche alla ripresa post-crisi, ben più efficacemente della relativamente limitatati precarietà, quantomeno rispetto all’Italia, nonostante il livello sala­riale più elevato.

Quindi l’unificazione tedesca, fu l’occasione per inferire un vulnus alla struttura so­ciale tedesca, ‘importando’ condizioni di ‘globalizzazione’, cioè di maggiore preca­rietà nel mercato del lavoro. Probabilmente non eccessivamente rilevanti dal punto di vista quantitativo, ma sufficienti per rendere il sistema di ‘protezione sociale’ meno chiuso, e soprattutto gerarchizzando all’interno della Germania tra diversi livelli di ‘copertura’. Lo stesso risultato in Italia è stato raggiunto differenziando generazionalmente le condizioni d’ingresso sul mercato del lavoro, mentre in Germania è stato ottenuto gerar­chiz­zando territorialmente.

L’SPD fu messa doppiamente sulla difensiva. In primo luogo, perché l’unificazione costruiva un’area di ‘espansione’ e di ‘subordinazione’ a favore dell’industria tedesca, il cui nucleo centrale, il lavoratori della parte occidentale, continuavano a mantenere so­stanzialmente immutate le ‘protezioni’ raggiunte, ma che al di fuori costruiva un si­stema concentrico di fasce a minore protezione, dall’Est interno all’Est esterno, e ul­timamente, con le politiche di ‘austerità’ e ‘svalutazione interna’ anche un Sud esterno; quindi da un lato la ‘copertura’ veniva intaccata, per quanto non sostanzial­mente, ma dall’altro la presenza dell’area a minore copertura come funzionale alla struttura globale della catena del valore costituiva una minaccia continuamente la­tente di possibili peggioramenti. Per di più rendendo corresponsabile l’SPD di questa gerarchizzazione rendeva molto difficili (per quanto non impossibili, come recenti esperienze FIOM mostrano) eventuali tentativi di unificazione rivendicativa su tutto l’arco della catena produttiva. Senza contare la responsabilità SPD per le condizioni sociali generali peggiorate nei paesi ‘mediterranei’; cui come si è visto in queste ele­zioni l’SPD non ha dato risposte efficaci politicamente, prima di tutto per se, oltre che per gli altri.

Ma il pericolo maggiore, oggi, viene dalle trattative riservatissime sul TTIP (Tran­satlantic Trade and Investment Partnership; Cooperazione transatlantica per il com­mercio e gli investimenti). Particolarmente preoccupanti sono le cosiddette Mi­sure non-tariffarie. Si tratta delle misure per rendere possibile l’integrazione delle imprese americane sull’area europea (compresi, ad esempio, gli appalti pubblici).

Inoltre, come emerge dalla lettera pubblicata dal Financial Times di due membri del gruppo di esperti consulenti sul TTIP dell’UE: “La controversia intorno al TTIP non è tanto intorno al commercio quanto intorno alla…democrazia”. Questo, perché la Commissione Europea e gi USA vogliono inserire una clausola che by-passa la giustizia ordinaria in questioni in cui gli investitori statunitensi si ritengano trattati in modo non equo [sic!] accedendo ad arbitrati indipendenti,e quindi tutta la legislazione ordinaria inmaterie come ambiente, diritti dei lavoratori, etc..

Per avere un’idea delle implicazioni possibili basta pensare che l’adesione alla UE della Gran Bretagna non include ad esempio le misure del pacchetto ‘sociale’ su lavoro, assistenza e previdenza. Basta pensare che ci sono una serie di campi estremamente sensibili non solo per l’opinione pubblica europea, ma per i valori stessi della costru­zione europea: finanza, ambiente, salute, lavoro e assistenza che in un qualche modo dovranno essere omogeneizzate. Ma siccome è impensabile che le regolazioni euro­pee vengano importate negli Stati Uniti, l’esito più probabile è che le de-rego­lazioni americane vengano, quantomeno in parte, importate in Europa.

Ma tutta la filosofia, la ragione storica dell’esistenza della Socialdemocrazia europea, prima ancora della stessa costruzione europea, ne verrebbero seriamente messe in di­scussione. Quella globalizzazione i cui effetti in un certo senso la forza economica e mone­taria europea potrebbero tener fuori dai confini europei, verrebbero introdotti via ac­cordi con gli USA. Finora l’SPD ha difeso le condizioni ‘sociali’ dei lavoratori tede­schi ‘gerarchizzando’ le condizioni dentro e fuori della Germania. Questi sviluppi, adombrati dal TTIP implicano il rischio che possa toccare ora ai lavoratori tedeschi, oltre che a noi tutti. È come se i dirigenti del capitalismo europeo avessero deciso di abbandonare le differenze della cultura sociale e politica europea. Un ostacolo? Resi­dui di mondi passati? Pronti a cooperare o a competere con le multinazionali ameri­cane? Alla pari, o anche solo come juniorpartner?

6. Contro l’Ideologia Tedesca

Abbiamo un grande problema Mitteleuropeo, come si dice dalle parti di Trieste, cioè un problema nel centro dell’Europa. Cito qui Antonio Napoletano (amministratore del blog “Da Sinistra per Bersani”; nome inattuale, ma tant’è) in un recente post: “…qui c’è un’intera grande nazione al centro dell’Europa che identifica se stessa, le proprie virtù, le sue grandi qualità con quella forma particolare di ideologia e i suoi risultati, non solo per l’evidente e diffuso e alto benessere che le sono stati intestati, ma (penso in particolar modo) per quell’aura di ineluttabilità virtuosa nella quale essa circonfonde e con­fonde l’aggressività e il cinismo della conquista e del primato sotto le spoglie della pacifica concorrenza, di una superiorità meritata e, per definizione, non inibita agli altri”.

Non vi è alcun dubbio che la situazione attuale stia configurando un rovesciamento di quello che si è presentato storicamente come un asse asimmetrico Francia-Germania, con la Francia nel ruolo del Protettore politico di un paese sotto tutela. L’unificazione sembrava solo la necessaria chiusura della lacerazione post-bellica, mentre il gigante economico e ‘nano’ politico non pareva costituire alcuna minaccia di sovvertimento dei rapporti di forza. Fu così che la costruzione dell’euro, innanzitutto, ma anche della stessa modalità di ‘omogeneizzazione’ fiscale, finirono col mancare non tanto di istituzioni ‘federaliste’ ma dell’idea stessa che ne sta alla base: e cioè che in qualche modo qualcuno deve prendersi la responsabilità dell’insieme (l’ha fatto di risulta Draghi). Ai francesi andava bene l’assenza esplicita di ‘autorità sovrannazionali’, eredi dell’«Europa delle patrie» gollista. Mentre è probabile che, in prima battuta, ai gruppi dirigenti tedeschi interessasse innanzitutto mettere la mordacchia ai concor­renti (italiani, innanzitutto) impedendo le svalutazioni competitive. Quindi, il gap fe­deralista andava bene sia a francesi che a tedeschi, per non parlar degli inglesi; ognuno tutto preso nella sua strategia miope.

In realtà, in tutti i due campi vi erano anche federalisti che pensavano che si dovesse pa­gare un prezzo ai primi passi verso un’unione, accettando anche istituzioni imper­fette, progettate a partire da egoismi nazionali, ma che nei momenti di crisi, inevita­bili per via delle imperfezioni, si sarebbero potute modificare in senso federalista (se­condo l’esempio dell’evoluzione delle istituzioni USA; v. FED)).

Ma vi era qualcuno nel gruppo, tra cui l’economista tedesco Issing probabilmente, ma non solo, che invece pensava che l’assetto della Banca centrale europea, di necessità indipendente dagli Stati europei (in assenza di un potere federale), dovesse prefigu­rare in realtà un assetto futuro permanente delle autorità economiche, che incorpo­rasse per l’insieme degli Stati dell’Unione l’idea liberale di una società atomistica in grado di funzionare autonomamente (una volta garantita l’assenza o la riduzione al minimo della presenza statale): ognuno per se e Dio per tutti. Realizzando così una modalità possibile della cosiddetta de-statalizzazione della moneta, elaborata alcuni decenni fa dall’economista di riferimento di Issing, Friedrich von Hayek, l’implaca­bile e indefettibile nemico di Keynes, dagli anni Trenta in poi.

Ovvio corollario di questa ideologia ‘liberale’ di un’unione fra Stati è che ogni Stato debba essere in grado di reggersi economicamente da solo senza ‘aiuti’ (o riservando ‘aiuti’ a soggetti deboli nella transizione dell’ingresso nell’Unione – come per i paesi dell’Est -; una versione interstatuale del ‘conservatorismo compassionevole’); e se non lo fosse ciò va attribuito esclusivamente alla sua responsabilità individuale, per cui ciò non darebbe diritto ad alcun salvataggio.

Ovviamente non vale obbiettare che questo non è l’assetto di nessun stato federale, né gli USA, né tantomeno la Germania dei Länder;né tantomeno vale obbiettare che ogniStato singolo è in grado di reggersi ‘solo’ se gli è consentita la sovranità per poter prendere le adeguate misure per la sua sopravvivenza. Ma, pretendendo da una lato di privare i singoli Stati della sovranità in campi esistenzialmente cruciali – mo­neta, fisco – e impedendo dall’altro che si formi un’autorità (detto in termini generici: in una qualsiasi modalità, federale o di accordo interstatale è lo stesso) in grado di prendere i provvedimenti necessari per governare l’insieme (come fa la stessa Ger­mania a casa sua), si produce necessariamente un campo di squilibri inter-nazionali, e un rischio di collasso. Perché nessuna unione può mai funzionare come somma di unità assolutamente autonome.

Anche perché non è questione di trasferimenti fiscali per solidarietà come purtroppo anche da persone sensate si sente dire. Gli Stati (a differenza di noi comuni mortali) possono spendere prima di incassare (poi, volendo, possono riprendersi tutto, an­dando in pareggio; ma questo è solo una possibilità). In questo consiste la sovranità monetaria, come sapeva bene Keynes che suggeriva al Tesoro inglese, durante la guerra, di spendere prima e di emettere i titoli del debito solo dopo, per godere di in­teressi minori. Quindi uno Stato può (o in sua assenza deve poterlo fare un suo sosti­tuto: un’autorità, governance, sovrannazionale) spendere, direttamente o anche indi­rettamente, a favore di aree deboli all’inizio della storia, aspettando serenamente che queste somme spese tornino naturalmente verso le aree forti (il piano Marshall del dopoguerra si basava su questa logica), contro esportazioni di queste verso le deboli (e poi si trasformino in imposte a riequilibrare). Cosa c’entra qui la solidarietà? Nulla. Ma c’è bisogno di un’autorità superiore a quelle delle singole unità che goda di que­sta sovranità.

Questo è un modo di crescere che fa crescere tutti contemporaneamente. Perché ci si può anche aspettare di conseguenza un funzionamento virtuoso del mercato che fac­cia sorgere nuove attività laddove ci sia potere d’acquisto, aiutando a innescare pro­cessi di crescita, e associato progresso tecnico, che si autosostengano (perché l’assun­to ‘liberale’ della crescita spontanea del mercato non è del tutto ideologica, e falsa; ma come sapeva anche Adam Smith che parlava di ‘espansione dei mercati’, ci vuole uno stimolo esterno, anche solo come punto di partenza).

Ma c’è un altro modo di crescere. A danno degli altri. E sembra proprio che questo sia il modello scelto dalla Germania. Perché se si impone ai paesi dell’Unione di a­prirsi alle influenze della globalizzazione, o meglio di attuare politiche che di fatto ne importano gli effetti: riduzione dei poteri contrattuali dei lavoratori e riduzione della copertura del welfare per le popolazioni, si condannano paesi industrialmente più deboli a soccombere alla potenza industriale tedesca: unica soluzione, accodarsi in modo subalterno. Ma questo, con il crollo della domanda interna e l’esplosione delle disuguaglianze, finisce con l’interromper il percorso di crescita sociale oltreché economica di quei paesi. Questo è di fatto l’effetto delle politiche di austerità, ma so­prattutto delle cosiddette ‘riforme’, merce di scambio per la ‘sopravvivenza’ finanzia­ria di quei paesi. In questo modo lo spazio economico europeo non diventa altro che uno spazio di estrinsecazione della potenza germanica. Inoltre, questo processo sem­brerebbe naturalmente e altrettanto stranamente confluire in quel passaggio riservato che è la trattativa intorno al Trattato trans-atlantico.

I Trattati di Maastricht costituivano un compromesso dilatorio, come sempre in que­sti casi. Ma il senso di questo compromesso, contrariamente alle aspettative dei fede­ralisti, potrebbe invece rivelarsi nell’accordo transatlantico, il cui esito potrebbe es­sere quello di uno smantellamento delle regole costruite in quasi due secoli nei paesi europei (in un processo complesso e non lineare, ma comunque con esiti convergenti) che hanno garantito una crescita delle società europee. Potrebbe cioè concludersi in una ‘liberalizzazione’ sfrenata della società europea. Come conseguenza dell’aver troppo a lungo traccheggiato di fronte alla costruzione di una qualsiasi forma di ‘sta­tualità’ sovrannazionale. E quindi la scelta di sbloccare la situazione in una direzione opposta: non avendo costruito le regole meglio abbatterle (da cui forse anche il senso dello spazio politico di Renzi, in analogia con la sua soluzione per l’Italia; non a caso gli anglosassoni ne sono entusiasti).

E colpisce che siano tedeschi (del Ministero delle Finanze di Schäuble) gli studi più entusiastici sulle conseguenze benefiche del Trattato (qualcuno ricorda gli analoghi studi sull’euro, il cui maggior limite, a parte l’enfasi ottimistica, fu di concentrarsi su aspetti totalmente irrilevanti delle conseguenze della sua introduzione). Ci si sa­rebbe aspettato invece da custodi dell’ordoliberalismus un atteggiamento più cauto (a parte considerazioni di potenza internazionale: il senso abbastanza esplicito del Trattato di costruire cinture verso Russia e Cina).

Verrebbe da chiedersi se i gruppi dirigenti tedeschi abbiano già deciso, o siano forte­mente tentati a farlo, di buttare a mare tutte le strategie di ‘modernizzazione’ attuate in Germania negli ultimi due secoli, che implicavano un ‘freno’ alle dinamiche spontanee di mercato: dalla costruzione dello spazio industriale interno (List), alle prime politiche sociali (Bismarck prima e la Socialdemocrazia poi), e che puntavano a costruire la transizione alla società industrializzata mantenendo la coesione sociale, la Sozialemarktwirtschaft (che anche il nazismo rispondesse a questa esigenza può spie­gare parte del consenso che ebbe). Ma che sia giunta l’ora di realizzare l’inten­zione primitiva dello smithiano List: che una volta raggiunto un certo livello di potenza industriale si sarebbe potuto entrare nel free trade, e nella free society de-re­golata tipica del mondo anglosassone (ovviamente come sappiamo, nella storia il pendolo ha oscillato anche in senso opposto; ma da trent’anni ha girato, e pare una scelta per il momento irrevocabile).

E’ sicuramente presto per dirlo, ma proprio il fatto che tutto sia estremamente coperto fa nascere dubbi. L’accordo transatlantico necessariamente deve riguardare mag­giormente l’omogeneizzazione delle regolazioni, quelle che in gergo si chiamano Mi­sure-non-tariffarie. Ma si può davvero pensare che questo riguardi solo quello che sta scritto sulle scatolette di carne in scatola? O piuttosto che riguardi il contenuto delle regolazioni riguardanti innanzitutto ambiente e salute, implicito nelle ‘regole’ di pro­duzione e commercializzazione dei prodotti, ma poi si debba necessariamente river­sare nelle ‘regole’ di protezione ambientale e sociale, se si deve permettere un movi­mento di imprese verso questo lato dell’Atlantico.

E questo andrebbe invece a influenzare pesantemente tutta la civiltà giuridica euro­pea, incorporata nelle richieste ai paesi entranti detto acquis communitaire. Ma non solo. J.P. Morgano ritiene che le Costituzioni europee siano troppo ‘democrati­che’, nel senso che enunciano principi di ‘limitazione’ della libertà (intesa come ar­bitrio dell’impresa; ricordate Berlusconi sull’art. 41?), atteggiamento peraltro condi­viso da quelle società di management che hanno avvisato nei giorni scorsi i movi­menti che a Honk Kong chiedono più democrazia che questo potrebbe fare fuggire le multinazio­nali. Questo Trattato sembra quindi essere la vera frontiera avanzata per la battaglia politica in Europa, che non riguardi solo le condizioni di benessere. Drasti­camente compromesse dall’austerità, ma degli stessi principi della democrazia euro­pea. Que­sto Trattato sembra costituire la tentazione più forte per il completamento di un’ege­monia tedesca, compiutamente ‘liberista’, e anti-democratica, in Europa.

7. La sinistra in Europa.

Purtroppo bisogna prenderne atto. Tutte le cose sensate sono già state dette. Il premio Nobel Krugman, il Nobel Stiglitz, il caporedattore del Financial Times Wolf, Olivier Blanchard, capo dell’Ufficio studi del FMI, e tanti altri, hanno già messo in luce a sufficienza l’assurdità sia di politiche deflattive in tempo di recessione, che infatti sta rimbal­zando sulla Germania portandone a zero la crescita dopo la ripresa impetuosa post-2009, sia l’impossibilità, pena l’autodistruzione, di soddisfare la richiesta ultimativa della riduzione del rapporto debito/PIL via riduzione del bilancio e non via aumento del reddito, assurdità stigmatizzata anche dal FMI nell’autunno 2012, nonchél’assur­dità di indicare come da imitare da tutti politiche come quelle mercantilistiche che richiedono per l’ap­punto necessariamente che non tutti le mettano in atto, oltre che la quasi suicida perseveranza nel richiedere l’austerità fiscale come rimedio agli attacchi ai debiti so­vrani quando era proprio il rimedio a causare l’attacco, sconfitto dalla gestione della politica monetaria di Draghi.

Ma le ripetute dichiarazioni di Schäuble, di Issing, del presidente della Bundesbank Weidmann, e di altri meno noti, come il capogruppo PPE, Weber, hanno mostrato come ai gruppi dirigenti tedeschi far la figura degli ottusi ostinati non li preoccupi né poco né punto. Loro dicono quello che gli pare e nessuno, pensano, sarà in grado di fargli cambiare né quello che dicono né le politiche che esigono contestualmente vengano attuate. Ovviamente anche loro sono capaci di sceneggiate, quale infatti va ritenuta la diatriba pubblica con Renzi sulla flessibilità, che altro non è che la tolle­ranza per qualche ‘moderato’ sforamento nei parametri. La flessibilità è già stata e­nunciata come programma da Juncker in qualità di designato dal Consiglio dell’U­nione europea alla Presidenza della Commissione; e quando verrà riconfermata uf­ficialmente da Juncker come Presidente, come sarà, Renzi avrà sfondato una porta aperta. Ma non era né quello che Renzi aveva chiesto prima – la luna dal punto di vista tedesco – né quello di cui ci sarebbe bisogno, per evitare un possibile collasso della costruzione europea.

Digressione. Crolli di sistemi politici?

Le élites di destra europee avevano lanciato una scommessa rischiosa, ma fino a poco fa vincente, sul versante della sinistra. Quella cioè di uscire da una crisi economica gravissima, paragonabile solo a quella del 1929, nella direzione opposta rispetto a quella con cui si uscì dal ’29 (Roosevelt, più spesa pubblica, più sindacato, più giustizia sociale) e cioè: meno Welfare, riduzione dei poteri contrattuali dei lavoratori, noncuranza per l’aumento esponenziale delle disuguaglianze. In realtà, a parte il caso greco di Syriza (la cui crescita però non ha finora alterato il quadro politico), i partiti di centro-destra non avevano perso consenso, ma soprattutto la guida dei governi (neppure in Grecia). La sinistra non aveva capitalizzato per nulla la crisi. Né quella radicale né quella moderata. Oggi in Italia c’è la svolta Renzi, dovuta soprattutto a ‘promesse’ che però, vedi Jobs Act, si muovono nel solco dominante europeo. Ma fino all’anno scorso, il PD o aveva rimosso o non aveva parlato (o solo debolmente) ai colpiti dalla crisi. E lo stesso dicasi della sinistra radicale (intendo, al di là delle velleità, senza alcun esito politico). Peraltro, in Spagna, Irlanda e Grecia, paesi da molto a terribilmente colpiti dall’austerità, le forze di centrodestra hanno mantenuto la presa sui geverni (peraltro anche una vittoria elettorale di Syriza in Grecia non necessariamnte coincidirebbe couna svolta governativa). Quindi sul versante sinistro la scommessa politica sembrava vinta. Ma la crisi di sistema, neutralizzata a sinistra (per responsabilità di quei partiti, di ambedue i lati della sinistra, ovviamente, ma qui non se ne può fare l’analisi) è riemersa minacciosa a destra. Si può dire che in Italia la risposta a questa crisi, rappresentato dall’e­mergere di Grillo, sia stata Renzi, che per il momento sembra funzionare. In Italia, tuttavia, i partiti euro-scettici (M5S e Lega) conservano una forza notevole, anche se sembra attenuata la spinta di Grillo che, un anno fa, pareva minacciasse la stabilità dell’intero sistema politico. Ma la crisi politica, dopo la prima avvisaglia italiana, si è allargata coinvolgendo anche gli altri tre maggiori paesi europei.

In Germania gli euro-scettici hanno rischiato di entrare in Parlamento, e comunque hanno obbligato la Merkel di nuovo alla GrosseKoalition nonostante l’affermazione elettorale (ottenuta mangiandosi i liberali). Cioè, in Germania è stata evitata di misura, per il momento, una crisi politica.

In Inghilterra già da mesi gli euro-scettici erano in espansione e hanno ottenuto un risultato sconvolgente: i due partiti maggiori seguono L’UKIP euro-scettico (dal 1926 Conservatori e Laburisti si contendevano il primo posto; i Liberali hanno sempre corso per il terzo). È un risultato che potrebbe far crollare il sistema politico inglese degli ultimi novant’anni.

In Francia si può dire che il sistema sia già crollato di fatto. Hollande, oltre ad essere al minimo nel gradimento, ha un partito che, in maggioranza nel parlamento, è il terzo partito nel paese, per di più a livelli bassi (solo una coalizione coi neo-gollisti recupererebbe una base elettorale del 40%). Ovvio che la Le Pen chieda nuove elezioni. È una richiesta legittima in un quadro democratico. La Le Pen spaventa l’opinione pubblica per i toni xenofobi, ma spaventa ancora di più le élites politiche europee per le sue proposte: un rafforzamento del Welfare, in controtendenza rispetto alle politiche e all’ideologia europea e mon­diale, e protezionismo economico, in antitesi al liberismo mondiale, non solo, ma anche ai principi su cui è stata costruita l’Unione Europea: la libera circolazione economica, alla base della moneta unica.

È questa emergenza che sta spaventando e su come affrontarla ci si sta dividendo, più o meno pubblicamente, in Europa.

Il vero problema non affrontabile dal di fuori della Germania è che l’ideologia dei gruppi dominanti tedeschi è diventata consenso, religione di massa dei tedeschi. La popolazione tedesca in generale condivide l’idea che il benessere tedesco è merito dei tedeschi e basta, e che qualsiasi invito a fare politiche ‘sovranazionali’ equivalga a chiedere ai tedeschi di pagare per altri, che non meritano ‘salvezza’ (Lu­tero nelle politiche europee).

Chi potrà mai fargli capire che assumersi la responsabi­lità di gestire l’Unione è prima di tutto nel loro stesso interesse, che il Trattato che si annuncia potrebbe suonare la campana per il loro stesso benessere, che crescere sull’immiserimento delle altre popolazioni europee è la ricetta sicura per un disastro epocale. Problema aggravato dal fatto che l’SPD ha rinunciato o non riesce a farlo, come si evince sia dal comportamento subalterno durante la campagna elettorale sia dalle schermaglie rinunciatarie sulla candidatura Schulz, che aveva enunciato alcune condizioni necessarie, per quanto moderate, di fuoriuscita dall’au­sterità.

Digressione. L’SPD, la Grande Assente.

L’SPD ha ancora molte caratteristiche di un partito di massa tradizionale (a differenza del PD italiano): orga­nizzazione, forti legami coi sindacati, thinktanks di partito, ampia rete di amministra­zioni locali. Questo costituisce un certo ‘zoccolo duro’ (sperando che la definizione non gli porti sfortuna); ma, una volta persi contatti a sinistra, il centro è saldamente presidiato dalla Merkel (anche brutalmente, come vedremo) e quindi operazioni al centro sono abbastanza inefficaci. O meglio, l’SPD, come ha fatto nelle ultime ele­zioni, deve mantenere un profilo moderato, per non perdere il contatto con il ‘pro­prio’ centro (come il PD prima di Renzi), ma questa politica non ha effetti espansivi, ma solo ‘difensivi’; per via del tabù a sinistra.

Questa è la frattura. In un sistema politico a ispirazione maggioritaria (non un pro­porzionale corretto, come si dice erroneamente in Italia, ma un sistema che ‘pola­rizza’ il risultato sui (due) partiti principali), rompere sul lato estremo del proprio schieramento non è mai una buona idea (Mitterrand vinse per la ragione opposta). Blair, che tutti dicono di imitare, non lo fece: fece piuttosto un compromesso con l’old Labour. In Germa­nia probabilmente la cosa è stata peggiorata dall’antagonismo personale tra Schröder e Lafontaine a fine anni Novanta. Non solo, ma il fatto che nella Linke, formazione in cui confluì Lafontaine, siano presenti di eredi della SED, il partito comunista della DDR, ha reso praticamente tabù una qualsiasi politica di collaborazione con quel partito (ci vorrebbe un politico molto abile e spregiudicato, per romperlo; ma a quanto pare in giro per l’Europa la spregiudicatezza è monopolio della destra).

Le vicende dell’ultima legislatura sono istruttive. Dopo aver vinto le elezioni nel 2009, con l’SPD a minimi storici, già dal 2010 la Merkel aveva cominciato a perdere elezioni regionali. Ma la Grecia fu un’«occasione esemplare» per recuperare, sfruttata con feroce determinazione. Sul terreno internazionale la Germania l’utilizzò per imporre la propria visione sulla crisi creando l’«esem­pio negativo» per eccellenza. Ma la Grecia fu sfruttata anche all’interno. La campagna contro la ‘prodigalità’ dei paesi mediterranei fu lanciata con forza. Nel giro di due anni l’opinione pubblica tedesca fu conquistata. Su questo terreno l’«egemonia» della Merkel è incontrastata, anche perché ha mobilitato strati profondi della ‘psicologia collettiva’ tedesca. Ho sperimentato di persona come settori di elettorato SPD la con­dividano. Forzando quindi l’SPD a una strategia ‘subalterna’, di attacco su que­stioni marginali, che le ha consentito un certo recupero, ma non più di quello, abban­donando a se stesso ben il 15% a sinistra di opposizione alla Merkel, tra Linke e Verdi, che naturalmente l’SPD non ha neppure provato a utilizzare. Il che combinato con il crollo dei liberali ha consentito un ritorno a una Grosse Koalition.

Come si è visto, questa subalternità è stata confermata dalle elezioni europee. Si po­teva pensare, prima, a un accordo paritario sul governo tedesco, e quindi in Europa, perché in Germania la Merkel poteva aver la maggioranza solo con l’SPD. Ma evi­dentemente il tabù sulla sinistra ha indebolito l’SPD (a parte altri tatticismi, come quelli di Renzi), e ha dato via libera alla Merkel, come è stato ribadito nella vicenda europea.

La mancanza di forza egemone dell’SPD è il vero problema sul terreno. Questo ci manca oggi in Europa. Che la Socialdemocrazia tedesca assuma lucidamente le sfide congiunte portate da: unificazione tedesca, globalizzazione, unificazione europea e rapporto con gli USA (il Trattato), per assumere il ruolo storico, che solo lei potrebbe esercitare per la storia e per il ruolo stesso della Germania: traghettare la democrazia sociale europea nel nuovo mondo del secolo appena iniziato.

Non è l’ispirazione keynesiana del pieno impiego che va prima di tutto sostenuta. Questa seguirà, o non seguirà perchè bloccata da tabù liberisti insormontabili, ma è l’ispirazione politica dell’Unione, degli Spinelli e degli altri fondatori di un’Europa dal capitalismo ben temperato modello di convivenza per il mondo intero. Tempera­mento necessarioperché la libertà non diventi arbitrio del più forte (e il progetto di Roosevelt – come appariva anche dal suo manifesto politico Guardando al futuro – poteva sembrare di fatto indicare quella stessa direzione di marcia, poi presente nell’ispirazione del lancio dell’idea di un’Europa politicamente unita). Allora le poli­tiche di pieno impiego, le funzioni conseguenti di una banca centrale, la spesa neces­saria per il riequilibrio e non solo mance, seguono spontaneamente.

Di questa riscoperta dei principi c’è bisogno. Non del passaggio di mano di qualcosa che è li pronto per essere ereditato, come i posti di comando e di sottogoverno, og­getto del desiderio dei Telemachi di sempre. Qualcosa che invece sta andando perso: la civiltà politica europea. Solo una sinistra che si sa tale può assumersene il com­pito. Ancora una volta, come sempre, nei tempi di crisi.

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