LA COLLINA DEL VOMERO A NAPOLI. MEMORIE E RICORDI

per Filoteo Nicolini

LA COLLINA DEL VOMERO A NAPOLI. MEMORIE E RICORDI

Ho chiuso provvisoriamente le porte del futuro e si sono aperte quelle del mio passato remoto, col ritorno dei fantasmi di ieri che in processione restituiscono in immagini la mia storia familiare. Le mie prime esperienze da piccolo si svolsero in un quadrilatero ideale con al centro la Piazza Vanvitelli al Vomero, collina di Napoli. Il nome Vomero deriva dal greco βωμός cioè collina, a cui si aggiunse con i secoli una sottile allusione al vomere dell’aratro e alla naturale vocazione agricola della collina, detta dei broccoli.

Allora ci si muoveva poco, scendere giù Napoli era già uno spostamento considerevole, e si vivevano intensamente quelle strade e quelle viuzze, quali luoghi dell’anima che va prendendo forma e carattere. Naturalmente, le parole son poca cosa se paragonate con i fatti e i vissuti. Affido ad esse il mio limitato sentire e lascio immutate le parole in napoletano.

I soprannomi.

“Fate a mio modo Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzeccagarbugli, raccontategli… ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome.” Come magistralmente ci racconta Manzoni, allora come oggi, è molto più agevole identificare una persona col suo soprannome piuttosto che col nome o cognome.

Emergono dal passato gli echi dei soprannomi che mio Padre usava per immortalare conoscenti e famigliari. Erano epiteti evocativi di qualche caratteristica presa di mira e infissa nella parola fugace, allusiva, anonima, ma che pure identificava la persona, un’arte sempre degna di una scuola di esoterismo. Solo da pochi anni ho saputo il nome di pila (Vincenzo) di un cugino falegname di mia Madre, con bottega di fronte alla nostra. Ne era fatta sistematica allusione come “Palluccella“, a causa di un piccolo gonfiore sul collo di forma rotonda.

Seguiva a destra il negozio di scarpe di don Mario, e poi c’era un vinaio energico e molto corpulento, sempre attivo nello scarico di botti e barili con degli assi di legno, a cui ci si riferiva come “Purpettone”, ma sempre a bassa voce e ammiccando, per carità! Ne ho sempre ignorato il nome di battesimo.

“Don Peppe ‘o ciclista” era dirimpettaio anche lui, esperto in meccanica leggera. E si arrivava alla falegnameria di Salvatore Volpicelli, fine ebanista. In quei lontani anni c’era al Vomero chi poteva permettersi un ebanista per la fabbricazione dei mobili, ma tanti altri si accontentavano del falegname. Io da piccolo lo chiamavo Daddà. Ebbene, Salvatore era ” O’ Prufessore” perché esperto nel gioco del tressette. Ma il soprannome era versatile e varie volte mi fu affibbiato, in occasione di certe puntualizzazioni inutili, da mio Padre e mia sorella maggiore. C’erano anche soprannomi di “ritorno” come quello con il quale amici giocatori di carte battezzarono mio Padre per via della sua assidua frequentazione alla Chiesa dei Salesiani di Via Scarlatti. Io ero il figlio del “Parrocchiano” senza possibilità di equivoci. Il ristorante la Pagliarella ospitava anche riunioni di amici vomeresi di Papà, che vi giocavano scopa e tressette. Tra gli amici del gioco a carte c’era il pittore Monaci e un tale di soprannome Ciuccio, che a Napoli allude al somaro. Il pittore Monaci volle immortalare in un quadro affisso alla parete del ristorante alcuni di quegli amici intenti a giocare. C’era un asino dalle grandi orecchie che dà le carte di gioco, e un personaggio col cappello di Don Camillo allusivo a Papà Parrocchiano: chissà dove sarà finita quella viva testimonianza di spensierati momenti. Di un fratello maggiore di mio zio ascoltai senza ombra di dubbio, a bassa voce e sotto l’intimazione del silenzio, il soprannome “o’ cannibbale” per via di una evidente dentatura a castoro.

I luoghi.

In Via Cimarosa, di fronte alla storica Funicolare di Chiaia, c’era Fernando il parrucchiere, la Farmacia Orlando e la salumeria dove vi lavorava un altro parente. Qui, proseguendo idealmente su Via Bernini, ricordo la polleria con le gabbie di legno e le galline vive in bella mostra, unico locale dove mio Padre non metteva mai piede per una sua certa sensibilità agli odori. La trattoria Da Sica di cucina tradizionale, di rinomata fama e ritrovo di intellettuali, era adiacente alla sottostante officina di fabbro Cerrone, accessibile per mezzo di una scaletta in ferro, dove a volte si ordinavano staffe e angoli di ferro su misura. La Pizzeria Gorizia, inaugurata nel 1917, aveva di fronte il frequentatissimo Banco del Lotto, dove solerti impiegate con i loro “scippetielli” ad inchiostro redatti ad alta velocità sancivano la giocata di chi tentava la sorte. Se non ricordo male, all’ora della estrazione i numeri vincenti anch’essi scritti a mano erano affissi sulla porta per la gioia o delusione degli interessati. Ciccolella era il nome di un negozio di giocattoli; mai ne varcammo la soglia, mi limitavo a qualche sguardo languido alla vetrina.

Piazza Vanvitelli, nei miei ricordi oltre il bar Sangiuliano godette di altri due bar, Giulietta che era piccolo ed accogliente, e Romeo più grande e con i tavolini dentro e fuori. C’era anche una vendita di vino sfuso, e intravidi più di un avventore che beveva del vino appena spillato dalla botte, così in piedi. Ricordo anche l’orologio e le palme al centro e anche un palazzo col portone che rimase socchiuso per la quarantena di persone contagiate dal vaiolo. Nella Piazza stazionavano filobus e autobus. Nei due bar si giocava la Sisal il sabato e si tentava la sorte. A questo proposito, correva la voce che il gioco dei tredici risultati azzeccati fosse stato inventato alla Pagliarella, ovvero la trattoria con le finte carrozze ristorante di Emanuele e i suoi cari famigliari, che si trovava scendendo la “Santarella” a mano destra, con vista sui vagoni veri della Funicolare. La “Santarella” è ancora il nome di via Luigia Sanfelice in allusione alla commedia di Eduardo Scarpetta e alla sua villa all’incrocio con via Palizzi.

Alla “Santarella” ricordo un Ambulatorio di Pronto Soccorso, le villette ad un lato, il muretto che volge al Golfo; era luogo di passeggiate pomeridiane insieme a mia Madre. Il traffico di auto era praticamente inesistente. Ma il luogo preferito per andare a passeggio era la Villa Floridiana, allora percorribile integralmente, di cui ricordo la scalinata del Museo, le panchine, i vialetti, il teatrino, la fontanella dove una foglia di magnolia piegata a barchetta fungeva da improvvisato bicchiere, e poi i frutti di Eucaliptus che raccoglievo nella parte adiacente alla Villa Lucia. Emanavano un profumo durevole e ne serbo vivo ricordo.

Nella Floridiana si era istallato il Comando Alleato dopo le Quattro Giornate del ’43, secondo i racconti famigliari. Della Piazzetta Ferdinando Fuga ho varie immagini: la Pensione Margherita, la dattilografia, e poi la vendita di Carni Equine, così diceva l’insegna, di fianco alla Funicolare Centrale. Nella credenza che quelle carmi sanguinolente e dal sapore dolciastro nutrissero bene i bambini, me ne furono somministrate non poche fette durante l’infanzia, ed al ricordo del sapore sgradevole debbo il mio essere vegetariano in età matura. La Piazzetta Fuga terminava con la elegante Villa Haas, di fronte alla storica Friggitoria.

Risalendo Via Kerbaker, conservo le vive immagini di una merceria di un parente dove si rammendavano le calze, la bottega di un caro amico paterno, e gli innumerevoli negozietti di alimentari. In uno di essi si vendeva la pasta sfusa, spezzata ed incartata al momento, in un altro si poteva acquistare il “mazzetto” di erbe per il brodo da Donna Teresina, che aveva anche una tavola calda; questa tavola calda c’è ancora ora, gestita dal figlio Luigino che da giovane mi portava in moto seduto sul serbatoio. Anni fa lo ritrovai sull’uscio e mi riconobbe senz’altro per la somiglianza con mio Padre. All’angolo poi c’era la latteria da un lato e la macelleria dall’altro.

E poi il luogo natio, quel palazzo dove al primo piano venni al mondo. All’epoca si partoriva in casa. Anni dopo quel palazzo ospitò il Bar Mexico e la sua torrefazione. Quale odore più gradevole era quello del fumo che accompagnava la tostatura e si spargeva per androni e scale! Nel cortile fu eretto un pupazzo di neve in occasione della nevicata eccezionale del ’56, giorno festivo a scuola, e ricordo anche qualche intrepido giovane con lo slittino a via Scarlatti! Riscaldamento non ne avevamo, e nelle giornate più fredde ci si riuniva in cucina accendendo un poco il forno e lasciandone aperta la porticina.

Ho un vago ricordo dei binari a via Scarlatti che permettevano al tram di arrivare fino a San Martino, poi rimossi.

Di fronte alla casa c’era il panificio con i migliori tarallini all’olio, il negozio di biancheria intima Fulmine di Gallifuoco, e scendendo la via Scarlatti la Farmacia Cannone, dove si facevano preparazioni galeniche, ovvero le famose “cartine” da sciogliere in acqua o deglutire nell’ostia.

In quei tempi il farmacista Tibaldi era il punto di riferimento a cui rivolgersi per qualche malessere, perché molto raramente si andava dal medico. Una schiera di addetti prelevava dai barattoli di vetro i principi attivi da mescolare a tale scopo. Poche le medicine già confezionate. Nella Farmacia si facevano anche iniezioni in caso di necessità.

Mio Zio lavorava come conduttore di vagoni alla Funicolare Centrale, e le intemperie della cabina di guida non giovarono certamente alla sua salute. Durante i frequenti bombardamenti della Guerra la mia Famiglia si rifugiava nella galleria della Centrale, al buio per ore ed ore in attesa del cessato allarme. La sera prima di andare a letto si lasciava tutto pronto per fare in fretta e non perdere istanti preziosi che potevano costare la vita.

Nel palazzo della farmacia entravo spesso perché ci viveva mio zio e la Famiglia. Casa accogliente e solare, dove mi intrattenevo con una cugina più avanti di me negli studi. Mia zia era sarta, con vari parenti sempre al Vomero, uno di essi era stato apprendista con mio Padre, poi fatto prigioniero e dato per scomparso era finito in Australia fino alla pace. La casa aveva il piccolo servizio igienico all’esterno sul balcone, esposto alle intemperie notturne e invernali, ma era cosa frequente nelle costruzioni precedenti la Guerra. Il lato più lungo di via Kerbaker, interrotto a metà dalla Piazzetta Durante, terminava ai Cacciottoli, dove a poca distanza erano nate le mie zie e mia Madre. La Nonna materna allevava qualche gallina su una specie di terrazzino, e vicino c’era una masseria con le mucche. Tutto questo a non più di poche centinaia di metri da Piazza Vanvitelli, in un luogo detto “abbascio ‘a Croce” per via di un Crocefisso. La Processione di Pasqua vi passava vicino ed era ricevuta da una scarica di fuochi artificiali, segnale di allegria e devozione popolare. E lì viveva un parente della Nonna fruttivendolo ambulante e venditore di caldarroste nell’autunno.

Ero il più piccolo e mia Madre aveva per me un occhio particolare nell’alimentazione, memore dei patimenti e le penurie della Guerra. Era un essere dolce e dai modi fini, e mi affidava volentieri alle zie nella consapevolezza che ne avrei ricevuto lezioni di vita esemplari. Era di salute cagionevole e si dispiaceva del mio carattere irruento. Andavamo spesso a trovare la Nonna materna, col regalo di zucchero e caffè, e poi le tre zie per le visite rituali. La Nonna mi dava un cucchiaino di caffè, dato che a Napoli la bevanda è un culto a cui si è iniziati presto!

Una mia zia carissima, nata appunto giù Via Kerbaker, da sposa si trasferì di fronte alla casa della Nonna e anni dopo in un cortiletto cinquanta metri più sopra, dove vi andavo a giocare con le mie cuginette. Poi in un nuovo trasloco si spinse cento metri più su, al lato del Cinema dove abitò il resto della sua vita! Quando si dice l’affezione alla strada dove si è nati!

La casa di questa zia era la mia meta frequente per giocare con le numerose cugine, spesso vi rimanevo a cena e provavo altri sapori e godevo di una maggiore informalità.

Girando l’angolo, si apriva la via Solimena. La pronuncia vomerese antica, immutabile di fronte ai suggerimenti fonetici corretti, è via Solìmena, accento sulla i. Lì c’era la Sezione municipale per anagrafe e stato civile, al lato un altro Ambulatorio dove dovetti ricorrere in una opportunità da bambino e poi da giovane per la vaccinazione contro il colera. Nella parallela Massimo Stanzione completai le elementari che avevo iniziato a via Merliani, mentre per la scuola materna ero stato dalle Suore di Maria Ausiliatrice a via Enrico Alvino. Le elementari e le medie, entrambe in classi rigorosamente maschili.

Il destino vide altre due sorelle di mia Madre, due zie carissime, lavorare insieme in un laboratorio di sartoria che divenne rinomato col passare degli anni. Scherzosa e sempre di buon umore l’una, popolare e dal verbo fiorito, seria e concentrata sul lavoro l’altra per la responsabilità di condurre l’atelier e brava come tagliatrice delle stoffe. Varie “figliole” intorno al tavolo del cucito tra cui mia sorella eseguivano il lavoro invisibile. Nei fitti dialoghi ascoltai ed appresi un’arte di raccontare e commentare, fatta da approssimazioni e fulminee frasi passionali che non mi ha mai abbandonato, neppur con gli studi scientifici. Ora mi vengono alla memoria altri due soprannomi. La zia di età maggiore, titolare della sartoria e creatrice di modelli molto richiesti dal pubblico femminile vomerese per le prime al San Carlo, era sposata senza figli con mio zio autodidatta e intraprendente costruttore. Papà era suo amico da giovane e si riferiva a lui come “o’ scenziate” per la sua passione di leggere quanti manuali e notizie scientifiche gli capitassero a tiro. E in occasioni speciali, quando questo zio era accompagnato da mia zia, Papà li chiamava “e scenziate” al plurale estendendo il nomignolo alla coppia!

Recarsi alle Case Puntellate a ridosso di via P. Castellini a casa di un’altra Zia era tutto un viaggio a piedi, in occasione delle dovute visite di Natale e Pasqua. Era una casa semplice e dai parati scoloriti, memoria evidente della guerra. E un altro viaggio era arrivare al prolungamento di via Scarlatti al bar Sangiuliano, dotato di un apparecchio TV posto in alto, dove mia sorella maggiore mi condusse qualche volta per assistere il giovedì a Lascia o raddoppia.

La clientela di mio Padre era costituita in maggior parte da professionisti di classe medio alta, in quanto il Vomero ne era divenuto residenza preferita. Ma allo stesso tempo il quartiere ospitava come si è visto piccoli artigiani, contadini, operai, gente semplice e povera in canna, come lo erano i miei parenti in origine, tra i quali c’erano due falegnami.

Valga qui un solo esempio: un caro amico di mio Padre di professione vetraio che dal Casale di Posillipo veniva la mattina a via Cimarosa a vedere se c’era qualche lavoretto per lui, e chiedeva se c’era stata eventualmente una “chiammatella” di qualche cliente bisognoso di rimpiazzare un vetro rotto. Eravamo, come dire, il suo recapito. Molto spesso, deluse le sue aspettative, trascorreva la giornata seduto a leggere; ad una certa ora mi chiedeva di andare a comprare pochi spiccioli di pane ed olive alla salumeria all’angolo, e me ne offriva parte con una naturale generosità. Confesso che ancora oggi mangio pane con olive in omaggio alla semplicità dell’alimento, in silenzio, ricordando quei momenti. E come gli si illuminavano gli occhi quando appariva un lavoro grande, un “lanternino” ovvero un lucernario completo dove sostituire tutti i vetri e sigillarli con lo stucco! Ed allora offriva spontaneamente spendendo parte del guadagno.

Appresi da piccolo nel laboratorio sociale vomerese quella porosità descritta magistralmente da W. Benjamin, ovvero la coesistenza tra le differenze, la permeabilità, i rimescolamenti e sconfinamenti tra povertà e ricchezza. Imparai che scendendo la “Santarella” delle villette e le residenze signorili passando per la Villa Herta si arrivava alle Scale del Petraio, luogo di bassi e vita povera al di sotto del Castel Sant’Elmo. Lo stesso accadeva ai Cacciottoli a ridosso del signorile Viale Michelangelo, lasciando Piazza Leonardo e percorrendo la omonima strada sotto G. Santacroce per arrivare al Corso, oppure alla Calata San Francesco quando dal Belvedere si scendeva fino alla Torretta attraversando Aniello Falcone; alla “Pedamentina” che dalla Certosa menava giù fino Montesanto. Infine, la via Pigna che lasciato Antignano serpeggiava scendendo a Soccavo tra poderi ed alberi di frutta e casette umili.

La collina del Vomero era raggiungibile con le tre funicolari, si scendeva a Napoli, si risaliva al Vomero. Anche topograficamente ciò assumeva carattere di simbolo.

Il Vomero non era solo strade e luoghi, ma anche voci e vita, odori e colori, emozioni e battiti. Il Teatrino dei Salesiani ospitava la Filodrammatica, dove svolsi a volte il ruolo di suggeritore giù nella buca, e la domenica c’era l’immancabile pellicola edificante. L’Oratorio dei Salesiani l’ho frequentato da ragazzo con assiduità: felice combinazione di luogo di giochi e educazione religiosa, formidabile palestra di socialità, amicizie, scambi e anche litigi passeggeri. Si organizzavano anche gite e colonie, e conobbi luoghi montani della Campania e le Alpi piemontesi.

Era strettamente limitato ai maschietti; ma a metà degli anni 60 un illuminato parroco, reduce dalle missioni in Sud America e forte degli aggiornamenti conciliari, aprì una Sala Parrocchiale al lato della Chiesa, aperta anche alle ragazze!! C’era il tavolo di ping-pong, sedie e tavoli, riviste. L’orizzonte della socialità si estese, apparirono le sorelle degli amici, i primi dialoghi timidi, e col tempo l’invito a qualche festa ballabile di compleanno. Conobbi giovani che studiavano per essere geometri o ragionieri, e poi c’erano i liceali. Tutti amici per la pelle, le differenze sociali non ostacolavano i legami. E c’erano anche quei ragazzi di origini semplici, poco o nulla istruiti, originari dalle zone periferiche del Vomero e bravi a giocare al pallone, diremmo oggi dei veri monelli. Alcuni li conoscevo già dalle elementari; poi li rividi solo ai Salesiani, furono disertori scolari che cercavano un avviamento al lavoro.

Alla corsa dei “carruocioli”, ovvero veicoli di fabbricazione artigianale e rudimentale, partecipò una volta anche mio Fratello alla guida di un “bolide” tipo bob, spinto da un caro amico. Con partenza dalla via Morghen si scendeva a tutta velocità sfruttando la pendenza di via Cimarosa, via Donizetti e via R. Lordi, per poi confluire nella Santarella. Un cronometraggio difettoso gli tolse gli allori e la vittoria, almeno stando al suo commento a caldo. Spuntano tanti ricordi. Faceva capolino la TV, si ascoltava alla radio a valvole il dramma e la musica classica e lirica.

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Quel Vomero non c’è più. Da alcuni decenni è divenuto quartiere di alta borghesia, con la scomparsa di giardini e villini sostituiti da fabbricati in cemento armato. Oggi è luogo di locali all’aperto, shopping e vetrine, preda di visitatori oziosi. Per me irriconoscibile.

 

FILOTEO NICOLINI

Immagine: Piazza Vanvitelli anni 50

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