Fonte: facebook
di Matteo Pucciarelli – 14 agosto 2017
La discriminazione è quanto di più odioso un essere umano possa infliggere ad un altro; non si viene valutati per ciò che si è, ma per i propri orientamenti politici, religiosi o sessuali. O per la razza di appartenenza.
Da giornalista, quando ho potuto, ho sempre provato a denunciare tutti i casi di discriminazione subiti da omosessuali, lavoratori, militanti politici.
Invece a volte la discriminazione la vivi ogni giorno, nel tuo profondo, e un pudore misto a vergogna non ti permette di denunciarla in maniera altrettanto forte. Ma solo così, privatamente, ad amici fidati o di lunga data.
Allora oggi sento il bisogno umano di rompere il muro, la barriera, di questo pudore e di questo dolore, raccontando parte della mia storia.
Una decina di anni fa, in piena libertà e coscienza, ho deciso di abbandonare la fede religiosa con la quale mi avevano cresciuto i miei genitori, quella dei testimoni di Geova. Lo ho fatto per un semplice motivo: non credevo e non credo nell’esistenza di dio; a maggior ragione non credevo più nella loro dottrina. Non avevo scelto quel culto, mi era stato imposto. Una volta cresciuto, ho esercitato il diritto di scegliere per me.
Da quel giorno, come le regole della comunità prevedono – norme al di fuori non solo del tempo, della ragione, della civiltà ma anche dei dettami costituzionali di questo Paese – ho di fatto perso i miei genitori, le mie tre sorelle, mio fratello. Mai più una riunione familiare, naturalmente nessuna festa, nessun invito al matrimonio di due di loro che nel frattempo si sono sposati, telefonate sporadiche (una, due l’anno; adesso neanche quelle). La tua vita va avanti comunque, ma loro non ci sono, non possono né vogliono esserci.
Posso venirvi a trovare? «Lo sai già, non abbiamo piacere».
Le normali difficoltà di un ragazzo, ma anche una piccola conquista, un articolo in prima pagina, un trasloco da fare, un rapporto d’amore che si rompe, una scelta importante da affrontare: non c’erano, non volevano esserci, non ci sono. Perché non credo nel loro dio, nel loro libro né tantomeno nella interpretazione che gli danno.
La discriminazione fa male e umilia. È cieca e non ha nulla di razionale. Non puoi chiederti dove sbagli, se puoi rimediare, se puoi migliorare o cambiare qualcosa: la subisci e basta.
Ma non è una storia solo mia. Lo stesso trattamento per lo stesso identico motivo lo patiscono, ogni giorno, migliaia di persone in questo Paese. E la stragrande maggioranza di loro, come me, lo vive in silenzio. Non abbiamo un nostro Pride, purtroppo.
L’unica cosa che posso fare o dire, per chi ne sa poco o niente, è di non fermarvi alle apparenze, ai sorrisi accattivanti di chi vi suona al citofono o vi ferma per strada con una rivista in mano: dietro una maschera innocua c’è la privazione della libertà – propria e quella altrui – di amare finanche ciò che sarebbe più naturale amare. Sappiatelo e fatelo sapere.
E da domani in poi, tranquilli, torniamo pure a cazzeggiare di politica, giornalismo e (dis)umanità varie.