La festa del papà, la guerra e la Milano Sanremo
A San Giuseppe, che era un giorno festivo si correva la Milano-Sanremo, Ogni anno, da Milano, Corbetta, Settimo, i vecchi compagni d’armi di mio padre venivano a vedere la corsa sul Turchino.
Insieme avevano vissuto la guerra e lunghi anni di prigionia in Marocco dai francesi. Poi venivano a pranzo a Rivalta “da Giulio”, raccontavano sempre che mentre erano in Sicilia in procinto di partire per l’Africa, molti coscritti entusiasti del fascismo non vedevano l’ora di iniziare a combattere, mentre mio padre e i suoi amici cercavano di tardare la partenza nella speranza che la guerra finisse. Erano tutti di famiglia socialista e non nutrivano alcuna speranza. Quando nelle retrovie raggiunsero i campi di battaglia i fascisti si erano già sfascistizzati ed erano sopraffatti dal terrore.
Ricordavano gli anni di prigionia, gli episodi di solidarietà, la “cattiveria” dei francesi che “non avevano neanche da mangiare per loro” e negavano anche le patate. Proprio le patate erano l’alimento principale che con destrezza rubavano nei campi e cucinavano alla meno peggio.
Sono tornati a casa nel 1946, e mio padre era irriconoscibile dagli stenti, per tutta la vita ha sofferto delle conseguenze della guerra e sono rimasti in amicizia per tutta la vita. E’ curioso che tutti erano tifosi per il Milan, votavano socialista e ora ricordandoli si chiamavano per cognome: Prina Giuseppe, Bianchi, Sartirana Luigi, Rastelli. Nel dopoguerra erano diventati benestanti, Bianchi ragioniere, faceva l’impiegato e teneva la contabilità di una cooperativa di settimo Milanese, era l’unico scapolo. Gli altri erano artigiani.
Quando Sartirana è andato in pensione, è venuto a fare la vendemmia, io avevo circa 25 anni e un giorno mi mise in imbarazzo: mi raccontò che lui e Restelli volevano andare a prostitute mentre tutte le volte, mio padre e Prina si rifiutavano, penso che li ripugnava essere intruppati anche nei bordelli.
Mio padre era di famiglia contadina benestante ma era in un battaglione di milanesi, perchè era nato nel 1916 a Milano dove i miei avi avevano negozi dove vendevano principalmente vino che producevano in Piemonte. Quando tornò dalla guerra e negli anni successivi, la famiglia era decaduta, suo fratello aveva fatto investimenti sbagliati e debiti, per pagarli parzialmente svendettero la cascina di Pianfontana e altri terreni, visse comunque bene, lavorando la terra e vendendo vino soprattutto a Milano, i suoi migliori clienti erano i suoi amici da soldato e i loro amici e parenti.
Quando era vecchio (più giovane di me ora) e malandato ogni tanto lo accompagnavo di malavoglia perchè tra noi c’era sempre imbarazzo, di fatto non ci si parlava. Ora ricordo con affetto i pranzi con Bianchi e le discussioni amichevoli (dalla politica al calcio, alla guerra) con i suoi vecchi commilitoni.
Quando nel 1986 si ammalò gravemente, in questi giorni andai a Milano ad avvisare i suoi amici e clienti per informarli e avvisarli che a parte il vino che c’era in cantina, sarebbe finita un’epoca.
Prina mi disse che mio padre aveva molto sofferto gli anni da soldato e di prigionia, perchè i suoi genitori avevano pagato per fare esonerare suo fratello, più giovane. Per rispetto delle sofferenze di mio padre, mi raccomandò di tenere alla larga mio zio dalle vigne. Quando tornai a casa, lo dissi a mio padre che giaceva moribondo che mormorò “ma cosa ti ha raccontato Prina..” e gli scese una lacrima sul volto. Andai poi a trovare mia nonna che aveva novant’anni era “in gamba e cattiva”, e gli chiesi se era vero il racconto di Prina, mi rispose abbiamo pagato per Alfredo perchè doveva fingersi malato e tuo padre non ne era capace. Mio padre peraltro era sempre stato solidale con quel fratello scellerato, morì ad aprile, prima di Pasqua e don Paolo in chiesa ricordò la sua onestà – era l’anno dello scandalo del metanolo e al funerale intravvidi i produttori di vino che si parlavano concitati, lavoravo in comune e ogni giorno arrivavano fax di vino inquinato.
Come ho detto con mio padre non avevo rapporti, o meglio si poteva scrivere un testo sul complesso di Edipo. Non so come ha fatto a sopportare le mie ribellioni di lungo adolescente, a 16 anni mi ubriacai e finii in ospedale in fin di vita con lui ad assistermi, a scuola negli anni del liceo non ci andavo mai o di rado. Tralascio gli anni della contestazione, ma già da ragazzino stavo fuori la notte e giocavo a tutti i giochi a soldi e no. Un vero perdigiorno e mio padre mi ha sempre lasciato fare quello che volevo. Un giorno nel 1984 ho ricevuto un piccolo premio letterario e ricordò di averlo visto in un angolo della sala felice. Penso che fosse ancor più contento perchè il premio me lo consegnò Pierluigi Romita che all’epoca era ministro alla ricerca scientifica, si conoscevano ed erano in buoni rapporti dal dopoguerra. Poco prima di morire ricevette proprio da Romita una bellissima lettera scritta a mano. Quando sento parlare della prima repubblica, questa lettera mi viene alla mente e non riesco a non paragonare il mondo politico attuale, il livello di decadenza che ci assale da lunghi anni e pare senza via d’uscita.
Dal rapporto difficile degli anni della gioventù sono passato ora, a ricordare mio padre ogni giorno, probabilmente lo ricordo con qualità migliori, lo ringrazio per avermi insegnato a stare al mondo, ho sempre vivo nella memoria un fatto: avrò avuto 10 o 11 anni, e di soppiatto, forse involontariamente ho ascoltato dialoghi tra lui e mia madre: Avevano rubato da un cassetto di casa 50.000 mila lire, e mio padre sospettava un giovane bracciante, andò dal tabaccaio del paese che gli confermò che quel ragazzo aveva cambiato i soldi – che equivalevano a un mezzo stipendio, mio padre diceva a mia madre, che non aveva il coraggio di denunciarlo ai carabinieri perchè temeva di rovinargli la vita, allora lo chiamò e gli disse di restituire i soldi che gli erano rimasti e di cambiare comportamento. Ricordo il dettaglio che “il ladruncolo” gli restituì 43.000.
Negli ultimi due mesi di vita, gli ho fatto molte notti accanto, posso dire che mio padre è morto sereno, quasi con dolcezza non ha voluto confessarsi con il prete dell’ospedale. “in guerra ho visto cose orribili, non riesco di credere che esista un Dio”, e grazie a quei giorni di vicinanza e di dedizione, mi hanno liberato di gran parte dei sensi di colpa che avrei avuto con un altro fine vita.
Tante volte ho cercato una spiegazione ai miei comportamenti e alle tante incomunicabilità, mi mallevo dalle responsabilità: la mia famiglia era femminile, lo scenario principale era occupato da mia madre e dalle zie, gli uomini rari e campeggiavano sul fondo del paesaggio – a parte me che ero il più piccolo e l’unico maschio, che anche fisicamente ero una goccia d’acqua della mia famiglia materna. Molto tempo della mia infanzia l’ho passato con zia Rita, era una buonissima persona, maestra, ripofoba, sessuofoba, zitella, monarchica: ancora oggi mi vesto come mi ha inculcato, “l’uomo deve portare la camicia con le maniche lunghe, le calze corte sono un orrore, colore preferito blu scuro”, il dialetto era vietato. Era di famiglia contadina povera ma anche per via del matrimonio della sorella maggiore frequentava gli ambienti della borghesia. Nelle lunghe vacanze in Versilia raccomandava a me e mia sorella. “non dite che siete di famiglia di contadini”. In quegli anni di spopolamento della campagna: contadino equivaleva a paria. Di fatto non stimava mio padre perchè era un contadino. Ma poi lo so mi racconto un mucchio di balle, di sofismi, un modo per tirare tardi la notte, sentirmi meno solo e chiedermi dove ho sbagliato?