La fiducia necessaria per ritrovare la salvezza
“Al bisogno di salvezza corrisponde di necessità un’esigenza di protezione che, a sua volta, si lega intrinsecamente alla fiducia”. Lo scrive Salvatore Natoli in “Il fine della politica”. Al fondo di tutto, alla radice della possibile salvezza (intesa qui come soccorso altrui) c’è dunque la “fiducia”. Non solo economica, ma relativa a ogni pratica umana. Lo stesso evocato “ritorno alla normalità”, come auspicano il mondo del PIL e le categorie sociali, non può fare finta che la fiducia, appunto, non serva a niente e basti “riaprire”.
Anche in epoca di pandemia (tanto più!) la fiducia è direttamente proporzionale al grado di protezione, quindi, e alla possibilità di salvezza, come diceva Natoli. Ma non basta proclamarla, bisogna metterla in pratica, infonderla. Più che l’economia qui serve la sanità, e più in generale la sicurezza sociale. Non basta che la destra e le imprese invochino la normalità, quindi, se la normalità ancora non c’è. Peggio ancora “insufflare” (direbbe Berlusconi) l’idea che “voilà, siamo fuori”. Si crea l’effetto opposto, ossia fare credere che la cautela sia ormai troppa e che si tratti semplicemente di aderire al motto oggi in voga, ossia “mo’ basta, ‘sta pandemia ha rotto”.
Se alla radice della salvezza c’è la parola “altro” (e si parla quindi, come dicevo, di salvezza altrui), è evidente che soltanto il mondo non-PIL può guidare la riscossa, non l’egoismo economico, quello che vuole cash, profitti, rendimenti, e che è tipico del mondo della produzione. Anzi, mai come in questa fase di crisi serve la cura più che la competizione individuale, il linguaggio dell’altro più che il linguaggio dell’io. Serve la consapevolezza che senza l’altro, l’io è una scatola vuota, senza la cura non c’è produzione, senza il non-PIL (sanità, istruzione, servizi pubblici e sociali), il PIL è solo la metafora di una caduta.
L’epidemia mondiale, soprattutto laddove la destra o l’irresponsabilità politica non hanno voluto il lockdown per non “fermare” l’economia, è ancora fuori controllo, mentre l’economia stessa è fatalmente crollata. L’interconnessione delle nazioni e dei popoli ci accomuna nel destino, rende l’incertezza globale anche la nostra incertezza e l’altro ben più che una vaga allusione. Senza sanità, scuola, assistenza sociale, protezione personale, senza considerare la debolezza sociale e la salvezza altrui, questa crisi continuerà ad addentarci ai polpacci, alla faccia dell’esortazione a ripartire.
E allora: perché non “ripartire” invece da quella che chiamavamo “sovrastruttura” e che è invece la solida piattaforma della nostra possibile sicurezza, la sola base possibile per un nuovo slancio, il solo benessere effettivo senza il quale la povertà dilaga nonostante i “mo’ basta” e le esortazioni moralistiche a ripartire? Dobbiamo ribaltare il nostro modo di pensare, o meglio ribaltare l’egoismo delle imprese e delle categorie sociali, per rilanciare quella parte di vita comune che il liberismo ha denigrato come spreco, e da questa solida base ricreare la fiducia che ci manca e senza la quale si resta al palo.