Autore originale del testo: Walter Tocci
Url fonte: http://waltertocci.blogspot.it/2017/02/la-forza-della-fragilita.html
Url fonte: http://waltertocci.blogspot.it/2017/02/la-forza-della-fragilita.html
di Walter Tocci – 19 febbraio 2017
Non riesco a credere che ci separiamo. Non mi sembra vero. Non può essere ineluttabile. Quale demone si è impadronito delle nostre volontà?
Da una parte e dall’altra si odono dichiarazioni roboanti, si chiamano le truppe a schierarsi, ma è una battaglia tra due debolezze.
C’è la debolezza della minoranza che abbandona il campo proprio quando potrebbe vincere la partita. Se in questi anni, oltre la critica avesse coltivato una proposta alternativa e una leadership popolare, oggi andrebbe alle primarie sicura di vincerle.
C’è poi la debolezza del Segretario che ripete stancamente il suo copione. Chi può spieghi a Renzi che, se vuole essere forte, deve vincere se stesso. Deve reinventarsi come leader, deve stupire l’opinione pubblica con uno stile nuovo e ampliare i consensi correggendo gli errori. Quelli indicati chiaramente dagli elettori.
Le due debolezze, così diverse in tutto, sono unite nell’esito disastroso. Non si vincono le prossime elezioni ripetendo il ritornello già sconfitto al referendum e ancora prima alle amministrative e alle regionali. Che altro deve succedere per cambiare musica?
D’altro canto la scissione metterebbe in sicurezza la sconfitta impedendo la conquista della maggioranza relativa.
Le due debolezze mettono a nudo la fragilità del PD. Ci accorgiamo adesso che può andare in frantumi, se non abbiamo un sovrappiù di cura e di responsabilità. Anche nella vita delle persone accade che si rompa qualcosa quando la fragilità viene negata o rimossa. Quando invece viene riconosciuta, la fragilità diventa una forza, una sensibilità nuova e uno sguardo più autentico sulle cose: la bellezza di un cristallo di mille colori, di un petalo che non vuole cadere.
Anche il PD può tramutare in forza la sua fragilità, se la riconosce come nuova visione del mondo, come volontà di mettersi in discussione. Nel congresso del 1969 Aldo Moro propose al suo partito di “farsi movimento di alternativa a se stesso” per governare i mutamenti della società italiana. Diamo un titolo moroteo al nostro congresso: Per un PD alternativo a se stesso, per ripensare la sue ragioni e i compiti nel nuovo secolo che comincia solo adesso. I primi anni Duemila erano solo la coda del Novecento. Solo ora emergono le nuove faglie: un Occidente senza unità atlantica, un’Europa senza Mediterraneo e un capitalismo diffidente verso la democrazia. Sono tutti temi che interpellano un grande partito democratico, del socialismo europeo e ben piantato nel Mediterraneo.
Alternativi a noi stessi per riconquistare la fiducia dei lavoratori e dei giovani. Per liberarsi dai miti della Seconda Repubblica. Il referendum ha cancellato l’illusione che si possa governare il Paese ricorrendo agli artifici elettorali e istituzionali, e ha ripristinato una semplice verità: per governare il Paese bisogna convincere la maggior parte degli italiani. Servono grandi partiti capaci di unire le forze. Proprio chi ha sostenuto il NO al referendum dovrebbe evitare gli abbandoni minoritari e i piccoli partiti
Ma bisogna anche evitare l’autarchia di questi anni che ha creato intorno a noi un deserto con pochi amici e molti nemici. Non solo i dirigenti attuali, anche quelli di prima hanno deluso le promesse e le speranze della fondazione del PD. Già questo riconoscimento dovrebbe sciogliere la contrapposizione tra maggioranza e minoranza. Veltroni voleva fondare un partito mai visto – lo ha ricordato qui – ma consegnò la pratica alle burocrazie DS e Margherita. Bersani voleva realizzare il partito solido, ma ne accompagnò la liquefazione. Renzi doveva rottamare i vecchi dirigenti, ma confermò tutti i notabili sul territorio. Dopo tre insuccessi dovrebbe essere chiaro che una persona sola non è in grado di cambiare il partito, se non c’è un’elaborazione collettiva che orienta il verso dell’innovazione.
Piero Fassino ha presentato nel suo intervento un bilancio positivo del decennio, ma un bilancio più sincero dimostra che i problemi veri sono rimasti insoluti, mentre abbiamo pensato solo ad avvicendare i leader. È colpa anche dello Statuto che riduce tutto alla conta sulle persone, chiedendo ai sostenitori solo il voto, ma non la partecipazione alle scelte congressuali. Uno degli autori, Salvatore Vassallo – che stimo per la coerenza e la chiarezza – ha sostenuto che lo Statuto ha cancellato l’idea e perfino la parola congresso. Ha ragione ed è surreale che qui si parli di congresso se non è previsto nella nostra Carta fondamentale. Se vogliamo un vero congresso bisogna cestinare lo Statuto e scriverne uno nuovo. Non si può procedere, invece, con emendamenti ad personam ieri per consentire a Renzi di partecipare alle primarie e oggi per dare tutti i poteri al Tesoriere.
Dovremmo liberare la fantasia per immaginare un congresso inedito, senza cadere nelle ritualità del passato, un colloquio con la società, un’invenzione di nuovi strumenti di partecipazione.
Organizzare gli argomenti per una discussione aperta ai militanti e agli elettori, non solo con le assemblee, ma con focus tematici, gruppi di ascolto e referendum sui punti controversi.
Creare occasioni di approfondimento con gli studiosi, i giovani ricercatori e le istituzioni culturali.
Aprire Forum con le forze sociali e le associazioni di cittadinanza attiva.
Formare una generazione sull’esempio morale e culturale di Giulio Regeni, inviando migliaia di giovani all’estero a studiare i movimenti dei lavoratori e poi ascoltare i loro resoconti in una grande assemblea del PD sul lavoro del ventunesimo secolo.
Organizzare una diversa Festa dell’Unità come EXPO delle buone pratiche dei circoli e degli amministratori per rappresentare la creatività del partito, invece dei soliti dibattiti stile Ballarò.
Introdurre, infine, una regola di apprendimento sociale: chiunque si candidi alla prossima Assemblea Nazionale lasci la propria casa per un periodo andando a vivere nelle periferie del disagio, della mancanza dei diritti e delle rivolte xenofobe. Sarebbe un’intensa esperienza umana e popolare che aprirebbe le menti dei nuovi dirigenti.
Sono solo alcuni esempi per dire che si può progettare un congresso corale, variopinto e appassionante per milioni di sostenitori del PD. A conclusione, certo si sceglierebbe anche un leader, ma non sarebbe più un Cavaliere solitario, avrebbe con sé un popolo che lo condurrebbe alla vittoria.