La crisi della globalizzazione: una guerra inevitabile?

per Giacomo
Autore originale del testo: James k. Galbraith
Fonte: Socialeurope
Url fonte: https://www.socialeurope.eu

di James k. Galbraith – 14 maggio 2018

Traduzione di Giacomo Piacentini

Nel suo ultimo libro Kari Polianyi  Levitt fa notare che la parola “globalizzazione” non può essere rinvenuta nei dizionari di Inglese antecedenti al 1994 né nei programmi di spelling di quell’epoca. Se il termine apparve in quel momento un po’ dal nulla c’è un motivo: per portare una luce di benigna inevitabilità sul progetto di egemonia occidentale proposto come unica soluzione al crollo dell’Unione Sovietica.

Oggi, mentre scrivo nell’occasione del duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, questo progetto potrebbe rivelarsi non all’altezza delle aspettative e potrebbe stare barcollando sull’orlo del proprio baratro. Tutto ciò per tre ragioni: una è la Cina, la seconda è la Russia, la terza nonché la più importante è la mancanza di una regolazione della finanza in Europa e negli USA.

La grande idea degli anni ’90 era che un ordine mondiale  unificato, aperto e liberale dominato dalle banche potesse portare democrazia e prosperità in Oriente. Quest’idea, giusto per essere sicuri, era stata più che testata nel Sud del mondo durante gli anni ’80, un’esperienza che prese il nome di “decennio perduto”. In Oriente, però, era un’idea fresca, nuova – e molti la ritenevano anche corretta, almeno fino a un certo punto, nei principali momenti di scomparsa del socialismo di second’ordine in Europa.

Le illusioni durarono ben poco. In Russia erano già state schiacciate dai carri armati di Yeltsin nel 1993 e poi dalla palese corruzione dietro alla sua rielezione del 1996. Nel frattempo, la promessa di prosperità si era dissolta in un’orgia di privatizzazioni, scorporo di attività e stipendi, furti di pensioni e disastri demografici. Sul finire degli anni ’90, l’inganno era ormai stato svelato, si iniziarono a mettere in atto necessari correttivi e la Russia smise di flirtare con le democrazie occidentali.

La Cina invece scelse un percorso diverso – un kadarismo su scala epica. Il nome richiama il primo ministro ungherese, posto ai vertici del paese dai sovietici dopo il fallimento della rivoluzione del 1956, il quale poi dichiarò: “ se non siete contro di noi, siete con noi” e trovò così la strada per la liberalizzazione della società e della cultura e per un’economia basata sul consumo senza alcuna riforma politica. Moltiplicate il peso di ciò per un gran numero di volte e otterrete la Cina. Una cruciale cautela a metà degli anni ’90 evitò la liberalizzazione del controllo dei capitali, così nel 1997 la Cina sfuggì alla crisi finanziaria che investì l’Asia. Poi la crescita economica cinese negli anni 2000 diede vita ad un’incredibile circolazione di prodotti, rendendo possibile la rinascita del Sud America, il che portò per la prima volta in quei luoghi una democrazia sociale piuttosto ben radicata.

Fondamenta insufficienti

In Occidente, George W. Bush e Dick Cheney dimostrarono, in Iraq e in Iran, quanto fossero futili e obsolete le forze militari moderne. Al contempo, distrussero quel poco che rimaneva del rispetto in Oriente, dopo l’espansione della Nato e i fatti del Kosovo – oltre a perdere il rispetto di una parte significativa dell’opinione pubblica di molti stati europei – per l’idea secondo cui i valori occidentali erano dei principi guida e non soltanto dei vuoti slogan. La globalizzazione iniziò ad essere un sinonimo del fenomeno per cui una sola nazione, lavorando nel proprio interesse e senza dare ascolto a nessun altro, avrebbe posto i termini secondo cui il mondo sarebbe stato governato, usando la propria forza militare come ago della bilancia anche quando diventava ovvio, per qualunque osservatore esterno, che i costi superavano di gran lunga i benefici.

Poi, alla fine dell’era Bush, la grande crisi rivelò al mondo intero le vuote fondamenta della finanza occidentale. Nel decennio seguente, la conseguenza di dottrine economiche reazionarie e di politici incompetenti e testardi è stata la distruzione dell’unico grande progetto costruttivo dell’età neoliberale, vale a dire l’Unione Europea. Dunque, un decennio dopo che Wall Street aveva subito la stessa caduta dell’Unione Sovietica – ma era stata salvata e risollevata, a differenza dei Sovietici, con un sostegno fantasma da parte di Obama – abbiamo un mondo ormai vecchio, un egemone stanco con un’alleanza sfilacciata il quale dà inizio a battaglie che, come è improvvisamente costretto ad apprendere, non può più vincere davvero senza ricorrere ad una guerra nucleare.

In Siria, la Russia ha posto fine al progetto di un cambiamento di regime, con effetti che si estenderanno sul Caucaso, in Ucraina e persino nel cuore dell’Europa. In Africa e nell’Asia Orientale, la Cina si sta proponendo come leader assoluto nel settore ingegneristico. Questi fenomeni sono privi di una base ideologica: non hanno nulla a che fare con Marx, Lenin o persino col socialismo: è meramente una politica di consolidamento dell’interesse nazionale a scapito dell’influenza statunitense. In Sud America, per il momento, i regimi neofascisti e filoamericani sembrano resistere, ma non potranno farlo a lungo, e quando la gente sarà stufa di sopportare, i leader di quei Paesi dovranno chiedersi: “Chi interferisce con la nostra politica interna e chi non lo fa?”.

Guerra o depressione?

Dunque sì, c’è una crisi della globalizzazione. Ed è una crisi che sembra piuttosto brutta, preannunciando risultati catastrofici, forse una guerra apocalittica, ma molto più probabilmente una depressione in Occidente, con conseguente rinforzo delle strategie di sviluppo nazionale nel continente eurasiatico. La Cina, alla fin fine, non ha bisogno degli Stati Uniti, mentre la Russia può forgiare una serie di alleanze con i suoi vicini geograficamente strategici, inclusa l’Europa dell’Est. È molto probabile che questi processi, a meno che non scoppi una guerra o una rivolta interna, saprebbero ben resistere alle influenze esterne.

Per l’Occidente, tutto ciò pone una domanda profonda e difficile. Avendo distrutto la propria reputazione per valori superiori, avendo sacrificato la democrazia sull’altare della finanza, avendo mostrato disprezzo per le strutture di diritto internazionale del dopoguerra e, allo stesso tempo, avendo dimostrato che Mao non era molto lontano dalla realtà nel parlare della “tigre di carta”- avendo fatto tutto ciò, come ripristinare la propria posizione e la propria reputazione nel mondo?

Un po’ di umiltà, oltre a riconoscere che la deludente globalizzazione, come era stata pensata venti anni fa da persone decisamente folli, non è sostenibile, e un programma di ricostruzione nazionale e regionale focalizzato sulle sfide in campo sociale, nell’ambito delle risorse e dell’ambiente – questo potrebbe essere un buon punto da cui partire.

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