di Marco Rosichini, 10 marzo 2017
Nella cultura della seconda metà del ‘900 si è molto parlato di “mutazione antropologica” (Pasolini, Scritti Corsari), di “società dello spettacolo” (Debord, Società dello Spettacolo), di “uomo a una dimensione” (Marcuse, L’uomo a una dimensione) ecc., tutte teorie che,tracciando un lungimirante e accurato spaccato della condizione umana nella società occidentale del XX secolo, presuppongono, quale più, quale meno, l’alienazione come stato di fondo dell’essere umano. L’uomo contemporaneo è per lo più totalmente assorbito dalla dimensione consumistica e spettacolare della società: vive una vita che si allontana sempre più dalla dimensione propriamente umana e si consuma in una routine ottundente e monotona, inglobato e paralizzato dal mondo fittizio della televisione e dello spettacolo, assimilato da un lavoro che ha perso la sua caratteristica centrale di fungere da strumento della realizzazione dell’uomo. La tematica dell’alienazione rappresenta,dunque, uno spunto critico per interrogarsi sulla realtà, riuscire a coglierne alcune dinamiche e comprenderne gli effetti che si ripercuotono sull’animo umano.
Per comprendere l’analisi effettuata in seno alla Scuola di Francoforte da Adorno e Marcuse riguardo alla condizione dell’uomo contemporaneo, alienato e etero-diretto, è bene ricordare in breve la concezione freudiana del rapporto tra individuo e società.
Alla base di ogni azione umana, Freud pone un principio pulsionale di natura sessuale, la libido, che agisce in base al principio di piacere e in opposizione adesso vi è il principio di realtà: “l’analisi effettuata da Freud sui modi in cui si articola il nostro desiderio lascia emergere chiaramente che nell’uomo vi è sempre un confitto insanabile tra il principio di piacere e quello di realtà, tra le pulsioni sessuali e quelle dell’Io”.
La civiltà, dice Freud, dà origine ad un Super-Io collettivo, ossia ad una serie di norme e di divieti a cui l’individuo deve sottomettersi, poiché infatti, come evidenziato nell’opera Al di là del principio di piacere (1920), “le tendenze aggressive proprie dell’individuo represse e rimaste inutilizzate vengono assunte nel Super-io e dirette verso l’Io invece che scaricate all’esterno”.
Ecco dimostrato come dall’impossibilità di scaricare le pulsioni immediate della libido, nasce quello che il padre della psicanalisi definisce il Disagio della Civiltà (Titolo dell’opera del 1930), ossia una sorta di “prezzo psicologico” che l’uomo deve pagare per vivere in società e “che comporta una riduzione della felicità personale a favore di una maggiore sicurezza, pagata però con un aumento progressivo del senso di colpa, direttamente proporzionale all’incremento della inibizione degli impulsi libidici ed aggressivi”.
Se l’uomo potesse, infatti, dar libero sfogo a tutte le sue pulsioni, la cui componente è in buona parte di natura aggressiva, sarebbe probabilmente impossibile sopravvivere, o perché diverrebbe una sorta di “debosciato” o perché, nella peggiore delle ipotesi, si scatenerebbe un bellum omnium contra omnes (notevole è l’influsso realistico-pessimista esercitato su questa tesi da Schopenhauer).
La conclusione a cui giunge Freud è che la civiltà sia il male minore a cui l’uomo deve sottoporsi, pagando un prezzo che consiste in un certo irriducibile margine di sofferenza, che può essere “sublimato”: ciò è possibile deviando la libido verso una meta non più sessuale, ma di natura artistica, intellettuale, sociale. Proprio il concetto di “Sublimazione” è ciò che lega Freud alla Scuola di Francoforte.
Una delle più geniali intuizioni di Herbert Marcuse è stata proprio quella relativa al concetto di “desublimazione repressiva”. Con questa espressione con cui il filosofo tedesco indica la particolare situazione vissuta dall’uomo dalla seconda metà del novecento in poi.
Partendo dal concetto di libido, Marcuse lo amplia inserendo il concetto di Eros, ovvero di un principio pulsionale che è finalizzato al godimento non prettamente sessuale, ma che riguarda tutto il corpo, considerato come aperto ad un godimento totalizzante, completo.
Con il termine “desublimazione” egli vuole denunciare la falsa libertà esistente nella società industriale, in cui apparentemente non vi sono tabù né repressione, sicché appare come una società permeata di permessivismo. Per di più, nella società contemporanea “la sessualità viene propagandata come stimolo commerciale, voce attiva negli affari e simbolo di status” ovvero il sesso viene istituzionalizzato, commercializzato, pubblicizzato fno al parossismo. Valga per tutti l’esempio del modo in cui la televisione ostenta oggi il corpo femminile nei modi più provocanti e subdoli, fino a squarciare lo stesso corpo femminile e rigonfiarlo di silicone o botulino ecc., ecc.). “Per Marcuse questa liberazione è solo apparente: la sessualità sembra venir liberata, mentre invece viene semplicemente liberalizzata e amministrata con lo scopo di adattare l’individuo alla logica della società”.
Ciò, dunque, implica che:
– vi sia un certo soddisfacimento delle pulsioni libiche
– il confitto tra principio di realtà e principio di piacere venga controllato dalla società,la quale stabilisce limiti e misure.
Mentre nel passato, poi, il sesso veniva represso, e in questa repressione era contenuta una disperata ansia di liberazione dalle norme sociali, dalle convenzioni e, in una certa misura, dalla società stessa, oggi quest’ansia di liberazione scompare e ciò perché la libido viene controllata attraverso un processo di “desublimazione” che diventa istituzionalizzata e per questo repressiva.
Ecco come si esprime Marcuse al riguardo: “l’energia libidica, quando la sua liberazione avviene in questa forma, muta la sua funzione sociale: nella misura in cui la sessualità è sanzionata e perfino incoraggiata dalla società (…), l’energia libidica perde quella che per Freud è la sua qualità essenzialmente erotica, cioè il momento della liberazione da tutto ciò che riguarda la società”.
Questa tesi è suffragata, infatti, dal fatto che al soddisfacimento immediato e parziale della libido non corrisponde un soddisfacimento in alcuna misura dell’Eros, principio che “manifesta la sua opposizione all’istinto gregario e respinge l’influenza delle masse”, e che agisce su una base di godimento ben più ampia di quella permessa dalla società odierna.
Da questo quadro appare chiaro che, con l’integrazione della sessualità nella sfera degli affari, non vi sia più un confitto profondo tra l’individuo da una parte (con il suo principio di piacere) e la società dall’altra (il principio di realtà), ma questa desublimazione non ha accresciuto la libertà individuale ma, di fatto, ha esteso il suo controllo sociale sull’individuo.
Riassumendo, appare chiaro che l’uomo venga controllato in una certa misura dalla società, poiché il mercato, o – come meglio sarà successivamente definito – l’industria culturale, fa leva sulle pulsioni proprie dell’uomo, fino ad avviare un processo di desublimazione che permette un indefinito e sempre maggiore accrescimento del proprio profitto, ammortizzando qualsiasi spinta di opposizione nei confronti della società stessa quale tutto è permesso fuorché la messa in discussione della società stessa. Ciò ha portato l’uomo a vivere secondo i frenetici tempi del mercato, asservito al capitale, e a consumare la propria esistenza attraverso il consumo dei propri beni: l’uomo non è più artefice dei mezzi per la soddisfazione dei propri bisogni, ma è un lavoratore (iper)attivo per quanto riguarda il profitto e un consumatore passivo, delle merci e, in definitiva, della propria vita.
Ne consegue che l’uomo, non interrogandosi più sulla sua natura di essere dotato di coscienza e per la mancanza materiale del tempo dedicato al pensiero, come si vedrà meglio in seguito, è portato ad identificare la ragione con la realtà e perciò “non scorge più il distacco tra ciò che è e ciò che deve essere; sicché per lui, al di fuori del sistema in cui vive, non ci sono altri possibili modi di esistere. Infatti il sistema tecnologico ha la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l’individuo in un frenetico universo consumistico”.
L’uomo, conclude Marcuse, è ad una dimensione: alienato.
Questa alienazione è ancor più tangibile nell’analisi del concetto di “industria culturale” introdotto da Adorno. Egli, con quest’espressione, intende l’insieme dei media (televisioni, giornali, radio…) e degli enti che vendono prodotti artistici e culturali (editori, case di produzione cinematografica…) che non considerano l’uomo come soggetto dotato di effettiva libertà di scelta, ma come oggetto, ovvero come consumatore “amministrato”. “Infatti l’industria culturale suscita bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed etero-diretti, annullandoli come persone e riducendoli ad una massa informe”.
L’uomo è alienato perché essendo costantemente bombardato dalla possibilità di scelta prefigurata dalla pubblicità, ma di fatto egli non è libero di scegliere nulla se non ciò che viene imposto dal mercato.
Questo fenomeno si è ancor più evidenziato con il vertiginoso sviluppo del mercato globale che ha visto e vede sempre più un aumento costante del potere delle multinazionali che schiacciano economicamente ogni concorrenza configurandosi di fatto come monopolio economico.
La vita quotidiana offre moltissimi spunti e valga per tutto quello dei grandi centri commerciali, templi del “Bisogno Indotto”, in cui l’acquisto è agevolato nella misura in cui viene velocizzato ed è occultamente diretto dalla presenza, sugli scaffali, solo di alcuni prodotti verso cui l’uomo viene deviato attraverso le campagne pubblicitarie.
Ecco perché, come scrivono Horkeimer e Adorno: “L’industria culturale, la società ultraorganizzata, l’economia pianificata hanno realizzato l’uomo come essere generico: privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere”.
Un parere interessante al riguardo è quello di Pasolini, che riguardo alla falsa permissività della società si esprime così:
“il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria-in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)-e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione esercitata dal potere sulle masse dei cittadini.(…) ‘in una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa, si può far solo quel qualcosa’.”e a proposito dell’omologazione culturale: “per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli, che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.
Alla luce della storia ultima di questi anni, le parole di Pasolini assumono quasi carattere profetico e, soprattutto, consistono in una valida prova a favore delle tesi della Scuola di Francoforte: la “mutazione antropologica” di cui Pasolini scrive nelle sue opere, è la manifestazione ultima del processo di desublimazione repressiva e industria culturale che Marcuse e Adorno teorizzavano negli stessi anni. Insomma, l’approccio ad una medesima conclusione da parte di un filosofo e di un letterato, con iter culturali differenti, sono la chiara testimonianza di un processo di alienazione e disumanizzazione che la Storia contemporanea ha provato essere reale.