La deriva plebiscitaria di un Paese che ha smarrito il senso dello Stato

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Michele Prospero
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di Michele Prospero – 5 gennaio 2016
Partono i comitati in difesa della costituzione. E’ necessaria una nuova mobilitazione perché avanza una insidiosa concezione del potere. Ed è di tipo discendente. Il popolo non conta nel momento dell’investitura. A Palazzo Chigi si può entrare con un sereno colpo di mano. Il popolo, a cose già fatte, può decidere solo se gradisce continuare con chi ha conquistato in dote il governo o se invece con un mormorio preferisce mandarlo via.
Non con un nuovo voto però, perché il congelamento della volontà popolare continua, senza inibizioni. E del resto l’ambiguità originaria della situazione istituzionale odierna è che il parlamento, eletto in modo illegittimo, è però autorizzato a restare in funzione per il ristabilimento della normalità. Il sistema entra così nel più classico dei paradossi, quello cioè di dover recuperare la necessaria forma legale con la decisione affidata proprio a chi della rottura della norma è espressione.
L’invito che la Consulta ha rivolto al parlamento, affinché utilizzasse il tempo residuo del suo esercizio legale del potere per il ripristino delle condizioni di equilibrio costituzionale, si è rivelata una raccomandazione utopica. Chi dalla tecnica elettorale manipolata estrae un plusvalore in seggi, che regala un potere illegittimo, non cede certo ai sublimi richiami della forma.
La raccomandazione della Consulta, confidava in una metaregola, quella della cultura della responsabilità condivisa dagli attori politici. Ma questo è proprio il punto dolente, e il Pd ha approfittato del premio che la legge arbitraria gli ha offerto per fabbricare le condizioni di un vantaggio competitivo, con la scrittura di regole non condivise dagli altri attori.
La tara originaria di una legge elettorale viziata da cronici problemi di costituzionalità non viene cancellata, al contrario. Il “Corriere” scende il campo a difendere l’Italicum perché ha sì dei difetti, ma è una tecnica destinata a durare poco, quanto la leadership di Renzi. Così scrive senza scomporsi Angelo Panebianco, teorico della legittimità della legge elettorale ad personam. Ogni leader del momento si fa la legge elettorale che più risponde alle sue aspettative di gloria.
E’ un panorama non proprio tipico di una solida democrazia costituzionale. Dapprima il governo espropria in aula, con forzature regolamentari d’ogni genere, il concorso della minoranza al cammino della riforma elettorale e costituzionale. E poi fa schiaffeggiare l’opposizione dalla gente, convocata dal premier per dare sostegno alla volontà del capo di imporre la sua legge sul riordino del senato. In tal modo, il referendum diventa una variante dell’acclamazione con la quale il capo, senza una specifica gara competitiva tra diverse offerte politiche, riceve una conferma indiretta dei gradi del comando e umilia le funzioni costituzionalmente protette delle minoranze.
La revisione della costituzione, da tipica competenza parlamentare, diventa una prerogativa del capo di governo. Non solo. Oltre che della funzione costituente, l’esecutivo si impossessa anche della competenza dell’opposizione, sottraendo alla minoranza il potere estremo del referendum costituzionale in difesa della carta. Quello previsto ad ottobre non è quindi un normale referendum chiesto dall’opposizione, ma un rito imposto dal governo che affida a un quesito sul senato la decisione se confermare o mandare a casa lo statista di Rignano.
Insomma, si opera nel più completo stravolgimento delle forme della politica. Il popolo escluso come fonte di legittimazione della maggioranza di governo, diventa il canone di giustificazione della persistenza al comando di chi al potere c’è già, e senza alcun passaggio attraverso le urne. Se il premier ritiene di aver bisogno di una legittimazione ora assente, ricorra alla via costituzionale prevista, cioè passi attraverso il voto. Non manipoli le istituzioni con il plebiscito.
Che tutto ciò evochi una pratica del potere estranea alle culture del costituzionalismo democratico è palese. Solo un leader che schiaffeggia le grandi tradizioni repubblicane può escogitare un referendum-acclamazione nel quale gioca il proprio destino politico. E solo a un paese che ha perso ogni senso dello Stato, e ha logorato qualsiasi rispetto delle istituzioni, può capitare di convivere con questa tipologia di leadership politica, che si fa largo incurante della complessità delle regole costituzionali e nel vuoto di efficaci custodi della carta.
A 70 anni dalla nascita della repubblica, tocca di nuovo al popolo decidere se ripristinare le forme di un governo parlamentare, o accettare la forzatura di un opaco potere personale investito dai gazebo e desideroso di rimanere in sella con regole e controlli di legalità evanescenti.
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