Originale e conturbante, Gioventù senza Dio (Jugend ohne Gott) uscì nel 1937 ad Amsterdam: l’anno dopo, esattamente il 1° gennaio, il suo autore – un nobile ungherese, nato a Fiume nel 1901 e vissuto a Budapest, Monaco di Baviera, Vienna e Berlino: dopo l’Anschluss (l’annessione dell’Austria alla Germania del 12 marzo 1938), fuggì prima in Svizzera, poi a Parigi – morì in un modo assurdo, schiacciato da un albero colpito da un fulmine durante un furioso temporale, il 1 giugno di quell’anno: stava lavorando all’adattamento cinematografico di quest’opera e voleva trasferirsi negli USA.
In quello stesso anno, il libro fu inserito nella Liste der verbannten Bücher (Elenco dei libri proibiti) dal regime nazista: prova evidente di quanto il bersaglio polemico, colpito con straordinaria efficacia, fosse proprio la gioventù tedesca di quegli anni, sedotta dal culto della violenza e dall’ “uomo forte al potere”, qui ripetutamente definito il plebeo in capo: si noti, comunque, che mai nel testo compaiono termini come “nazismo” o “regime” o “dittatura”.
Per avere la traduzione italiana, bisogna aspettare il 1948, a cura di Bruno Maffi, nella collana “Letteraria” di Bompiani: ma oggi sappiamo – desumo tali informazioni dalla Nota al Testo, pp, XVII-XVIII dell’edizione Bompiani 1974¹ 2020 –, che quest’importante scrittore (1909-1989, giornalista de La Stampa, La Nazione e il Nuovo Corriere di Firenze; partigiano e autore di racconti e romanzi, tra i quali va ricordato Il bottone di Stalingrado con cui vinse nel 1972 il Premio Viareggio) ne aveva già pubblicato una sua traduzione, condotta però su una versione francese, uscita senza firma e a puntate nell’edizione serale della Nazione del Popolo dal 18 aprile al 25 maggio 1946. Fu sempre Bilenchi a proporre a Bompiani la pubblicazione della traduzione italiana di quest’opera, scrivendo direttamente all’editore: La pubblicazione stessa non è stata fatta a scopo di lucro (come ti ho scritto, la traduzione è stata mia fatica personale) ma per far conoscere ai lettori un buon libro e una situazione politico sociale della Germania nazista. Alla fine, però, Bompiani preferì la versione di Bruno Maffi, che quella di cui ora disponiamo.
Horváth è qui un cultore della misura breve: direi anzi, brevissima nel periodare che procede per frasi secche ed essenziali.
Uno stile brutalmente paratattico, ansiogeno. E anche la dimensione dell’opera è succinta, all’incirca 150 pagine.
L’io narrante è un insegnante di storia e geografia, che ha appena compiuto trentaquattro anni: più o meno, la stessa età dell’autore.
Nella prima pagina lo troviamo alle prese col mazzo di fiori che gli ha regalato la padrona di casa per il suo compleanno e con la lettera di auguri dei suoi genitori lontani, che gli augurano che Dio Onnipotente gli conceda salute, felicità e contentezza.
Da ciò scaturisce l’immediata riflessione sulla consapevolezza che egli ha, invece, di non essere per nulla soddisfatto di sé. Anche se dovrebbe esserlo, perché gode di una posizione sociale che gli dà diritto a una pensione; e non è poco, in tempi in cui nessuno sa se domani la terra girerà ancora. Quanti si leccherebbero le dita al tuo posto. La percentuale dei candidati ammessi all’insegnamento è talmente irrisoria. Ringrazia Iddio di far parte del corpo insegnante di un liceo, cosa che ti permetterà di invecchiare senza preoccupazioni materiali.
Considerazioni di basso profilo, disincantate, piccolo-borghesi in fondo: va ricordato che il primo vero successo letterario di Horváth fu nel 1930, col romanzo Der ewige Spießer (Il piccolo borghese: Spießer significa borghesuccio, la traduzione più corretta di quel titolo dovrebbe essere: L’eterno borghesuccio).
Il protagonista, dunque, non è un eroe, ma un uomo “normale”, un funzionario dello Stato, che però vive con profondo disagio il suo tempo, sentendosi in assoluta disarmonia con quella società e coi suoi alunni: Che cosa diventerà, questo diavolo di generazione? Dura o solamente brutale?
Tutto parte dalla correzione di quei compiti, che gli tocca fare anche nel giorno del suo compleanno (Il dovere innanzi tutto). Come titolo aveva dato: Perché abbiamo bisogno di colonie? E via a leggere affermazioni banali o brutali formulate per iscritto dai suoi ventisei alunni, che lui distingue (prassi costante in tutto il libro) solo per le iniziali dei cognomi, facendo anche qualche confusione, perché vi sono ben cinque B., quattro S., tre M., due E., due G., due L., due R. un F., un H., ecc…: un modo di denunciare l’eclissi delle individualità e il trionfo dell’omologazione? (en passant, in un momento di forte introspezione psicologica, apparentemente avulso dal contesto, l’Autore afferma di sentire nella sua mente una musica, una cantilena dal titolo: “L’individuo è merda”).
Correggendo i compiti, il professore si imbatte in un’affermazione che giudica del tutto inaccettabile, perché troppo stupida: “Tutti i negri sono mascalzoni, vili e pigri”.
Qui disattende il suo proposito di non intervenire sui contenuti degli elaborati, ma solo sulla loro forma, e scrive in margine con inchiostro rosso: “Assurda generalizzazione!”. Per giunta, quando consegna i compiti, dice a voce all’autore di quella genialata: Scrivi che noi bianchi siamo, per cultura e civiltà, superiori ai negri, e probabilmente hai ragione. Ma hai torto di scrivere che non ha importanza che i negri vivano o no. I negri cono uomini come noi.
Leggiamo bene questa affermazione. Da una parte quel docente, pure lui figlio del suo tempo, non è affatto immune da quello che oggi chiamiamo suprematismo bianco (per lui è probabile che i negri siano culturalmente inferiori ai bianchi!); dall’altra, però, arriva ad affermare che sono uomini come noi.
Affermazione inaccettabile per quell’epoca storica in Germania, che gli procurerà guai a non finire, dalla violenta contestazione del padre dell’alunno autore di quel compito (“Mi sembra che lei non si renda ben conto di che cosa significhi una simile dichiarazione sui negri. È una forma di sabotaggio della patria.”) sino alla lettera, firmata da tutti gli alunni, con la quale l’intera classe afferma di non volerlo più come insegnante (“Non vogliamo più averla come professore, poiché dopo quello che è accaduto, noi sottoscritti non abbiamo più fiducia in lei e chiediamo un altro insegnante”).
Quindi, un docente che invitava a ragionare, a non formulare affermazioni generaliste, illogiche e immorali, era impopolare, veniva ricusato dall’intera classe, in barba ai principi di disciplina e autoritarismo vigenti: quegli alunni odiano qualunque pensiero. Se ne infischiano dell’uomo. Vogliono essere delle macchine: delle viti, delle ruote, delle bielle. O meglio ancora delle munizioni: bombe, shrapnel, granate. E, in fondo, realizzeranno davvero il loro sogno, come prevede il disincantato preside, a cui preme solo arrivare indenne all’intera pensione: dobbiamo prepararli moralmente alla guerra. Punto e a capo!
La questione del razzismo e le relazioni all’interno della scuola costituiscono solo le premesse di una ben più ampia riflessione, che procede dallo storico al metafisico. In gioco c’è molto di più:
Il Giusto è ciò che giova alla tribù, dice la radio. Quello che non ci dà un utile è ingiusto. Quindi tutto è permesso, il furto, il delitto, l’incendio, lo spergiuro. Che cosa dico “permesso”? Non sono più neanche delitti, se compiuti nell’interesse della tribù…E questo che cos’è? Il punto di vista del criminale.
Queste frasi sono, a parer mio, importantissime.
Se a “radio” sostituiamo “media, social”; se riflettiamo sul dominio dell’ “utile” anche in recenti proposte educative (i reiterati appelli ad una scuola che sia “professionalizzante” e subordinata al mondo del lavoro); se riflettiamo sul permissivismo pedagogico, sulle indulgenze nei confronti delle bravate, delle “ragazzate”…: insomma, se analizziamo molti di questi elementi, possiamo concludere che sono presenti anche nella nostra realtà attuale e temere, a ragione, che dalla loro connessione possa scaturire una miscela pericolosa, perfetta per intorpidire le menti ed estinguere ogni principio di responsabilità. Perché è da quest’humus che possono nascere, che nascono conseguenze gravi, irreparabili: da premesse storte a conclusioni false, come scrive Horváth.
Così si finisce anche per giustificare la rissa, la violenza, la sopraffazione: il professore coglie sul fatto quattro ragazzi che assieme stanno picchiando un loro compagno e chiede ragione di tale comportamento (quatto contro uno, è una vigliaccheria!): scopre che la vittima aveva osato reagire ad un sopruso, gli altri gli avevano rubato un panino, non per mangiarlo, ma solo per lasciarne senza lui. E l’avevano buttato dalla finestra nel cortile.
Ma il professore ha fatto male ad intervenire, gli aggressori non si vergognano, parlo loro una lingua sconosciuta. Mi guardano con occhi stupefatti. Soltanto la vittima sorride. Sorride di me.
Vanno tutti fieri della violenza, vivono in un paradiso di stupidità, e il loro ideale è il sarcasmo: altre affermazioni che a me suonano pericolosamente attuali.
Non ci può essere dialogo educativo tra quei ragazzi e quell’insegnante: i primi hanno fame di realtà, vogliono crescere velocemente e affermare sé stessi senza alcun freno morale; il secondo è un freddo osservatore di tutto ciò che lo circonda – qualcuno di loro l’ha soprannominato il pesce…perché la sua faccia è sempre così immobile e non si sa mai cosa pensa e se pensa. Diciamo sempre: “Il professore non fa che osservare” – ma è l’unico adulto… che ami la verità.
Gli studenti, ieri come oggi, giudicano il loro insegnante: uno di loro arriva ad affermare davanti al giudice – ci saranno anche un delitto e un processo nel corso delle vicende narrate: non è mia intenzione, ovviamente, raccontare qui la trama –:
“Le idee del professore mi sembravano spesso un po’ infantili. […] perché il professore ci parlava sempre del mondo come dovrebbe essere e mai come realmente è.”
E istantaneamente quelle parole danno di che pensare al giudice (e al lettore) che le ascolta:
Il presidente (del tribunale dei minorenni, nda) lo guarda stupefatto. Sente che il ragazzo sfiora una zona in cui domina sovrana la radio? In cui le aspirazioni morali sono dei ferri vecchi, mentre ci si prosterna davanti alla brutalità del reale?
Anche queste sono considerazioni importanti: il potere pervasivo della radio (allora!; di tutti quanti i mezzi di informazione, oggi) per l’educazione (o diseducazione?); la dittatura della brutalità della realtà, alla quale tutto soggiace; lo sprezzo delle aspirazioni morali, inutili come ferri vecchi; i ragazzi, spavaldi e spregiudicati, che disprezzano o compatiscono l’insegnante, perché è un inguaribile sognatore, un idealista che non fornisce loro gli strumenti per affrontare e dominare la realtà a loro piacimento.
Forse queste sono le opinioni del professore (e dell’autore, nella costante sovrapposizione del libro) che vengono attribuite anche al giudice; più probabilmente, invece, era allora proprio cosi: quanto rischiamo che ciò possa riaccadere oggi?
Ma perché quel titolo: Gioventù senza Dio? Cosa si intende per “Dio”, qui?
Ci sono pagine intense, di notevole portata speculativa, che chiamano in causa la perdita della fede del docente (Io ho perduto la fede durante la guerra. Era troppo chiedere a un giovane negli anni migliori di capire come Dio permettesse una guerra mondiale) e i convincimenti del parroco con cui dialoga, che arriva ad affermare: Dio è ciò che c’è di più terribile al mondo.
Che significa quest’espressione lancinante, intenzionalmente provocatoria, che diventa un refrain?
Credo che ciascun lettore debba ricavare da solo il senso dalla lettura dell’intera opera. Certamente, questa idea di Dio non è né buonista né consolatoria, anche se qualche barlume di positività si può intravvedere.
Al professore che a modo suo ritrova la fede e si chiede: “Se soltanto si sapesse dove abita Dio!” un vecchio tabaccaio risponde: “Abita dovunque non è dimenticato…Abita anche qui da noi [intendendo, a casa sua, dove vive con la moglie, nda] perché non bisticciamo mai”.
Almeno questo, forse, è chiaro: Dio abita dove è la pace, l’armonia; ma quelli sono tempi di violenza e di preparazione della prossima guerra.
Dio abita dove gli uomini si ricordano di lui: ma quei giovani non ne sanno nulla, l’hanno del tutto dimenticato (Di Dio, nessuno parla).
Non così l’insegnante, per il quale il problema di Dio è una sorta di idea fissa, dalla quale non può liberarsi.
Mi verrebbe da dire, laicamente, che Dio è qui anche e soprattutto la coscienza, che scuote l’anima del professore e lo trasforma da passivo testimone a determinato protagonista per la sua ostinata ricerca della verità che lo porta alla soluzione del caso, sino alla conclusione tragicamente positiva, catartica: poiché, nonostante tutta la nostra corresponsabilità nel male, è bello, è magnifico, quando un malvagio è annientato.
Sarà così, ma senza alcun particolare entusiasmo.
Più volte viene ripetuta – altro refrain – una fosca profezia: Andiamo verso tempi freddi; tempi freddi ci attendono.
Noi oggi sappiamo benissimo verso quali tempi si stesse drammaticamente procedendo: quelle divisioni di gente senza carattere, al comando di idioti, tutti con lo stesso passo hanno marciato convinte verso una guerra di immani proporzioni, verso una catastrofe assoluta.
Chi sono stati i responsabili di ciò? Certamente quei giovani (li credo capaci di tutto. È una gramigna: meriterebbero di essere sterminati), ma anche e soprattutto coloro che li hanno “educati” (??) così: è possibile paragonare questo aspetto con le osservazioni sulla pedagogia tedesca prima della Grande Guerra formulate da Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), in particolare sul processo di spersonalizzazione:
Coi nostri giovani occhi aperti vedemmo come il classico concetto di patria, quale ce lo insegnarono i nostri maestri, si realizzasse per il momento in una rinuncia della personalità, quale mai non si sarebbe osato imporre alla più umile persona di servizio.
Come si può constatare, da questo punto di visto ci fu in Germania, e non solo, una sostanziale continuità tra il primo decennio del Novecento e gli anni Trenta di quello stesso secolo.
L’io narrante della nostra opera, questo docente solitario, senza veri amici e senza stabili affetti, se non i troppo lontani genitori; questo docente poco più che trentenne e però già così vecchio per i suoi alunni – riuscirà a salvarsi da quel tempo e da quel luogo, potrà procedere verso altri cieli, come dice il titolo dell’ultimo capitolo: vorrei fermarmi su questo barlume di positività che suggella l’opera e ricavarne un monito.
Con la cultura, con la consapevolezza critica, con la determinazione a seguire sempre la verità, a non cedere a compromessi, a non giustificare mai l’odio e la violenza ci si può salvare.
Ma solo se si crede in qualcosa che non si riduca unicamente alla realtà materiale; solo se ai giovani si propone una ben diversa educazione da quella di quel tempo; solo se si studia la storia e si leggono libri come questi, che scuotono menti e coscienze.
E perché questa salvezza non sia del tutto solitaria ed individualistica occorre “contagiare” le classi, i gruppi di giovani, col proprio entusiasmo e con lo studio, la ricerca, l’analisi di quei pensieri e di quelle aspirazioni morali che non sono affatto vetusti e inservibili arnesi, ma semmai l’unico antidoto all’imbarbarimento sempre in agguato.
Perché, per fortuna, c’è sempre qualcuno a cui non piace sfilare e a cui non va la storia del comando e i discorsi ripetuti sempre eguali, come meccanici slogan, che alla fine vengono valutati per quello che sono: pure stupidaggini. Stefano Casarino