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di Luca Billi 02 novembre 2015
Pier Paolo Pasolini è morto a causa delle sue parole, di quello che aveva scritto e di quello che avrebbe scritto. Naturalmente tutti – perfino chi usa le parole in maniera ipocrita – si dichiarano tristi per la morte di Pasolini. E’ vero che quell’uccisione ha privato l’Italia, l’Europa, il mondo, di un artista, e di una coscienza critica. E rileggendo proprio le denunce di Pasolini, guardando a quello che è successo in questi quarant’anni, vediamo che hanno vinto loro, ha vinto quel potere oscuro di cui forse Pasolini aveva paura, ma da cui evidentemente non si è guardato abbastanza.
Nei suoi testi degli inizi degli anni Settanta racconta con una precisione che quasi spaventa quello che sarebbe successo negli anni successivi, lo strapotere del capitale, l’idolatria del mercato, il ribaltamento del sistema dei valori a favore del denaro, la fine di un certo modo di intendere la politica e l’impegno civile. E’ vero, hanno vinto, ci hanno schiacciato, tanto che si permettono perfino di organizzare delle manifestazioni per questo anniversario, di celebrare quell’uomo che hanno ucciso, di lodarne le capacità poetiche, ma sempre ricordando che in fondo era un pederasta e che quella morte se l’è andata a cercare. Hanno vinto perché la storia la raccontano come vogliono loro, anche la storia dell’uccisione di Pasolini, di cui continuano a incolpare Pelosi che fu solo spettatore impaurito e complice forse poco consapevole.
Hanno vinto perché controllano quello che leggiamo, quello che guardiamo al cinema e in televisione, perché ci offrono un’immagine falsa del mondo, l’immagine che hanno costruito per noi. Quello che avviene proprio in questi giorni, la progressiva riduzione degli ambiti della democrazia, la messa in mora della Costituzione, la concentrazione del vero potere in poche mani è l’evoluzione naturale di quel disegno cominciato con la stagione delle bombe, di cui Pasolini ci ha detto con chiarezza scopi e mandanti. Noi oggi sappiamo, perché Pasolini allora disse Io so. E ci ha spiegato anche che quello che allora sembrava il nemico, il ritorno di un fascismo che effettivamente in quegli anni prendeva il potere in tanti paesi del cosiddetto terzo mondo, ma anche in Grecia, qui in Europa, non era il vero nemico, e che alla fine sarebbe caduta la maschera e avremmo visto che il vero potere è nella mani di quei pochissimi che controllano l’economia, che ci hanno trasformati in consumatori prima che in sudditi. E oggi è chiarissimo che siamo arrivati a quel punto, visto che i nostri governi fanno quello che fanno proprio in nome dell’ultraliberismo e sotto gli ordini diretti di questi nuovi poteri.
C’è da essere pessimisti, e – lo sapete – io lo sono, perché sono, come tanti di voi, tra gli sconfitti. Però c’è una cosa che ci insegna la vicenda di Pasolini ed è proprio la forza della parola. Pasolini non aveva nient’altro eppure le sue parole facevano tanta paura da costringerli ad ammazzarlo. Allora questa parola deve essere davvero un’arma insidiosa, potente, letale, se perfino chi ha un potere così smisurato, così sfacciato, così violento, la teme. E allora anche noi che le parole non le sappiamo usare così bene come Pasolini, ma in qualche modo le mettiamo in fila, abbiamo una responsabilità, perché maneggiamo un’arma potente, un’arma che loro temono. In qualche modo la loro paura è la nostra speranza, o più probabilmente la speranza di una generazione che verrà e a cui dobbiamo consegnare delle parole.