di Alfredo Morganti – 25 settembre 2017
La foto che ritrae assieme Bersani, Civati, Fratoianni e Fassina seduti al tavolo in buona cordialità mi è piaciuta molto. La prendo ad auspicio di una nuova fase unitaria e costituente indispensabile alle rinnovate sorti della sinistra italiana. Debbo dire che per molti Bersani sarebbe seduto a fatica a quel tavolo, forse costretto dalle circostanze, perché lui in realtà avrebbe voluto un’altra cosa. Secondo certuni, non una sinistra unita ma un nuovo PD, derenzizzato, che fosse tornato a essere quel che sarebbe dovuto essere nelle premesse, ossia il partito dove avrebbero trovato una sintesi le culture ‘riformiste italiane’. Obiettivo nobile ma che, in quella forma almeno, oggi si deve considerare fallito, di qui la scissione. Bersani di questo fallimento sente, secondo me, il peso più duro. Non perché se ne consideri il responsabile, ma perché per lui la Ditta è sempre stata cultura, tradizione, appartenenza, impresa collettiva, senso stesso della politica organizzata e militante. Rispetto a tutti gli altri seduti a quel tavolo, dunque, Bersani ha un problema in più. Lui del PD è stato fondatore e segretario. L’idea di unità e di partito è una componente essenziale della sua personalità politica, l’asse portante di anni e anni di vita da dirigente, parlamentare e ministro. È normale che ci abbia pensato molto più degli altri prima di salutare il PD e andarsene. Lo strappo deve essere stato complicato, roba da passare notti insonni. È per questo che, io credo, senta l’obbligo di ‘salvare’ una parte almeno di quella tradizione, che oggi ancora vive nel PD e che si incarna in molti militanti; e di sciogliere una parte almeno del nodo sentimentale e di appartenenza che ancora vi galleggia. Senta cioè l’obbligo o l’opportunità o la necessità di ‘salvare’ l’idea di centrosinistra come idea di popolo che non si colloca sotto specifiche tettoie ideologiche, ma vive il rapporto con la politica, la partecipazione e il partito senza ‘recinti’ specifici, se non un’idea più avanzata di società, più giusta, più equa e con più diritti. Centrosinistra, riformismo questo qui vogliono dire: modificare giorno per giorno lo stato di cose, migliorare la vita di ognuno a partire dagli ultimi, pensare la democrazia come un progetto di partecipazione e non come un complesso di procedure tecniche, pensare le culture politiche in aperta collaborazione in una sinistra di governo secondo una vivissima idea di libertà.
Bersani ha un problema in più rispetto al restante tavolo, dicevo, perché nel PD lui non era certo uno di passaggio. È stato al vertice di quel progetto. E poi ne ha scorto tutti i limiti, il vicolo cieco in cui si stava cacciando, decidendo infine di andarsene. Ed è per questo che è attaccato strumentalmente e quotidianamente da chi nel PD c’è rimasto, a partire da Renzi. Giorni fa lui e D’Alema erano due “gruppettari”. Oggi ‘Repubblica’ racconta così una parte del discorso del segretario PD alla Festa dell’Unità (unità?) di Imola: «A Bersani Renzi riserva il passaggio più duro: “Qualcuno, proprio da queste terre, ci ha insegnato l’importanza di parole come collettivo, e ditta e poi alla prima occasione ha lasciato la ditta per risentimento. Ma noi siamo la sinistra di Barack Obama, non quella di Bertinotti”. È la rottamazione definitiva, suggellata dall’applauso più intenso e liberatorio della platea». Alla prima occasione? Ma troppo ha aspettato! E se ha tirato molto la corda è perché quella genìa di anziani dirigenti non approdava alla politica per tornaconto, per vincere, per ambizione personale, per fare il figo da un palco o in tv. Vi arrivava perché si assumeva la responsabilità di essere portavoce dei bisogni e del disagio dei lavoratori, dei cittadini onesti, dei senza diritti, degli ultimi di questa società. Ora sentirsi definire ‘traditore’, perché questo è il senso delle frasi renziane a Imola, non fa bene. Si ha quasi la conferma che è necessario rispondere coi fatti, riproporre un nuovo ‘centrosinistra’, sfidare il PD proprio su questo terreno, per parlare a elettori, cittadini, militanti che si riferiscono ancora a questo campo denominato ‘centrosinistra’. Poi certo, Bersani è uomo di sinistra, a quel tavolo con Fratoianni e gli altri ci deve, ci vuole e ci sa stare, perché l’unità per uno come lui, per quei dirigenti, è una specie di seconda pelle. Ma resta un pensiero, un’idea suppletiva, per la quale l’unità della sinistra potrebbe essere anche il volano di un raggruppamento più largo, e di un partito più ampio, e di un popolo meno circoscritto. Ecco perché la partnership con Pisapia: non solo per contrastare le tattiche renziane, ma per immaginare una sinistra più ampia. Nell’idea che questa modalità ‘larga’ possa essere la strada migliore, la più efficacie per la sinistra e per la democrazia italiana in questa fase così delicata. Con un partito nuovo che nella sua fase costituente sappia accogliere donne e uomini senza etichette, ma solo perché pronti a collaborare alla trasformazione del Paese in senso più giusto.
Un’idea che si può contestare, che è legittimo contestare, guai a non farlo se la si ritenesse politicamente sbagliata, ma che ritengo sarà comunque uno dei punti di dibattito del prossimo futuro a sinistra. E ve lo dice uno che non ama la parola ‘centrosinistra’, ma pensa che la sinistra debba sentirsi davvero plurale e provare a parlare a un’area più grande di se stessa e dei propri confini. Una volta usavamo la parola ‘egemonia’, ed era un concetto che apparteneva alla nostra langue. Oggi invece appariamo un pochino frontisti, trincerati dietro il timore di una fase difficile e di un futuro che ci appare sconosciuto e complicato. Invece di un passo avanti preferiamo due indietro. Perciò sono curioso di vedere cosa ci riserveranno la fase costituente e i tavoli futuri della sinistra, di cui auspico la prossima apertura.
2 commenti
Grazie per questo contributo che interpreta il mio sentire e che mai non sono riuscito ad esternarlo, propagandandolo all’esterno. La situazione è questa i compagni di quel tavolo debbono trovare il modo di prendere in mano la bandiera del riscatto politico, istituzionale e sociale. Bersani ha sofferto e dato molto, può ancora essere una guida, un protagonista, insieme a Pisapia e agli altri dirigenti della sinistra. Credo che come altri compagni siamo pronti a dare una mano per rinnovare l’Italia e L’Europa, che non possono divenire appendici subalterne a disegni e strategie contrarie al progresso, ai diritti, alla pace.
Confesso di aver riflettuto a lungo prima di lasciare il PD, ma a differenza di Bersani il mio vero trauma fu nel 1990, quando fu sciolto il PCI e io aderii a Rifondazione comunista, che lasciai qualche anno dopo …. per tornare nella Ditta (ho combattuto una vita contro i “gruppettari”). Come tanti oggi sono combattuto tra l’idea bersaniana (nuovo centro-sinistra) e quella di Fratoianni. Magari si arrivasse a una sintesi!