LA DIAGNOSI, LA CURA

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Raniero La Valle

La tempesta che si è abbattuta su di noi con questa pandemia svela il pensiero di molti cuori. Il primo a essere svelato è il cuore della Chiesa, che mai è stata così “prossima” all’umanità intera come ora. Certo essa è stata sempre vicina ai suoi fedeli, ma c’è voluto un papa come papa Giovanni per dire, in punto di morte, che “ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque il diritto della persona umana e non solo quelli della Chiesa cattolica”; e ciò non perché “è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
E questo lo vediamo ogni mattina nella messa che Francesco celebra a Santa Marta, che ormai perfino la TV italiana riprende; un papa intriso di dolore, che condivide con tutti, si tratti dei morenti nella solitudine o dei senza tetto sdraiati tutti insieme, “in osservazione”, in un parcheggio di Las Vegas.
E lo abbiamo visto realizzarsi venerdì 27 marzo quando, sotto la pioggia apparentemente disabitata di piazza san Pietro, si è prodotto un evento che è sembrato prefigurare un nuovo modo di essere Chiesa. Per la prima volta quella piazza è apparsa non come il recinto del tempio, ma piuttosto come l’atrio delle Genti, e in esso è sceso un sacerdote uscito dal santo dei santi a officiare non per i suoi, ma per tutti. Già il mercoledì precedente nella preghiera cristiana del Pater noster il papa aveva voluto riunire i cristiani di ogni confessione. Ed ecco che ora veniva chiamata a raccolta tutta la Terra. Non cambiava la Chiesa, l’ekklesìa, cioè l’assemblea, ma questa volta era invisibile, fermata agli ingressi dal virus, e tuttavia proprio per questo più vera, perché in quell’assenza si faceva presente l’umanità tutta, all’ora della sua prova; e si è visto il papa ai piedi della basilica di san Pietro, e non dal balcone, abbracciare il mondo intero, perfino quelli che non erano nemmeno collegati “attraverso le diverse tecnologie di comunicazione”, come al momento della benedizione ha detto il cerimoniere pontificio, ma vi si univano “col solo desiderio”. Il rito era quello dell’indulgenza che viene “concessa”, come dicono i vecchi canoni, per la “rimessione della pena temporale dovuta per i peccati”; ma ormai dalla Bolla “Misericordiae vultus” che indisse l’Anno della misericordia sappiamo che l’indulgenza non è un pareggiare i conti coi peccati, ma intende piuttosto cancellare “l’impronta negativa” che essi hanno lasciato nei comportamenti e nei pensieri del credente, sulla cui intera vita si estende il perdono di Dio. La controversia con Lutero è davvero lontana. E a essere eletti sono tutti; c’è una potenzialità salvifica del desiderio, a cominciare dal desiderio di Dio, tutti quelli che solamente lo desiderano, sono accolti dal Padre, sono cittadini del cielo.
Ma non sono svelati solo i pensieri del cuore di Dio. È messo a nudo il cuore degli uomini, e molte cose che erano nascoste, vengono invece alla luce. Il tempo della pandemia è un tempo di rovesciamenti. Il più mirabile è che proprio quando più siamo e dobbiamo essere separati gli uni dagli altri, più siamo vicini, e quanto più il mondo diventa una pelle di leopardo di quarantene, più esso si unisce. Scattano forme imprevedibili di solidarietà. Pensavamo che i gemellaggi non servissero a niente, magari solo a un bel viaggio dei rispettivi sindaci o consiglieri. Ed ecco che a Recanati, gemellata chissà perché con la città cinese di Xiangcheng, arrivano porto franco 60.000 mascherine direttamente da quella contea dell’Henan, e negli ospedali del Nord arrivano medici e attrezzature da Cuba, dalla Russia e dalla Cina; e nell’area più tormentata, a Bergamo e Brescia, arrivano 30 medici e infermieri dall’Albania, ciò che il suo Primo ministro, Edwin Rama, motiva dicendo: “non siamo ricchi, ma neanche privi di memoria”. Si tratta della memoria non solo dell’Italia che accolse i profughi e i naufraghi albanesi in cerca di un nuovo destino, ma dell’Italia che nel 1991 organizzò una spedizione militare oltremare per aiutare il Paese. Si chiamò “operazione Pellicano”, durò due anni, i soldati portarono cibo e medicinali (e talvolta anche il loro rancio) fino alle più sperdute contrade delle montagne albanesi; e per cancellare il ricordo dell’invasione e annessione di quel regno all’Italia perpetrate dal fascismo, quell’esercito andò e operò in Albania senza portare armi con sé, per la prima volta una Forza Armata senz’armi. Le destre in Italia erano furibonde.
A fronte di questi legami universali che si vanno tessendo nel pieno di una crisi di proporzioni inaudite, c’è un’Europa che non risponde a questa “chiamata della storia”, come la definisce il nostro presidente del Consiglio; ci sono Paesi che vogliono tenersi strette le loro ricchezze, come l’Olanda, che non vogliono rischiare, come la Germania, che buttano a mare la democrazia, come l’Ungheria, o che perfino sono stati tentati di brevettare e non condividere gli eventuali rimedi trovati contro il virus, come gli Stati Uniti di Trump. Si possono deplorare queste storture, ma più importante ancora è ricavarne la lezione. E la lezione è che ormai i problemi da cui dipendono la vita, la salute e la stessa sopravvivenza del mondo si pongono a livello globale e non possono essere affrontati né trovare soluzione che allo stesso livello globale. “Siamo tutti nella stessa barca”, parola di papa; e questa non è una pia esortazione, una mozione degli affetti o semplicemente una pretesa etica. È una notizia, è una diagnosi.
Ma al contrario di quanto avviene col virus, per il quale non si riesce ad andare oltre la diagnosi, qui la risposta, la cura, la possiamo adottare. Ed è il salire a una nuova e più vera dimensione dell’internazionalismo: non quello delle aggregazioni regionali e parziali, ma quello della mondialità e dell’intero. Le intese, le alleanze, le integrazioni stipulate tra singoli Stati o racchiuse in determinate aree geografiche sono state dettate finora da finalità specifiche e interessi particolari, economici e politici. Si pensi al Patto atlantico, al Patto di Varsavia, all’Organizzazione degli Stati americani, alla Lega araba, al Mercosur, al CETA, alle Comunità economiche africane; l’Europa stessa, che oggi è tutt’uno col suo regime economico ma è stata mitizzata come creatura nata da un patto tra ex nemici, ha il suo vizio d’origine nell’essere stata pensata e costruita come “piccola Europa”, ristretta a sei Paesi militarmente integrati e contrapposta a tutta l’altra Europa a sua volta arroccata dietro il suo muro e la cortina di ferro elevata da entrambe.
Queste unioni sono state prodotte dalla storia e dalla politica, ne subiscono i contraccolpi, e sono tormentate e precarie secondo l’artificio che le ha generate. Anche l’unione dell’intera collettività umana che giunga a costituirsi come nuovo soggetto giuridico sulla terra, sarebbe un prodotto della politica e della storia, ma, di più, essa sarebbe anche secondo natura. Natura e diritto, giustizia e pace potrebbero allora baciarsi in una Costituzione della Terra.

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