La Cosa: dalla Bolognina alla Leopolda

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Fonte: facebook

di Alfredo Morganti – 4 novembre 2014

Ricordate La Cosa? Non il docufilm di Nanni Moretti, ma il partito, QUEL partito nato dalla svolta della Bolognina. Per due anni tra l’89 e il 91 ci si riferì al succedaneo del PCI come ‘La Cosa’, appunto. Non fu a caso. Non ché mancasse la fantasia. Ma solo perché quel partito, in quella fase, era il figlio del ‘nuovo’. Di una nave che salpava senza una rotta, che tentava il mare aperto privo di una bussola. Una ‘cosa’ che nasceva in negativo, come una lacuna improvvisa, come un ‘no’ piuttosto che un ‘sì’. In quel vuoto ci dibattemmo per due anni, dicevo, sacerdoti di un ‘nuovo’ che stentava a identificarsi e affermarsi in positivo, e che nasceva nel mero ‘superamento’ della precedente cultura politica e nella ‘discontinuità’ (la parola più usata da Occhetto in quella fase.

Perché parlo di cose così vecchie? Perché la storia successiva è rimasta contagiata proprio da questo vizio d’origine. Il nuovismo non è nato ieri, non è renziano, ma è una specie di peccato originale che, a un certo punto, di getto, ha strappato l’ancora e ha condotto un battello glorioso ma da rinnovare in mare aperto senza nemmeno le istruzioni per la navigazione. In quei giorni è davvero prevalso il ‘né…né’. Un vecchio espediente teorico, nella fattispecie, per dire ‘né con la cultura socialdemocratica … né con il liberismo’. Ma in quei tre puntini centrali si spalancava sin d’allora un abisso culturale entro il quale siamo sprofondati pian piano. Strappammo il vecchio PCI dalla cultura socialista, ci rifiutammo ovviamente di portarlo di peso entro la più classica cultura liberale-centrista, ma il risultato fu un arnese che vagava nel vuoto della novità annunciata e mai scoperta davvero.

Cos’è oggi il PD? Il figlio naturale di questo vuoto culturale e l’orgoglioso erede del nuovismo della prima ora. Adesso è chiarissimo. Una leadership col buco attorno, potremmo dire metaforicamente. Un partito che ha come unico spazio politico proprio quello offerto dagli schermi dell’universo mediatico, dove le personalizzazioni del conflitto sono la regola. Dove la leadership è la sola vera risorsa richiesta. Ma poi, fuori dallo schermo, fuori dalla rete, fuori dall’immagine che resta di tutto ciò? Come cresce una classe dirigente in questo vuoto pneumatico di politica-politica, di cultura, di società? Male, cresce male. Non gode di contatto fisico, non sconta la pena di affrontare il sociale, non ‘percepisce’ realmente la vita quotidiana, non sa cosa sia una sfida di questo tenore. Vengono su delle mezze figure di intellettuali da blog, portatori di vassoi nei salotti radical chic, presuntuosi saccenti e rancorosi, lobbisti di se stessi e delle propria cricca, arrampicatori sociali, energumeni del web e via discorrendo. Non faccio nomi perché non mi importa di fare pubblicità a gente che non fa altro che cercarla.

E oggi Piero Ignazi su Repubblica spiega che non di sola leadership vive un partito. Perché senza un’organizzazione, senza un ‘partito’ appunto, la presa sulla società reale è zero, perché prima o poi si vedono disegni, complotti o si implorano per parlarne in tv e drammatizzare la scena politica a proprio vantaggio, individuando finalmente il nuovo nemico. Non è con le ‘cose’, con i partiti zerbino, con le Leopolde, con quel po’ po’ di giovani democratici cinici e arrivisti che si va lontano alla ricerca di un altro stato di cose. Da fuori, prima o poi, si sente d’improvviso l’odore della polvere che si alza ai piani alti, lo scalpiccio della gente in piazza, ritrovi confini e identità su cui sorridevi sarcasticamente sino a pochi giorni prima. Riscopri, ed è un bene, che la politica non è solo la merda e il sangue del Palazzo, ma ancor di più la merda e il sangue della strada, della piazza, dei quartieri, della fabbrica, degli uffici, delle scuole. Che la politica è una pratica spaziale, territoriale, un movimento reale di donne e uomini che si fronteggiano con idee e progetti da esporre, non un’avventura narrativa, un racconto senza basi concrete, oppure una narrazione svagata, un affare di marketing o, peggio, un annuncio. Tra la Cosa di Occhetto e la Cosa della Leopolda c’è il filo rosso del ‘nuovo’. E poi del vuoto culturale che ne è figlio.

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